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Benigni, amare col cinema

di Antonio Stanca

Con il recente film “La tigre e la neve”, nelle sale dal 14 ottobre, il regista e protagonista Roberto Benigni ha creato un’altra storia d’amore, un’altra favola. Anni fa, nel 1997, con “La vita è bella” aveva prodotto ed interpretato un lavoro nel quale cercava di ridurre al minimo, annullare quanto della storia passata ancora pesa sull’uomo d’oggi. Allora Benigni era stato un padre che, ritrovatosi in un campo di concentramento col figlio bambino e terrorizzato per le gravi e dolorose scoperte che questi avrebbe potuto fare, s’impegna a fornirgli spiegazioni completamente diverse rispetto a ciò che vede, alla tragica realtà che lo circonda, cerca di creargli con invenzioni continue e trovate umoristiche un’altra realtà, si sforza di fargli pensare che camere a gas, forni crematori, deportati, militari, mezzi di trasporto, sono altre cose, servono ad altro, sono tutto ciò che al bambino piace, lo diverte. Molto riuscito, il film ha avuto un successo superiore ad ogni previsione, è stato apprezzato anche all’estero, ha vinto tre Oscar. Benigni ha mostrato, meglio che in precedenti lavori, come gli sia facile, connaturato, spontaneo recitare, come in lui non si riesca a distinguere l’uomo dall’attore. Tra i grandi del cinema è entrato con quell’interpretazione. Poi, nel 2002, è venuto “Pinocchio”, dove la realtà è stata trascesa, superata in nome dell’immaginazione. Adesso, con “La tigre e la neve”, egli ha ripreso la linea de “La vita è bella”, ha rappresentato, cioè, come sia possibile salvare una vita tra infiniti pericoli. Mentre divampa la guerra in Iraq a Baghdad, nel sottoscala di una casa, un uomo (Benigni) riesce a tenere in vita per molto tempo la sua amata che è in coma. Egli non dispone di farmaci ma li crea, li inventa utilizzando materiali di ogni genere ed intanto dall’esterno giunge il rumore degli scontri, dei bombardamenti che avvengono senza sosta.

Come quello delle camere a gas anche questo dei soldati armati, della lotta senza quartiere è un pericolo vicino, incombente alla piccola storia creata dall’attore-regista, un pericolo più grande, più grave di essa eppure sarà la storia ad emergere, sarà il bene a vincere sul male, l’amore sull’odio, la vita sulla morte. E sarà questa vittoria a trasformarsi in un messaggio valido per tutti, in un richiamo da estendere ovunque, sarà l’azione dell’uomo verso la sua amata ad assumere un immenso valore esemplare   sia perché proviene da sentimento, spirito, è espressione dell’anima, sia perché si colloca in un contesto come il nostro contemporaneo che di spiritualità ha un bisogno illimitato. Si vivono tempi di esasperato materialismo, di sfrenato individualismo in ambito privato e pubblico, tra persone e nazioni. Libertà ha significato malcostume, corruzione, violenza, continui pericoli di morte. La guerra, anche se lontana come oggi avviene, giunge ad aggravare ancor più la situazione e spesso fa pensare che mai ci si era trovati così male. In tale contesto Benigni ha creduto che parlare d’amore,  di fede, di bene poteva servire. Sbaglierebbe, però, a credere pure di cambiare la situazione con i suoi film, di risolvere il problema ché non è un problema bensì la vita, la storia dei nostri tempi per la quale non s’intravedono modifiche tanto radicato e diffuso è diventato il suo sistema. Ne hanno fatto le spese tutte le espressioni dello spirito, dalla famiglia alla scuola, alla fede religiosa, all’arte ed ora Benigni vorrebbe recuperare qualche frammento di sì vasto patrimonio, vorrebbe piacere, far ridere, far sperare e ci riesce ma solo per poco, per quanto dura il film. Le sue storie appassionano, avvincono, entusiasmano, fanno riflettere ma non più del tempo richiesto dalla loro visione, non più di quelle notizie che riguardano un’azione eroica compiuta da un solitario a favore di una persona in pericolo. Tuttavia se ancora le si apprezza significa che ancora valgono, ancora possono succedere anche se non sono più tanto importanti da rappresentare un riferimento unico, diventare un patrimonio inalterabile.


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