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Dal Verga ai contemporanei

di Antonio Stanca

“… questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia che si riverbera sul mestiere, sulla casa e sui sassi che la circondano, mi sembrano…cose serissime e rispettabili anch’esse…”: così dice Giovanni Verga (Catania 1840-1922) nella novella “Fantasticheria”, della raccolta “Vita dei campi” (1880), quando immagina di parlare ad una signora d’ambiente cittadino con la quale compie un viaggio nella Sicilia di Aci-Trezza e che, prima attirata dalla vita contadina di quei luoghi, mostra ora di rifiutarla.

Sono parole che possono essere considerate una dichiarazione di poetica poiché d’allora il Verga cambierà maniera, finirà con i romanzi patriottici e poi mondani e si avvierà, sull’esempio di quanto avveniva in Francia con gli scrittori “naturalisti”, verso quella produzione narrativa e teatrale di genere “verista” che lo renderà famoso. Tratterà dei “vinti” della sua Sicilia, delle persone, della gente, cioè, rimasta indietro nella corsa al progresso che in quegli anni avveniva nel nostro Paese e lo farà con un linguaggio vicino a quella realtà di periferia per renderla nel modo più “vero” possibile e fino al punto da far scomparire la presenza e l’azione di chi scrive.

Da tanta oggettività si sarebbe passati presto, quasi subito, nella letteratura italiana ed europea di fine ‘800 e primo ‘900, alla soggettività della produzione decadente, alla sublimazione dell’io ed in seguito si sarebbero delineate, col sopraggiungere della società dei consumi e della cultura di massa, quelle condizioni sociali e culturali che avrebbero fatto della letteratura un prodotto tra i tanti, l’avrebbero condizionata fino a farle perdere, ai nostri giorni, la precedente e secolare posizione di privilegio e disperderla in un’infinità di sperimentazioni, direzioni, espressioni. Queste, oggi, non permettono più di parlare di un’atmosfera culturale diffusa, di una corrente artistica unica ché tanti sono gli autori, i generi, le opere.

Da qualche anno, però, si assiste ad un fenomeno degno di rilievo: il premio Nobel per la letteratura viene assegnato ad autori che, nelle loro opere, trattano di ambienti umili, di aree depresse, di situazioni e problemi quotidiani ed in un linguaggio chiaro, libero da astrattezze, vicino al parlato. Nel 2000 fu il cinese, che vive a Parigi, Gao Xingjian (Ganzhou 1940) a conseguire il massimo riconoscimento per una narrativa ed un teatro che fanno dell’antica e lontana Cina un motivo di perenne attualità, portano a livello artistico i problemi di gente comune e finora quasi sconosciuta; nel 2001 fu premiato col Nobel l’inglese, d’origine indiana, Vidiadhur Naipaul (Trinidad 1932) che, nei suoi saggi, racconti e romanzi, s’ impegna a denunciare le condizioni dei poveri dei sobborghi di Trinidad, della Malesia, Pakistan, Iran, Indonesia, India; nel 2002 fu la volta del poeta e scrittore ungherese Imre Kertész (Budapest 1929) nella cui produzione fondamentali, centrali, superiori ad ogni altro risultano i valori dell’uomo, della vita nella sua misura più semplice; nel 2003 col Nobel venne riconosciuta l’opera, saggistica e narrativa, dello scrittore sudafricano bianco, di lingua inglese, John Maxwell Coetzee (Città del Capo 1940) che fa delle gravi condizioni di arretratezza della sua terra il tema principale delle sue opere, nelle quali riesce in maniera esemplare a combinare i problemi del singolo con quelli del luogo o della collettività.

Si può parlare, quindi, di una tendenza, presso chi giudica, a riconoscere come meritevoli autori che provengono da zone lontane dal gran mondo e dicono della vita che vi si svolge, dei problemi che ancora esistono, delle condizioni di emarginazione, isolamento, disagio, nelle quali tanta gente si trova. Si è giunti a dire dei “vinti” della terra, a fare letteratura, alta letteratura, arte, di essi, dei loro luoghi e tempi, ed in un linguaggio che li renda vicini, familiari a chi legge o assiste. Dopo più d’un secolo si è tornati a pensare che le cose della vita d’ogni giorno, le esperienze delle persone comuni sono “…serissime e rispettabili anch’esse… ” come Verga aveva detto nel 1880. Si è tornati ad un genere letterario che, quando comparve nell’Europa del secondo ‘800, fosse il naturalismo francese o il verismo italiano o il realismo russo, fu guardato con diffidenza dagli ambienti specializzati perché contravveniva a quanto, per secoli, si era inteso per letteratura, alla singolarità ed altezza, cioè, dei suoi temi e modi. Quel genere letterario, sostenuto da altri, nuovi contenuti, ampliato nelle sue prospettive, è riconosciuto, ora, come il migliore, è premiato. A promuovere allora quella tendenza al “vero”, al “reale” era stata la filosofia del positivismo, l’affermazione della scienza, la diffusione degli studi sociologici e da noi, in particolare, il problema postrisorgimentale e la questione meridionale. A suscitare ora un orientamento simile è stato il bisogno di recuperare, almeno in arte, quanto dell’uomo s’è perso nella storia, nella vita. Si è scoperto che è possibile farlo soltanto nei luoghi rimasti lontani dalla modernità, esclusi dal travolgente processo di meccanizzazione e materializzazione che ha investito l’attuale società fino a privarla di ogni elemento o motivazione spirituale, morale, a disumanizzarla anche nell’espressione letteraria. Ai luoghi dove ancora si pensa e si agisce da uomini la letteratura ha rivolto la sua attenzione, qui ha trovato quanto le era necessario per valere di nuovo.

Muovendo da materie diverse ci si è ritrovati nello spirito! Trattando degli ultimi si è tornati ad essere i primi!

E’ un caso che porta a riflettere come di là da qualunque costruzione teorica o sistema d’idee, la realtà, la sua verità possano sempre costituire un motivo letterario, come tra l’arte e la vita non sia possibile separare, distinguere completamente, come la vita venga prima dell’arte.


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