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Naipaul: un Nobel “povero”
(Tra attrazione e denuncia)

di Antonio Stanca

 

L’anno scorso ad un cinese che vive a Parigi, Gao Xingjin, quest’anno ad un inglese d’origine indiana che vive a Londra, Vidiahar Surajpasad Naipaul, è stato assegnato il Nobel per la letteratura. Il fenomeno conferma che ultimamente in ambito letterario, culturale, artistico si tende a valorizzare opere che, come quelle dei due autori, rimangono lontane dagli sperimentalismi o astrattismi o ideologismi propri di tante avanguardie e propongono situazioni, eventi, ambienti, personaggi concreti, testimoni di un’umanità diversa da quella conosciuta, esclusa dai grossi movimenti della modernità.

Per Xingjin e Naipaul si tratta delle popolazioni dei paesi sottosviluppati, di moltitudini estremamente, irrimediabilmente povere e rassegnate alla propria condizione e la loro è anche una ricerca di semplici valori morali, spirituali, di pensieri, sentimenti propriamente umani, di quanto, cioè, può considerarsi smarrito in tempi di dilagante materializzazione quali  i nostri e sopravvissuto dove questa non è giunta. I “vinti”dei tempi moderni, le loro privazioni, i loro umori, le loro azioni, la loro vita acquistano una presenza, una voce nella letteratura e nell’arte tramite le opere dei due scrittori siano i drammi o romanzi di Xingjin siano i romanzi o racconti o saggi di Naipaul.

Ma mentre per il primo la Cina ed i problemi connessi alle gravi condizioni individuali e sociali della sua popolazione sono temi dominanti e quasi unici, per il secondo gli spazi ed interessi risultano più estesi.

E’ stata, in Naipaul, l’attività giornalistica a fargli conoscere diversi luoghi, ambienti e popoli del mondo, a farglieli osservare, studiare soprattutto se emarginati, sfruttati ed a procurargli i vari motivi della sua produzione narrativa e saggistica.

Nei primi romanzi e racconti protagonisti saranno i poveri dei sobborghi di Trinidad, dove lo scrittore è nato nel 1932. In particolare i bambini di famiglie povere, privati dell’ambiente e cultura originari in seguito alla colonizzazione, interpreteranno tali narrazioni.

Queste saranno percorse da una vena umoristica che scomparirà nella fase successiva dove i contenuti diverranno più impegnati politicamente e, tra romanzi e saggi, si dirà della condizione dei poveri della Malesia, del Pakistan, dell’Iran, dell’Indonesia nonché dell’India, terra degli antenati di Naipaul e da questi maggiormente visitata e trattata.

Esemplare per chiarezza espositiva, penetrazione psicologica e perché continuamente animata si rivelerà ovunque la sua prosa al punto che come lo scrittore anche il saggista giungerà al lettore con facilità, prontezza ed interesse.

Tra i tanti suoi libri ristampati in occasione del Nobel c’è il saggio “Una civiltà ferita: l’India” (ed. Adelphi, pagg. 259, lire 24.000).

La prima edizione dell’opera risale al 1977 e la sua connotazione principale consiste nella particolare atmosfera che la percorre e, fino alla fine, rimane invariata.

Qui Naipaul riesce a muoversi con sorprendente abilità tra accettazione e negazione di quanto visto o saputo durante il viaggio indiano, tra richiamo e rifiuto, attrazione e denuncia verso una terra, una gente passate da remote condizioni di civiltà ad un lungo periodo di dominazione straniera, alla riconquista dell’indipendenza, agli svantaggi da questa comportati, allo stato di emergenza infine proclamato e durato fino ad oggi.

E’ la storia intera dell’India ad essere percorsa dal Naipaul di quest’opera. Antico e nuovo, passato e presente, soggetto ed oggetto, l’autore e gli altri sono i termini tra i quali  si articola il discorso senza mai soffermarsi in modo particolare.

E’ una scoperta interminabile dei luoghi, tempi, avvenimenti, personaggi che hanno fatto e fanno parte di una storia millenaria quale l’indiana; una ricerca infinita dei motivi, significati, fini, della cultura, letteratura, arte, scienza, religione, magia, mitologia, costume che hanno caratterizzato e caratterizzano un percorso così ampio e prolungato come pochi altri nella storia dei popoli; un confronto continuo tra tanto esterno e l’interiorità dell’autore, i suoi sentimenti, la sua opinione.

Questa giunge a riconoscere che le cause della grave e diffusa arretratezza ancora esistente in India sono da attribuire alla condizione mentale degli indiani, al concetto che dalla loro preistoria è giunto fino ai contemporanei circa una vita da intendere soprattutto quale esperienza contemplativa, meditativa, lontana dall’azione, alla mancata formazione di una coscienza nazionale, di un’idea di popolo, razza, nazione perché come ai tempi remoti preponderante è ancora il senso dell’individuo, della famiglia, casta, clan, agli errori di chi, nel tempo, ha assunto funzioni di guida illuminante, Gandhi, Bhave, Indira Gandhi o altri mahatma che non hanno saputo modificare tali principi ma li hanno ripresi e consolidati.

Emerge dall’analisi del Naipaul una disarmante verità: la religione, in India, ha avuto ed ha tale influenza sui modi di pensare ed agire, sulla vita degli indiani da essersi trasformata in ossessione, fanatismo, da frenare ogni tipo di progresso o sviluppo, da aver fatto divinizzare la povertà, la miseria e ridotto un popolo dalle gloriose tradizioni ad una moltitudine priva d’identità. Naipaul, nel libro,  non si trattiene  dal denunciare questi problemi, dall’indicarne i responsabili, dall’avviare polemiche e neanche dal far trasparire il fascino che avverte per quanto di primitivo, intoccato, eterno ha visto e provato a contatto con quei luoghi, dal mostrarsi diviso tra le ragioni della storia e quelle dello spirito e dal lasciare il lettore sospeso tra quanto da lui pensato e quanto sentito, tra i doveri del saggista e le libertà dell’artista.


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