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Prima ed ora

di Antonio Stanca

Per secoli è avvenuto in campo artistico che un autore, poeta, scrittore, pittore, scultore, drammaturgo, non assistesse durante la sua vita, tranne qualche caso, al riconoscimento da parte dei contemporanei  del valore della propria opera  e che questo si verificasse dopo la morte. Egli sentiva, pensava, produceva soprattutto per i posteri, per quanto sarebbe successo dopo di lui, per una fama da conquistare. Per simile ideale affrontava sacrifici di ogni genere, privava sia il corpo che la mente di interessi o piaceri che non rientrassero tra quelli della creazione artistica, viveva solo per l’opera anche se  questo significava spesso escludersi o essere escluso dal contesto, dall’ambiente, dagli altri per mancata comunicazione o comprensione. Condizioni di vita così limitative e privative non erano sofferte dall’artista perché proiettate verso un destino di gloria che l’opera poteva riservargli. Ed è pure avvenuto che la gloria se non la consacrazione siano giunte per tanti autori, che essi siano divenuti famosi per sempre, che la scuola ne abbia tratto i suoi programmi per l’istruzione e formazione dei giovani, insomma che le loro aspirazioni si siano realizzate al punto che le loro opere costituiscono ormai il patrimonio culturale e artistico di una nazione, la sua identità. Così è stato per il passato mentre ai nostri tempi si sta verificando un fenomeno che nessuno avrebbe potuto prevedere: sempre più frequenti risultano, nell’ambito della critica letteraria, le revisioni, le ritrattazioni di personaggi od opere per secoli rimasti celebri e sempre più benevoli, indulgenti i giudizi verso la produzione contemporanea. A muovere la prima operazione sono generalmente delle scoperte improvvise o rivelazioni insospettate ed è difficile stabilire quanto corrispondano ad una verità effettuale e quanto alla ricerca del clamore che da ogni rivelazione deriva a chi ne è autore, del successo quasi assicurato in un ambiente sociale come il nostro impostato, da tanta stampa e mezzi di comunicazione, sull’evento spettacolare, sul colpo di scena risolutivo.

Il problema, tuttavia, non sta soltanto qui ma soprattutto nella tacita accettazione che gli stessi critici mostrano circa tanti autori ed opere dei nostri giorni che nessun criterio di valutazione potrebbe spiegare o giustificare. Da quando non si distingue più tra generi, contenuti e forme e non si sa più cos’è l’arte, il numero delle persone che scrivono è divenuto così elevato  e le scritture così varie da non permettere d’essere riportate ad un’unica corrente di pensiero, di definire un sistema culturale, artistico nel quale la modernità si riconosca. Questo anche perché l’attività critica, che dovrebbe distinguere, valutare, segnalare, non lo fa. Sono accolte  tutte le opere prodotte anche se, a differenza del passato, i loro fini non sono trascendenti ma immanenti, concreti, riportabili ad una determinata contingenza, tendenza o moda e come questa destinate ad esaurire  la loro funzione in breve volgere di tempo, a finire di valere nel giro di pochi anni o mesi o giorni. Oggi si scrive non per il futuro ma per il presente, per mostrarsi, per piacere a se stessi ed agli altri, si scrive non perché si è scrittori o poeti ma perché così vogliono i tempi e perché, come in tutti i settori, anche in letteratura è sopravvenuta e si è diffusa una sempre maggiore tolleranza. Ne è derivata una situazione che ha gravemente confuso temi, problemi, linguaggi, valori, ha disorientato il lettore e reso la lettura un’attività sempre meno praticata. Finirà con lo scomparire se si tiene conto che nel contempo è incalzata da nemici quali le immagini televisive e telematiche che, si prevede, la sostituiranno completamente.

Un’umanità che, in nome della sua modernità,  si procura sempre nuovi problemi è la nostra: sembra assurdo ma è vero.


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