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Tra la vita e l’arte
(Storia di un dramma)

di Antonio Stanca

Sembra una favola tanto è semplice il linguaggio, scorrevole lo stile, coinvolgente, ad effetto il contenuto ed, invece, è una storia vera quella della vita e dell’opera della poetessa russa Marina Cvetaeva (Mosca 1892- Elabuga 1941), che il noto romanziere e biografo francese Henri Troyat ha recentemente pubblicato, presso Le Lettere, col titolo "Marina Cvetaeva. L’eterna ribelle". Si tratta di un’ampia e dettagliata biografia che l’autore è riuscito a ricostruire servendosi, in particolare, dell’immensa corrispondenza tenuta dalla Cvetaeva con parenti, amici, amanti, intellettuali, artisti. Dalle notizie ricavate il Troyat perviene, nel libro, ad una rappresentazione reale, autentica non solo della poetessa, dei suoi pensieri, sentimenti, azioni ma anche di quanto avveniva intorno a lei, dell’ambiente che la circondava, della storia che tra ultimo ‘800 e primo ‘900 si verificava in Russia ed in Europa. Leggendo ci si sente coinvolti, partecipi di un movimento continuo, quello dell’esistenza della Cvetaeva che fin da giovanissima si era mostrata inquieta, insofferente verso quanto le stava intorno, protesa alla ricerca d’autonomia, indipendenza dal contesto, di un’espressione, una voce propria. Sarà "eternamente ribelle": si ribellerà alla famiglia, alla scuola, alla vita coniugale, agli impegni domestici, ad ogni residenza prolungata, ad ogni affetto definitivo, aspirerà sempre ad una condizione migliore di quella vissuta, cercherà l’amore sia di uomo sia di donna. Un’istintiva, una passionale si può dire di lei, una donna che, convinta delle sue qualità artistiche, del suo bisogno d’amore, non rinuncerà a scrivere né ad amare pur in circostanze avverse. Tutta la sua vita sarà una disgrazia, una maledizione: dopo le esperienze negative a casa ed a scuola avrà un marito che non si curerà della famiglia, tre figli dei quali uno morirà di stenti e gli altri le saranno ostili, da sposata e da madre fuggirà dalla Russia per riparare a Berlino poi a Praga e Parigi, rientrerà a Mosca, finirà nell’ "oscura località" tatara di Elabuga, il marito e la figlia verranno arrestati e il figlio assunto in armi a soli sedici anni. Tutto questo mentre in Russia si passa, attraverso gravi e sanguinosi disordini, dalla rivoluzione del 1905 alla rivoluzione bolscevica a Lenin alla guerra civile ai Soviet a Stalin ed in Europa dalla prima guerra mondiale ai nazionalismi alla seconda guerra mondiale.

Per una donna che avrebbe voluto "essere libera, libera da tutto. Essere sola e scrivere. Mattina e sera. […]" (lettera alla sorella Anastasija), per chi avrebbe desiderato una condizione di riserbo, di quiete onde consacrarsi all’arte ritenuta il proprio, unico destino ("Ho sempre saputo tutto fin dalla nascita. Ho sempre avuto un sapere innato" in "Marina Cvetaeva, un itinéraire poétique" di Verònique Losshy), per un artista incline a vivere solo di spirito, d’idee la vita sarebbe stata soprattutto materia, realtà, per la Cvetaeva che aspirava a placare la sua naturale inquietudine, la sua diversità dall’ambiente nella scrittura poetica ci sarebbe stata un’esistenza di perenne travaglio, lotta, scontro con situazioni, persone, elementi avversi. Non smetterà, tuttavia, ella di seguire la sua ispirazione nel segreto di se stessa e produrrà molte raccolte di versi, tra le quali "Verste I", "Verste II", "L’accampamento dei cigni", "Separazione", "Dopo la Russia", i poemi "Il prode", "Lo zar-fanciulla", "Poema della montagna", "Poema della fine", "L’accalappiatopi", le prose narrative e saggistiche finali, mentre si affaccenderà ad allevare i figli, a cambiare continuamente alloggio una volta fuori dalla Russia, a vivere del minimo necessario per sé ed i suoi durante i molti anni trascorsi all’estero ed anche al ritorno in patria. Cvetaeva giungerà alla povertà estrema, alla miseria, a vivere di elemosine, a ricavare il sostentamento per la famiglia da pubbliche letture dei suoi versi, dal lavoro di traduzione, a vestirsi di stracci, a darsi la morte quando si sentirà sopraffatta dalla situazione.

Un animo così in pena sarà ulteriormente rattristato dalla fortuna dell’opera che risulterà alterna. Spesso la poesia della Cvetaeva sarà criticata dai contemporanei ambienti culturali sovietici perché ritenuta sovversiva rispetto alla tradizione, oscura, ermetica nei procedimenti, impegnata nella ricerca di effetti esterni, visivi, sonori e non di significati. Soltanto ad anni di distanza dalla morte l’interesse per l’autrice è cominciato a crescere in patria e nel 1957 dal Terzo Plenum dell’Unione degli Scrittori Russi è stata dichiarata "grande poeta nazionale". D’allora anche all’estero la sua scoperta ed importanza non hanno cessato di diffondersi e quelli che prima erano sembrati dei limiti rappresentano ora i suoi meriti. Le sue irregolarità sono stimate oggi come delle preziose novità introdotte nella produzione poetica russa, dei modi utili per liberarla dal peso di una tradizione protrattasi a lungo. Novità di forma e contenuto sono le sue e talmente importanti da procurare a pensieri e sentimenti intimi una dimensione ampia, da fare dei segreti di un’anima un messaggio esteso, da tradurre in arte le nostalgie, i ricordi, le solitudini, le paure di uno spirito.

Ora ci credono tutti ma per anni, per una vita, ci ha creduto soltanto lei fino a sopportare disagi di ogni genere: è un esempio di quanto si può subire per non rinunciare alle proprie idee, è un atto di eroismo spinto fino al sacrificio della vita per salvare ciò che avviene nell’interiorità dell’anima. Una ribelle, uno spirito libero ha accettato gli infiniti vincoli che la sorte le aveva riservato, un’artista che avrebbe voluto vivere di sé si è impegnata per gli altri e se improvvisamente ha smesso di farlo significa che continuare a credere nelle proprie cose in una situazione simile era stato un dramma e che era durato fin troppo.


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