MOBBING: Modelli Causali

 

   1. I tratti di personalità

   Le ricerche sul bullyng adducono come causa principale dell’innescarsi del fenomeno fattori di personalità, secondo una logica disposizionale, anche quando venga riferito al mondo degli adulti (Olweus, 1990). In quest’ottica è possibile tracciare un profilo tipico della vittima come ansiosa, insicura di sé, cauta e maggiormente sensibile, che vede indebolire la propria autostima come conseguenza del bullying. Bjorkqvist et al. (1994) ritengono che non ci siano prove empiriche sufficienti a tracciare un profilo tipico della vittima, ma che chiunque si trovi in una posizione di minore potere possa diventarlo. Il profilo del tipico bullo è caratterizzato da impulsività, sicurezza di sé. Riportato al contesto lavorativo, la vittima viene descritta come coscienziosa, con una visione irrealistica di sé e della situazione che vive (Brodsky, 1976, in Einarsen et al., 1994). Essere un bullo è un tratto stabile di personalità: il tipico profilo del bullo vede una persona aggressiva, incapace di empatia, che prova piacere nel vedere la sofferenza della sua vittima, che non ha acquisito il valore del rispetto degli altri e le competenze sociali adatte a sviluppare una civile interazione sociale (Bjorkqvist et al. 1994). Secondo questo modello causale il mobbing avrebbe inizio a partire dal tormentatore, a differenza del modello di Berkowitz, dove sarebbe la vittima a indurre nell’aggressore tale reazione. Anche altri autori ritengono che sia la personalità della vittima ad indurre nell’altro la reazione aggressiva (Einarsen, 1998a, b, 1999, Zapf, 1999).
   In linea con la tesi disposizionale sostenuta nella ricerca sul bullying, in alcuni testi viene dato molto rilievo alla responsabilità dell’insorgere del mobbing alle caratteristiche di personalità sia della vittima che dell’aggressore. In questi libri vengono ampiamente descritti i profili del tipico mobber e del tipico mobbizzato (Adams, 1992a, 1992b, Brodsky, 1976). A questo riguardo due importanti considerazioni devono essere fatte: questi libri sono il frutto di indagini a carattere popolare, basate prevalentemente sulla raccolta delle esperienze dirette di lavoratori coinvolti in simili situazioni. È già stata discussa la tendenza psicologica delle persone ad attribuire la causa del proprio vissuto a fattori di personalità, secondo il meccanismo dell’errore fondamentale di attribuzione. Non deve stupire quindi che in questi ambiti si è arrivati automaticamente a conclusioni di tipo disposizionale. Purtroppo questa posizione viene sostenuta anche da molti psicologi clinici (Zapf, 1999). Le ricerche scientifiche, basate su studi empirici più approfonditi, dimostrano come siano invece determinanti i fattori situali, e che le caratteristiche di personalità della vittima possono entrare in gioco solo in fasi successive, allorquando il mobbing si è già innescato, e fungere magari da giustificazioni retroattive (Leymann, 1996, Gilioli, 2000, Hirigoyen, 2000). Inoltre le caratteristiche di personalità più frequentemente riportate, ansia e depressione, sembrano essere conseguenti al mobbing e non antecedenti ad esso. Per Leymann infatti il fatto che una persona mobbizzata abbia determinate caratteristiche è dovuto solo a una serie di coincidenze e di infelici circostanze (Leymann, 1996, Zapf, 1999).
  

   2. Le relazioni interpersonali

   Le cause addotte in questa categoria si rifanno alle relazioni interpersonali, magari Berkowitz e Felson. Group-think, si pensi alla polarizzazione che si crea nel gruppo dei mobbers (Bjorkqvist et al., 1994). Bjorkqvist pone l’accento sul fattori come l’invidia, e la competizione. Ci si potrebbe aspettare dunque che la competizione sia un fattore contrastante l’insorgere del mobbing. In effetti qualora un compito implichi un alto livello di cooperazione, risulta molto difficile isolare uno dei membri del gruppo. Allo stesso tempo una stretta cooperazione può facilmente essere fonte di conflitto latente, e questo crea inevitabilmente buoni presupposti perché il conflitto si evolve nel processo di mobbing.
   Anche nello studio da Vartia (1996) confermano che la ragione più frequentemente addotta come causa dell’insorgere del mobbing risulta essere l’invidia e la competizione per i favori e la simpatia del capo; quasi il 20% delle vittime riconoscono la causa nella teoria ingenua già illustrata del fatto di possedere una caratteristica deviante dalla media del gruppo; solo poche vittime riconoscono la causa in fattori organizzativi quali la soddisfazione e la monotonia del lavoro (Vartia, 1996).
  

   3. I fattori organizzativi

   Il modello causale che ha ottenuto maggiore attenzione in Scandinavia adduce come principali determinanti dell’innescarsi del processo di mobbing fattori situazionali, dove i tratti di personalità degli attori coinvolti sono del tutto irrilevanti (Leymann 1996). Leymann è il maggiore esponente di questo modello causale, ed assume come principali determinanti del mobbing: una difettosa organizzazione del lavoro; carenze nel comportamento della leadership; esposizione sociale della vittima; basso standard morale nel reparto. Nell’indagine condotta da Einarsen et al., 1994 vengono presi in considerazione molti fattori di tipo organizzativi come: conflitto e ambiguità di ruolo, sottoutilizzo delle abilità, sovraccarico, inadeguatezza delle risorse, mancanza di partecipazione e di interazione tra i collaboratori e con i superiori, fattori ritenuti fonte di stress e insoddisfazione lavorativa, in linea con i lavori di Cummins, 1989. La ricerca mette in luce la relazione tra particolari settings organizzativi e l’occorrenza del bullying. Il presente studio rappresenta la prima evidenza empirica della stretta correlazione tra fattori organizzativi, intesi come stressors organizzativi, e bullying, come conflitto interpersonale, in accordo con le supposizioni di Cooper, 1989. 
   Le condizioni lavorative sono state identificate in 5 categorie: sfida (possibilità di crescita professionale e carriera), clima sociale, conflitto e ambiguità di ruolo, una cattiva leadership il livello di controllo del proprio lavoro, e ritenute tutte correlate con l’insorgere del bullying. In special modo il conflitto di ruolo risulta provocare rabbia e ostilità latente, e fungerebbe da antecedente del mobbing. I risultati sono in linea con l’ipotesi revisionata della frustrazione-aggressione di Berkowitz, 1989, dove viene ipotizzata una relazione diretta tra stressors organizzativi e reazione aggressiva. 
   L’approccio interazionista (interazione sociale) di Felson, 1992, fornisce un modello alternativo all’aggressività. Esisterebbe una relazione indiretta tra stressors organizzativi, come il conflitto di ruolo, e l’aggressività, attraverso gli effetti sul comportamento della vittima: un lavoratore stressato può violare le aspettative circa il suo comportamento, disturbare gli altri lavoratori, violare le norme sociali, lavorare in maniera meno competente, e provocare così reazioni aggressive negli altri (questo modello causale vede il mobbing partire dalla vittima che induce l’aggressore a mettere in atto mobbing, altri sostengono che il processo si inneschi a partire dall’aggressore). "Fino a che la vittima riporterà un maggiore conflitto di ruolo rispetto agli osservatori del bullying, questa ipotesi non può essere scartata" (Einarsen et al., 1994). Questi due modelli differiscono in base all’attore ritenuto maggiormente stressato e quindi promotore del processo di bullying: Berkowitz ritiene che l’indice di allarme per la presenza di bullying sia il maggiore livello di stress nell’aggressore, mentre nel modello di Felson viene riconosciuto un livello sensibilmente più alto di stress nella vittima. 
   Il tema della leadership rimanda necessariamente alla "cultura organizzativa"; là dove vige una cultura che permette e ricompensa la vessazione, una cultura che si esplica in una leadership autoritaria, gerarchica e rigida, il bullying sarà fisiologico di quella organizzazione. Secondo Brodsky (1976) episodi di mobbing possono verificarsi solo là dove l’aggressore percepisca l’appoggio, quanto meno implicito, dei superiori nel suo agire. Se tale percezione viene a mancare, il rischio che l’aggressore diventi egli stesso vittima di attacchi da parte dei suoi superiori diventa alto. Questo porta a riflettere sul concetto di tolleranza organizzativa, e di cultura organizzativa (Brodsky 1976). I risultati della presente ricerca norvegese non permettono di escludere totalmente i fattori di personalità come antecedenti del bullying, ma invitano ad adottare anche l’approccio del person-environment fit. Sono state messe in evidenza anche le conseguenze sulla salute della vittima.

 
   4. Causa macrosociale del mobbing

    Non è un caso se questa patologia sociale ha riscosso particolare attenzione proprio nell’ultimo decennio. Si assiste ad una contemporaneità tra trasformazione del mondo aziendale e attenzione sul mobbing. La globalizzazione e la sempre maggiore flessibilità richiesta alle professioni, le fusioni di più aziende in una sola, l’esasperazione a ridurre i costi aziendali concorrono a creare un terreno fertile al mobbing. La flessibilità rende i ruoli sempre meno precisi e le competenze richieste sempre più trasversali, duttili, improvvisate. Il posto del lavoro è sempre più a rischio. Le nuove forme di lavoro, si pensi al lavoro temporaneo, rendono il lavoro sempre più "libero" e quindi più precario. Tutto questo porta a una maggiore facilità di licenziamento. Anche se alcuni sostengono che la facilità da parte di un’azienda di licenziare potrebbe avere un effetto contrastante il mobbing, si pensi al referendum di Pannella, quindi minore occorrenza del mobbing verticale, questo è come considerare tutto oro che luccica, gli effetti presunti positivi a breve termine per l’azienda rappresentano in realtà dei costi del terrore di perdere il lavoro, quindi l’aumento della competizione e del mobbing orizzontale. Allo stesso tempo la rigidità può essere negativa. Nonostante la facilità di licenziare, può essere preferibile per l’azienda indurre l’autolicenziamento tramite mobbing verticale per evitare i costi di buonuscita. Questo però porta il lavoratore ad una immobilità psicologica nel rivendersi proattivamente nel mercato del lavoro.
   L’insorgere del mobbing è collegato anche all’eccessivo impegno professionale richiesto: surmenage professionale, sovraccarico e pressione finalizzata a conferire mansioni e compiti non logisticamente effettuabili, così da portare la persona allo sfinimento e a fornire egli stesso la ragione della critica professionale.
   Questo esaurimento, chiamato dagli americani burn-out e dai francesi épuisement professionnel, è "una conseguenza diretta del neotaylorismo, cioè della moltiplicazione di quegli ambienti di lavoro dove il culto dell’iperproduzione finisce per ghettizzare quanti non si adeguano a questa ideologia" (Gilioli, pag. 21, 2000). In America ora va molto il termine workacholic per definire la dipendenza da lavoro, simile all’alcolismo.
   Alcuni trovano un risvolto positivo nel mobbing: trovare un capro espiatorio in azienda aiuta gli altri lavoratori a lavorare meglio (Gilioli, pag. 30, 2000). Nella trasmissione "Teleanch’io", il Direttore del Personale della Zanussi sostiene che il mobbing sia una forma di selezione darwiniana per far sì che spicchi il migliore, cioè colui che riesce a gestire e a lavorare bene anche in situazioni di stress. In questo modo l’azienda evita di assumere il neolaureato uscito dalla Bocconi, presuntuoso il cui motto è "so tutto io", mentre invece non ha acquisito accanto agli strumenti teorici le competenze pratiche della vita aziendale reale, non quella dei libri di testo.

(fonte: www.mobbing.3000.it)