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Barabba, la voce del silenzio

di Antonio Stanca

Pär Lagerkvist (Växjö, Kronoberg, 1891- Danderyd, Stoccolma, 1974), Nobel per la letteratura nel 1951, è stato tra i maggiori poeti e narratori del ‘900 svedese. Ha prodotto anche per il teatro e di questa sua attività è comparsa recentemente, presso Iperborea, e per la prima volta in versione italiana l’opera “Barabba”, dramma in due atti. In essa Lagerkvist, nel 1953, aveva ridotto  quanto rappresentato, nel 1950, nel racconto-romanzo omonimo, i temi, cioè, della vita, della fede, dell’amore, della morte. Non erano nuovi nella sua produzione ché costituivano le espressioni principali di quella religiosità e socialità alle quali l’autore avrebbe sempre ambito e che avrebbero caratterizzato l’intera opera. Già erano comparse nel romanzo “Il sorriso eterno”(1920), uno dei migliori, e nelle liriche delle raccolte “La via dell’uomo felice”(1921) e “Canti del cuore”(1926). Sarebbero state continuate nelle famose narrazioni degli anni ’40 e ’50 (“Il nano” 1944, “Barabba” 1950), quelle che avrebbero procurato a Lagerkvist il Nobel, né sarebbero state assenti nella tetralogia narrativa finale.

Dalla constatazione del male al bisogno di redimerlo: è questo uno degli sviluppi centrali nell’autore svedese, un passaggio variamente articolato, presentato, ma sempre possibile da riconoscere. Anche nel teatro, fin dai primi lavori (“L’ultimo uomo” 1917 e “Il mistero del cielo” 1919), succede così ed anche se qui evidente è il segno della lezione del connazionale August Strindberg e delle avanguardie artistiche europee, soprattutto dell’espressionismo tedesco, che  Lagerkvist aveva conosciuto e frequentato a Parigi quando era riuscito a liberarsi dall’angusto e soffocante ambito familiare e sociale patito per molti anni  a Växjö.

Sentiva Lagerkvist, già da piccolo, il bisogno di evadere, la necessità di muoversi tra spazi diversi, nuovi, più ampi, l’anelito ad andare oltre i limiti del visto, del conosciuto. Supererà, così, l’oggettivismo, il naturalismo, che erano stati della cultura precedente, per un soggettivismo comprensivo di ogni aspetto del vivere, per uno spiritualismo superiore ad ogni distanza e divisione, perché cercava Dio e con lui il modo per liberare, riscattare gli umili, gli oppressi di ogni parte del mondo, l’idea, il messaggio, la parola per richiamarli, riunirli  anche  se di luoghi, lingue e culture diverse. Un impegno personale, sociale, religioso quello di Lagerkvist che percorrerà tutta la sua produzione e nelle opere della maturità raggiungerà esiti notevoli anche dal punto di vista formale. Tra queste rientrano il dramma “Barabba” e il romanzo omonimo e fanno del suo un processo umano prima che artistico. Il successo all’estero dei due lavori sorprese l’autore poiché pensava sempre e dichiarava di scrivere “per sé”. Egli era soprattutto l’uomo che voleva rimediare ai torti subiti in casa dalla presenza ossessiva del padre e del nonno, denunciare, sovvertire il sistema di valori giunto dal passato, che aveva bisogno di Dio come bene per sé e per tutti, che si chiedeva del motivo, del significato della morte e quanto otteneva come autore, le opere, erano soltanto traguardi utili, riferimenti importanti in un interminabile movimento di pensieri. “Barabba” è un traguardo singolare per tema e modo. Sono sufficienti due atti ed un’ambientazione quanto mai modesta per rappresentare un evento di portata universale, la nascita del cristianesimo, ed un problema sempre attuale, credere in Dio, non credere, rimanere in sospeso. La religione ha sempre la funzione sociale di salvezza, di liberazione dalla schiavitù, di riscatto dalla pena e il dubbio nei suoi riguardi sempre la ragione di esistere ma eccezionale risulta qui come Lagerkvist sia riuscito a semplificare situazioni così complesse, ridurle a poche, significative immagini, renderle in maniera  “scabra, essenziale” nella forma ma completa, totale nel contenuto. In “Barabba” ha dato figura, voce a problemi rimasti spesso lontani poiché difficili, astratti, teorici, li ha animati e tradotti in termini accessibili. E’ una prova della maturazione raggiunta dall’autore circa i suoi temi ed è pure il segno dell’arte vera poiché capace di riuscire chiara, facile, di essere e valere per tutti. Ad una dimensione infinita era giunto lo scrittore che scriveva “per sé” e ci era riuscito partendo dal basso, dalla condizione di un prigioniero tra i tanti, dal buio della sua miniera, dai suoi silenzi, da Barabba.

Come il cristianesimo così quest’opera provengono dalle profondità della terra, si fanno vedere mentre nascono, si formano e quando niente ancora lascia presagire quel che sarebbe stato dell’uno e dell’altra, l’estensione che avrebbero raggiunto: non è facile essere autori fino al punto da annullarsi nella propria opera e questa nel suo significato, da fare di entrambi un’espressione naturale, una voce autentica quasi esistesse da sempre e da sola.


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