Doyle vs. Holmes
ovvero la vittoria del personaggio

di Dario Cillo

 

In una calda giornata del luglio del 1930, a Crowborough, nel Sussex, si spegneva Sir Arthur Conan Doyle. Nel corso dei settanta e più anni della sua esistenza aveva affrontato non poche avventure e vissuto in prima persona più guerre, durante quell'età Vittoriana che segnò l'apogeo ed il tramonto del primato della sua nazione.

Era nato ad Edimburgo nel 1859 e solo a quindici anni aveva potuto visitare Londra, la città che, specie con i suoi sobborghi, sarebbe diventata, come per il contemporaneo Machen, il centro degli intrighi e dei misteri che avrebbero animato molti dei suoi racconti e romanzi.

Laureatosi in medicina preferì dedicare il suo tempo alla lettura ed alla scrittura piuttosto che alla noiosa e spesso inoperosa attività professionale presso il suo piccolo ambulatorio.

Tra i tanti autori che riempivano le sue giornate egli prediligeva quelli che, come Poe col suo Dupin, sapessero destare in lui le magiche ed antitetiche immagini del mistero e della logica.

Amava anche l'armonica fusione della fantasia con la storia e spesso si lasciava trasportare verso anni sconosciuti abbandonandosi alle abili atmosfere nate dalla penna di Walter Scott.

Come scrittore egli realizzò alcuni romanzi storici ormai quasi del tutto dimenticati, The White Company (1892) e The Exploits of Brigadier Gerard (1896), i romanzi fantascientifico-avventurosi centrati sulla figura dello scienziato deriso ed incompreso George Edward Challenger (1) o su quella dello studioso Maracot (The Maracot Deep), ed innumerevoli e svariati servizi giornalistici. Le opere The Great Boer War (1900) e The War in South Africa: its Cause and Conduct (1902) gli fruttarono il titolo di baronetto che egli, dopo non poche reticenze, si sentì costretto ad accettare per non scontentare la madre. Passò gli ultimi anni immerso negli studi sul paranormale e sullo spiritismo da cui furono certo influenzati i suoi splendidi racconti gotici, scritti intorno al 1922, e da cui derivò la voluminosa summa The History of Spiritualism.

Nessuna di queste opere, nate da tanta passione, da tanti e svariati interessi, riuscì a far amare e conoscere il suo lavoro né evitò che il suo nome venisse completamente dimenticato dal grande pubblico. Nulla di strano sarebbe da riscontrare in tutto questo, viste le tortuose e sempre imprevedibili vie della fama letteraria, se una sorte diametralmente e paradossalmente opposta non fosse toccata ad una delle creature nate dalla sua fervida e laboriosa fantasia, Sherlock Holmes.

La figura di questo allampanato, saccente detective appare ancor oggi, malgrado i suoi cento anni, fresca e presente, quasi 'concreta', negli affetti e nella memoria collettiva, mentre quella, solo apparentemente più reale, del suo geniale ideatore sembra inspiegabilmente condannata ad un destino di più o meno volontaria rimozione.

Che un personaggio possa assumere tanta realtà da incontrarsi e confrontarsi col suo autore, arrivando a criticarne i sistemi o, addirittura, la stessa superiore 'presenza', è un dato incontrovertibile ed ormai archiviato nel grande catalogo della finzione letteraria. Due i casi più emblematici di questa ricercata confusione tra il piano estetico e quello del reale:

da un lato il Pirandello della novella La Tragedia di un Personaggio, prologo ai Sei Personaggi in Cerca d'Autore, dall'altro il De Unamuno di Niebla.

Più difficile riesce accettare che un tale incontro, che irrimediabilmente dovrà trasformarsi in uno scontro, possa realizzarsi sul mero piano del reale, o di quello che almeno si presume tale, e concludersi, per di più, con la vittoria del personaggio. Eppure tutto ciò è avvenuto ed è la materia stessa della vita di Sir Arthur Conan Doyle.

La nascita del personaggio fu più o meno casuale. Lo studente di medicina era rimasto favorevolmente impressionato, nel corso dei suoi studi, dalle eccezionali doti deduttive di un suo maestro, tal Joseph Bell. Questi, si narra, spesso riusciva a comprendere le malattie o addirittura la professione dei suoi pazienti già al primo, fuggevole sguardo.

Da questa felice suggestione nacque l'idea e nel 1887, con la pubblicazione del romanzo A Study in Scarlet, già terminato nella primavera dell'anno precedente, Sherlock Holmes fece la sua prima apparizione fra le pagine del "Beeton's Christmas Annual for 1887". Il romanzo non ebbe il successo sperato ed il suo autore avrebbe definitivamente archiviato questa parentesi poliziesca se, nel 1889, l'editore americano del "Lipincott's Magazine", entusiasta lettore, non avesse invitato Doyle ed un altro giovane promettente, Oscar Wilde, ad un pranzo di lavoro; nacquero così, quasi contemporaneamente, The Sign of Four (1890) e The Picture of Dorian Gray (1891).

Holmes aveva definitivamente raggiunto il successo. Il suo autore cominciò da allora ad essere continuamente e tenacemente pregato, stimolato, obbligato dal suo editore e dal pubblico a creare incessantemente nuovi spazi 'vitali' per il personaggio. Il giorno e la notte si confondevano per Doyle costretto ad un lavoro indefesso per soddisfare tante richieste. Qualsiasi pretesa economica gli veniva concessa, non v'era cosa che gli fosse negata purché la sua creatura 'vivesse'. Così, in due anni e mezzo, più di venti racconti furono pubblicati sullo "Strand Magazine" e, in questo periodo, la creatura divorò tutto il tempo e gli interessi del suo creatore.

Eppure nulla di positivo, salvo l'eccezionale fiuto investigativo e le sorprendenti capacità logiche, l'autore concedeva al personaggio che, pur accumulando nuovi inconfessabili vizi, una sempre più spiccata misoginia ed un crescente, smisurato egotismo, continuava inspiegabilmente a piacere.

L'unica soluzione rimasta era quella di uccidere Holmes.

Doyle l'aveva già progettato nel 1891, ma si era arreso davanti alle rimostranze della madre, nel 1893 però la decisione divenne irreversibile: nel corso di The Final Problem il grande detective precipitava dalle cascate di Reichenbach avvinghiato al suo più grande nemico, suo alter-ego in negativo, Moriarty.

Questa soluzione che avrebbe dovuto rappresentare la definitiva, completa vittoria del 'reale' sul 'fantastico', divenne al contrario la sua più schiacciante sconfitta.

Doyle, ormai libero dalla pressante convivenza con Holmes, decise di dedicare le sue fatiche ad opere più meritevoli ed in ogni caso degne di un pubblico più colto che lo celebrasse come loro autore. Ma, e qui i termini del paradosso si fanno chiari e palpabili, il suo lavoro venne sistematicamente ignorato e, forse deliberatamente, boicottato. Mentre continuavano a giungergli lettere di protesta per la sua decisione riguardo Holmes, le uniche segnalazioni del suo nome erano in relazione alla sua creatura scomparsa di cui si chiedeva una pronta anche se inverosimile riesumazione.

Fu così che Holmes, nel 1901, risorgeva dalle sue ceneri con una nuova, lunga avventura, The Hound of Baskervilles.

La storia vuole che una parziale riconciliazione nascesse dopo la lunga 'forzata' frequentazione tra il creatore e la sua creatura; certo è che Doyle continuò a sfornare avventure per il suo personaggio fino al 1927 e che l'intero ciclo, alla morte dello scrittore, contò, oltre a quattro romanzi brevi, cinquanta e più racconti.

Malgrado lo sforzo e l'abnegazione di Sir Arthur, Sherlock Holmes non si è accontentato di morire col suo autore. Con la cieca immortalità degli oggetti il celebre investigatore continua ancor oggi a manifestarsi nel nostro immaginario tramite un'innumerevole serie di apocrifi che, parodiando, contraffacendo o continuando l'originale, ci accompagnano non più solo nella lettura, ma anche, con formule più o meno valide, attraverso cinema e televisione. Il personaggio è tanto 'vivo' e 'reale' che molti continuano a scrivere al numero 221 di Baker Street chiedendo all'infallibile detective la soluzione di infiniti ed improbabili enigmi ed ottenendo, da una volenterosa segretaria, prima adibita ad altri incarichi presso l'ufficio che qui ha sede, infinite ed improbabili soluzioni.

Corre quest'anno l'anniversario del primo secolo di 'vita' di Sherlock Holmes e molteplici e svariate celebrazioni sono in preparazione o già in corso in Inghilterra. Qui non fa alcun effetto, a quanto pare, sentir lanciare dall'ex ministro degli interni, mentre passeggia per le labirintiche stanze del parlamento inglese, vestito di tutto punto alla maniera del famoso investigatore, l'accusa di essere un 'Moriarty' a qualche collega di opposta tendenza.

Alle soglie del duemila quindi l'ormai secolare personaggio gode di ottima salute e la sua fortuna sembra non aver subito alcun calo malgrado gli anni.

E' stato proprio lo straordinario successo di Sherlock Holmes ad animare, in questi cento anni, alacri e svariate ricerche sul suo conto.

Il criminologo ha disquisito sui rivoluzionari sistemi d'indagine che, a quanto pare, Holmes è stato il primo a proporre ed usare in quell'età positivista in cui visse ed operò.

Lo psicanalista non si è lasciato sfuggire l'occasione di investigare sugli ambigui rapporti fra Sir Arthur e la sua onnipresente 'mamma', o, se mai, d'accordo col sociologo, ha approfondito quello strano miscuglio di protagonismo e masochismo che regola l'immedesimazione del pubblico col personaggio.

Il filosofo ed il semiologo, a loro volta, hanno approfondito e minutamente sezionato i processi logici e mentali che regolano la cosiddetta 'abduzione' holmesiana.

Anche qui, da lettori, si vuole avanzare una proposta d'indagine. Ciò su cui si ha intenzione di indagare è lo strano paradosso che sembra avvolgere il contrastato rapporto fra la creatura ed il suo creatore, attraverso il quale sembra manifestarsi una sorta di parabola, di allegoria, delle tortuose e oscure vie della stessa creazione letteraria.

Le vie da tentare per ottemperare a questa ricerca sono due, diverse e, forse, complementari: l'una, se possibile, logica, l'altra scopertamente fantastica e facilmente riconducibile a tante delle metafore borgesiane.

Finora gli elementi considerati sono stati esclusivamente l'autore ed il personaggio, ma ad essi se ne deve aggiungere un altro, solo apparentemente meno incisivo, il pubblico-lettore.

Ogni tipo di fruizione letteraria ha urgente necessità di tutti e tre questi mezzi per potersi realizzare come tale e di conseguenza ogni analisi deve partire almeno da essi per poter risultare valida e funzionale al suo scopo.

La figura dell'autore appare, nel contesto qui esaminato, la più succube ed ignara. Doyle subisce la situazione senza comprenderla, senza trovare una soluzione; tenta, è vero, di attuarne di drastiche (l'eliminazione del personaggio) ma ottiene solo il risultato contrario a quello che si era proposto. Il suo ruolo diventa quindi elemento 'fuorviante' ed 'estraneo' nell'ambito della nostra discussione e la lettura risulta più agevole e corretta se il suo campo d'azione può essere ristretto ai due soli poli di indagine del pubblico-lettore e del personaggio-opera, escludendo proprio la vittima, il creatore.

Le vie percorribili, dato l'autore non più come soggetto, ma al contrario come oggetto inconsapevole, sono quindi solo due, anche se non necessariamente inconciliabili: o è il lettore a dar vita al personaggio, oppure (e qui il paradosso si fa stringente e raggiunge le sue estreme conseguenze) è la creatura che, una volta creata, assume una vita autonoma ed indipendente da qualsiasi influenza esterna.

Se accettiamo il presupposto che il lettore, nel quadro della metafora dello scontro fra autore e personaggio, non sia solo un nascosto mediatore, ma che, al contrario, sostenga un ruolo principale, dobbiamo allora riconsiderare la nostra stessa visione della creazione letteraria.

Quando l'autore termina la scrittura di un'opera, infatti, essa altro non è che un inutile contenitore di significanti dotati dell'unico possibile significato che egli attribuisce loro.

Solo quando lo scritto prende vita tramite la lettura esso perde la sua originale finitudine ed inutilità. Acquisisce allora, attraverso labirintiche ed infinite aggregazioni di significanze, quella vita e quella dinamica che ne fanno realmente un oggetto letterario, un'autonoma individualità dotata della magica facoltà di concretizzare l'immaginario e di riprodurre senza fine se stessa attraverso inesauribili metamorfosi.

Se quindi il vero creatore risulta essere il lettore allora il dissidio col personaggio non ha più ragion d'essere; ogni contraddittorio o paradosso sfuma, e l'eclissi dell'autore, dopo la 'creazione materiale', appare se non giusta, pienamente giustificata e comprensibile.

Accanto a questo tentativo di spiegazione però se ne deve profilare un altro, apparentemente opposto, dichiaratamente fantastico, ma saldamente ancorato all'impianto testuale della narrazione.

Doyle infatti approfitta nel suo lavoro di uno stratagemma ambiguo ma ormai canonico ed usuale nella struttura narrativa del 'giallo': attribuisce, nella finzione letteraria, il ruolo di autore-narratore che dovrebbe appartenergli, ad un personaggio, il dottor James (John?) Watson. Dotato di scarse capacità intuitive, degno contraltare alla figura del grande detective, Watson sembra con questi ridar vita alla collaudata formula di Don Chisciotte e del suo degno scudiero (anche se nei termini del capovolgimento dei ruoli che già identificava Orwell). Il parallelo non si esaurisce peraltro nell'impressionistico confronto fra le due coppie di interpreti, ma si amplia e si sostanzia nell'analisi della stessa struttura compositiva delle due opere. Come nel capolavoro cervantino, infatti, anche qui è in atto, in un continuo gioco di rimandi e di riflessi, una multiforme e continua inversione e confusione di reale ed immaginario. Al Cervantes che si autocoinvolge come personaggio nella sua opera corrisponde, nell'epopea holmesiana, l'ingenuo dottor Watson che veste le parti non solo di autore ma anche di interprete-lettore; alle comparse che assumono nel Chisciotte le vesti di lettori, qui fanno eco quei personaggi, Holmes per primo, che sono lettori di se stessi.

Ma se il personaggio può essere lettore, in virtù dello stesso principio, anche noi, lettori tangibili e reali, possiamo essere fittizie creature fantastiche, personaggi involontari di una storia che qualcun altro, forse inconsapevolmente a sua volta personaggio, ha creato per noi.

Holmes può quindi a ragione sentirsi vivo, forse più vivo di Doyle, e può recitare, come il pirandelliano dottor Fileno, che "...chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascer personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non morrà più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più.". (2)

In questo modo i termini del reale e dell'immaginario finiscono col confondersi ed invertirsi e, fra le pieghe delle ingenue antinomie del fantastico il paradosso può sciogliersi.

Fra autori scomparsi o trasfigurati in personaggi, lettori che sono ignari creatori o forse solo passivi interpreti, e creature aspiranti al ruolo di autore e di lettore, le due proposte di lettura, intersecandosi e sovrapponendosi, conducono ad un labirinto di specchi in cui gli unici a non avere nessuna sicurezza sono gli esseri presuntuosamente ed orgogliosamente convinti di essere reali.

A Sir Arthur, a noi, ogni dubbio; a Sherlock Holmes, ai personaggi, tutte le certezze.


(1) The Lost World del 1912, The Poison Belt del 1913, The Land of Mist del 1925, nonché i due racconti The Disintegration Machine e When the World Screamed entrambi del 1927

(2) Luigi Pirandello, La Tragedia di un Personaggio, Milano, Mondadori


Dario Cillo,Doyle vs Holmes. La vittoria del personaggio, Lecce,"L'Immaginazione", A.IV, nn.44-45, agosto-settembre 1987