Prima Pagina
Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Giorgio Israel, Chi sono i nemici della scienza?
Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza

Editore Lindau (collana I Draghi), 2008, pp. 352

di Gennaro Lubrano Di Diego

A chi lavora nella scuola e vive le difficoltà e le meraviglie del mestiere dell’educare, capita a volte di desiderare di leggere dei libri che descrivano, con competenza e profondità, lontano da clichè usurati e insipienti oppure da miserevoli  quanto generiche geremiadi senza prospettiva, il declino e la slavina della scuola italiana ma anche il perdurante fascino dell’avventura educativa, insidiata oggi da una molteplicità di “nemici” interni ed esterni, che attentano ogni giorno di più alla serietà di quella complicatissima e delicata funzione sociale e formativa che è l’insegnamento.

Dobbiamo al rigore scientifico e alla verve da polemista di Giorgio Israel se questo libro sia oggi finalmente consultabile. Il testo ha un titolo e un sottotitolo (Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza) inequivocabili ed evocativi del nesso che l’autore ritiene cogente tra la crisi della scuola e dei saperi che lì si dovrebbero trasmettere e la più generale tendenza dell’epistemologia italiana, che soffrirebbe gli effetti del dominio dello scientismo nelle due varianti dell’oggettivismo assolutistico e del relativismo tendenzialmente nichilista.

Israel è un autorevolissimo matematico ed epistemologo ed è quasi naturale che egli veda il fenomeno dello smottamento delle istituzioni educative del nostro Paese come parte di una più generale crisi della cultura scientifica in Italia. La cornice teorica generale da cui muove la complessa e articolata trama del libro è una discussione critica, puntuale e approfondita, degli esiti culturali, oltre che pratico-economici, a cui sta conducendo la tecno-scienza, cioè una declinazione della scienza nell’ambito della quale l’apporto dell’elemento teorico e della ricerca di base è sempre più sacrificato alla sua dimensione tecnica e pratica.

Alla perdita di consapevolezza del carattere complessivamente conoscitivo e culturale dell’impresa scientifica dell’uomo, soggetta ad una restrizione praticizzante e tecnicistica, si accompagna uno smarrimento esiziale delle relazioni genealogiche che legano il sapere scientifico a quello umanistico-filosofico. In questo modo si contribuisce a scavare un fossato sempre più profondo tra le discipline, che le impoverisce tutte fino a snaturarle nella loro vocazione originaria di strumenti essenziali della comprensione della natura e dell’uomo.

La stessa divulgazione scientifica risente di una interpretazione paleo-positivistica della scienza, identificata, senza alcuna cautela storica e critica, con un’ontologia materialista concepita come necessario presupposto teorico delle applicazioni pratiche e tecnologiche.

Fin qui le considerazioni generali a proposito del testo di Israel.

Ma il libro acquista una valore impareggiabile e che ne fa una vera e propria miniera di spunti problematici per chi volesse ficcare bene bene il naso nella crisi della scuola italiana, quando il discorso epistemologico generale viene, da Israel, declinato per cogliere la complessa necrosi che attanaglia le nostre istituzione educative e che un decennio di convulse e disorganiche riforme legislative ha solo reso più acuta e dolente.

La scuola italiana, secondo Israel, sta subendo da quasi due decenni un attacco concentrico che ne sta dissolvendo la tradizionale – e certo aggiornabile – funzione di trasmissione dei patrimoni culturali della nostra tradizione.

I protagonisti di questo scardinamento sostanziale e sistematico della scuola hanno nomi ben definiti; essi sono lo scientismo dozzinale, un aziendalismo pacchiano e di maniera (che considera il sapere come una merce qualsiasi e gli studenti come utenti), la cultura declinata nella forma della spettacolarizzazione ad ogni costo, il pedagogismo vuoto e pretenzioso, un’enfasi fuori luogo sull’elemento della “valutazione oggettiva”, insensibile alla natura inevitabilmente soggettiva delle prestazioni culturali, che non si lasciano ingabbiare in formalizzate e standardizzate misurazioni quantitative; infine, un metodologismo altrettanto supponente che presume di surrogare il collasso e lo spezzettamento delle conoscenze attraverso il ricorso alla formula magico-misterica delle competenze o a quella ben più equivoca delle abilità.

Se a ciò aggiungiamo: 1) gli effetti di lunga durata di un permissivismo ideologico, partorito in lontane stagioni politico-culturali, 2) di una cultura egualitaristica che appiattisce le eccellenze sulle mediocrità invece di innalzare le mediocrità al livello delle eccellenze, 3) di un meccanismo di selezione della docenza assolutamente inadeguato, che ha ridotto la scuola a sistema di compensazione di un mercato del lavoro generalmente poco dinamico e asfittico, 4) di una generale perdita di prestigio e di valore della cultura, il panorama sconsolante non può che essere quello che ogni docente vive e patisce ogni giorno nel suo lavoro.

L’analisi di Israel, a questo riguardo, copre la crisi profonda di tutti i gradi dell’istruzione in Italia, dalle elementari alle Università, crisi del resto confermata da recenti indagini e dal rapporto Ocse-Pisa, che impietosamente ha relegato i nostri studenti in fondo alla classifica delle competenze in alcune discipline.

Fin qui la pars destruens dell’analisi di Israel, che, sul piano politico, non fa sconti né al centrodestra né al centrosinistra, accumunati da un’analoga attitudine alla estemporaneità delle politiche della formazione e dell’istruzione, poco consapevoli del dramma educativo che viviamo

Israel sembra invitare i docenti italiani, di ogni ordine e grado, ad una presa di coscienza della gravità della crisi in atto e ad una lotta senza quartiere contro le consorterie dei pedagogisti che vorrebbero ridurre il peso e il ruolo che i contenuti culturali dovrebbero inevitabilmente svolgere nella formazione degli studenti a favore di un “chiacchiericcio metodologico e del cianciare delle tecniche del nulla”.

Questo nella convinzione, come lo stesso Israel ha scritto in un articolo pubblicato tempo fa su Il Mattino, chiamando in causa Fabrizio Foschi, che “la relazione tra docente e allievo nell’apprendimento non può essere ridotta a un problema tecnico e non esistono didattiche operative che garantiscano un buon trasferimento delle conoscenze dall’insegnante all’alunno. Il processo di apprendimento si basa su un rapporto tra persone, in cui «l’adulto comunica anzitutto, attraverso la materia o l’attività che svolge, una ipotesi di significato che vive in prima persona, e l’allievo impegna la sua libertà nella verifica, talvolta faticosa ma sempre appagante, della scelta di una strada esistenziale, culturale e professionale che si chiarifica seguendo dei maestri.


La pagina
- Educazione&Scuola©