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Bergman, alla ricerca di sé

di Antonio Stanca

A 89 anni è morto Ingmar Bergman, noto regista svedese, per molto tempo impegnato nella produzione cinematografica, teatrale, televisiva ed ultimamente anche nella narrativa. La notizia suscita sconforto, sgomento, lascia disorientati perché riguarda la perdita di uno dei maggiori interpreti della condizione dell’uomo moderno, la scomparsa di uno degli ultimi grandi autori del Novecento europeo, dice che un’epoca è inesorabilmente finita a chi ancora credeva di potervisi riferire. La figura di Bergman non è lontana da noi, la sua produzione più famosa, quella cinematografica, va dagli anni ’40 agli anni ’70 del secolo scorso e, tuttavia, si ha l’impressione che appartenga ad un passato remoto dal momento che oggi tanto, tutto è cambiato nell’ambito del pensiero, della cultura, dello spettacolo, dell’arte rispetto a quanto avveniva, ci si attendeva ai tempi di film quali "Sorrisi di una notte d’estate" (1955), "Il settimo sigillo" (1956), "Il posto delle fragole" (1957), "Il volto" (1958), "Luci d’inverno" (1962), "Il silenzio" (1963), "Sussurri e grida" (1973). Bergman, insieme allo spagnolo Luis Buñuel, agli italiani Michelangelo Antonioni, pure scomparso di recente, e Federico Fellini, al francese Jean Renoir ed altri maestri del cinema, ha fatto di esso una forma di espressione pari a quella filosofica, letteraria, lo ha condotto ad esiti artistici.

Nato a Uppsala nel 1918, aveva cominciato come regista teatrale e al cinema era giunto quale sceneggiatore. I primi film risalgono agli anni ’40 ("Crisi", 1945) e già s’intravedono i temi che caratterizzeranno i molti altri fino agli ultimi ("Fanny e Alexander", 1982) e faranno del loro autore un grande del ‘900. Dopo gli anni ’80 Bergman si dedicherà alla narrativa, dove riprenderà in chiave romanzesca alcuni motivi del suo cinema, e dirigerà spettacoli presso il Kungliga Dramatiska Teatern di Stoccolma. I contenuti dei suoi film, da lui stesso scritti e sceneggiati, saranno i problemi dell’uomo moderno trovatosi improvvisamente in una famiglia, in un ambiente, in una vita non più a sua misura, scopertosi privo di valori, certezze immanenti e trascendenti, sospeso tra una terra devastata dal male ed un cielo impossibile da raggiungere, solo tra una folla di solitari. I film di Bergman hanno indagato nei recessi più remoti dell’anima umana, della vita dello spirito. Il loro personaggio principale, uomo o donna, è stato presentato in infinite situazioni e dimensioni e, tuttavia, è risultato sempre insoddisfatto di sé, del suo stato, sempre alla ricerca di ciò che mancava alle sue aspirazioni, mai sicuro di un progresso, di uno sviluppo positivo, definitivo, continuamente angosciato dall’impossibilità di risolvere problemi quali l’incomunicabilità soprattutto tra coniugi, la vecchiaia, la morte, l’amore, Dio, la sessualità, il sogno, la visione, la malattia, la deviazione, la follia, la speranza, l’illusione, la quotidianità, l’eternità. Si avverte l’eco di tanta letteratura, filosofia, teatro, arte figurativa del ‘900 ma non tanto la cultura dei tempi ha mosso il regista poiché col cinema egli ha voluto dire soprattutto di sé, dei suoi pensieri e problemi, della sua vita. Ogni film ha espresso un suo intendimento, un suo stato d’animo, una sua emozione ed è risultato singolare per i mezzi usati, la situazione rappresentata, i pensieri e le azioni da questa suscitati. E’ difficile trovare tra gli autori moderni, scrittore, poeta, pittore, drammaturgo, regista, uno che come Bergman abbia concepito e rappresentato una tale complessità spirituale, svelato tanti universi prima ignoti. Nel suo cinema qualunque personaggio, sano o malato, colto o incolto, patrizio o plebeo, credente o ateo, giovane o vecchio, mago o saltimbanco, sarà una trasposizione della figura dell’autore e giungerà a scontrarsi, in maniera diretta o indiretta, con i problemi dell’esistenza, con la difficoltà di essere uomo, di vivere. Di fronte a questa egli reagirà in tanti modi, penserà a tante possibilità di risolverla, avrà tanti pensieri e sentimenti da apparire come moltiplicato nei suoi aspetti, infinito nelle sue componenti. Si avvia, così, un processo interminabile, ad ogni nuovo film non si tiene conto del precedente e si riparte sempre alla ricerca delle ambite soluzioni. Non giungeranno mai anche se ogni volta si faranno intravedere ed incoraggeranno nuovi tentativi. Solo nel pensiero può avvenire tale inesausto movimento e, per Bergman, in ciò che per lui era pensiero, il cinema!

Questo risulterà elaborato nei temi, sarà un cinema filosofico, diverrà unico nello stile, non si distinguerà dal teatro, si ridurrà all’essenziale, ai dialoghi, all’espressione dei volti, al "silenzio".


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