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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Per un nuovo volontariato: quale modello di cittadinanza
Convegno nazionale, Museo del Corso, Roma 1-2 ottobre 2004

Gratuità e sistema educativo

Luciano Corradini, Università di Roma Tre, presidente UCIIM e AIDU


Riflessione preliminare sul tema

Guidano questa riflessione sul rapporto fra gratuità e sistema educativo le domande di fondo formulate dal presidente del nostro Comitato scientifico Nicolò Lipari. "E’ possibile leggere il dovere in chiave di gratuità? E’ possibile vivere le istituzioni non più come strutture ossificate e castranti, ma come luoghi da vivificare in funzione di una disponibilità volontaria?"

Questa possibilità, che a tutta prima sembra ridursi ad un ossìmoro o ad un imbroglio di parole, va esplorata da diversi punti di vista: filosofico, teologico, psicologico, sociologico, giuridico, pedagogico e politico. Sono compiti che in qualche modo questo convegno nazionale affronta nella loro totalità.

Per quanto mi riguarda, noto che un primo criterio per stabilire la sussistenza di questa possibilità sta nella verifica empirica dell’esistenza di comportamenti di persone che vivano di fatto il dovere e le istituzioni in chiave di gratuità. Ab esse ad posse datur illatio, dicevano i medievali. Poiché non c’è dubbio che almeno qualcuno si comporti in questo modo, il problema sta nell’esplorare anzitutto le condizioni di questa esperienza e poi le condizioni della generalizzabilità di questo comportamento.

Ci si può quindi impegnare nel pensare ad una legittimazione teorica di questo agire ispirato a gratuità, attraverso riflessioni riconducibili ai punti di vista sopra indicati, a partire dalla psicologia di chi viva questa esperienza; e/o nel pensare ad una sua diffusione nella prassi, attraverso interventi di tipo testimoniale, didattico, divulgativo, con forme varie di incentivazione, anche sul piano istituzionale.

E’ questo il lavoro che si compie fra l’altro in FIVOL e in tutte le sedi in cui la preoccupazione per l’inadeguatezza dell’apparato istituzionale a tutti i livelli, si trasforma in impegno sia a capire, sia ad educare e ad educarsi non solo come scontenti consumatori di diritti e svogliati esecutori di doveri, ma come persone produttrici di senso comunitario e di nuova cittadinanza. L’obiettivo è quello di diventare e di aiutare gli altri a diventare, oltre che persone colte e coscienti, "cittadini praticanti", e cioè rispettosi delle istituzioni e impegnati a custodirle e a migliorarle. I versanti insomma sono due: il primo è di tipo giustificativo, il secondo di tipo esecutivo.

I significati del gratuito, in rapporto all’educazione

Sul piano giustificativo nel nostro caso ci limitiamo ad accennare alla fenomenologia di questi comportamenti, quantitativamente minoritari ma qualitativamente notevoli, rintracciabili in persone, associazioni, istituzioni raramente segnalate dalla cronaca, e a ricordare alcune caratteristiche del ‘sistema educativo’ così come sono previste dal nostro ordinamento, in rapporto al tema dell’educazione alla gratuità; sul piano esecutivo si tratta di sviluppare con intelligenza, con coerenza, con generosità e con coraggio (virtù che purtroppo non stanno sempre insieme), iniziative ed esperienze che non sono di oggi, ma che in questo tempo dispongono almeno di alcune forme d’incoraggiamento e di alcuni strumenti istituzionali.

In ogni caso occorre intendersi preliminarmente sul significato della gratuità e dell’aggettivo gratuito. I quali non fanno pensare anzitutto alla connessione con i valori forti del volontariato, come prevede il nostro convegno, in particolare nella sua prima sessione: gratuito, in prima battuta vuol dire per lo più immotivato, privo di ragione plausibile, senza senso, come quando si parla di violenza gratuita e di offese gratuite; e per altro verso significa non costoso, gratis, che si può avere senza pagare, e che quindi non sembra valere molto.

Questa accezione debole o negativa è dovuta al fatto che di solito si pensa al gratuito in contrapposizione alla razionalità burocratica o funzionalistica, al mercato e agli obblighi di legge o di costume, più che in rapporto alla grazia intesa come bellezza, come amabilità, come dono, come libertà interiore, come originaria bontà, che avanza oltre le previsioni della burocrazia e della politica, come esperienza di umanità sorgiva e addirittura del divino che è in noi, e che si realizza donando. Come ha scritto in un suo tema un bambino di cui non ricordo il nome, con una frase che è stata utilizzata dal suo insegnante per intitolare un libro: Dio ha fatto il mondo gratis.

Nella ricerca etimologica si è trovato che il latino gratis verrebbe da una voce indoeuropea di carattere religioso che significa "cantare inni": e corrisponde al greco chàris, donde il latino chàritas, che significa amore, distinto sia dalla filìa, sia dall’èros.

Anche riferiti alle accezioni deboli o negative prima ricordate, i termini in questione hanno a che fare con l’educazione e col sistema educativo. Basti pensare, in negativo, al bullismo e a tutte le forme di violenza "gratuita", e cioè sgraziata, che affliggono le nostre scuole; e in positivo a quanto sia desiderabile una vita familiare, scolastica, associativa, pubblica in cui si faccia bene il bene, con grazia e cortesia, senza imposizioni e ribellioni e senza mercanteggiamenti e sotterfugi.

Il concetto di sistema educativo e le sue vicende culturali e istituzionali

In senso ampio il sistema educativo di cui parla il nostro tema comprende senz’altro anche la famiglia e gli altri enti educativi, come le chiese, le associazioni giovanili, i mass media e altre enti pubblici e privati che, pur non essendo centralmente educativi, svolgono anche un ruolo accidentalmente educativo (o diseducativo come talora è più corretto definirlo).

Il termine sistema educativo non è solo un contenitore verbale di buone intenzioni, ma è l’espressione giuridica con cui la legge Moratti 18.3.2003 n.53 definisce, all’art. 2, l’istruzione e la formazione professionale per tutto l’arco della vita: vi si parla infatti di "sistema educativo d’istruzione e di formazione". L’espressione è ripresa letteralmente dalla legge 10.2.2000, n.30, la legge dell’Ulivo che il Parlamento della Casa delle libertà ha abolito.

I termini educazione istruzione e formazione indicano dunque per il nostro ordinamento attività e funzioni che definiscono tutte insieme, sia pure con gradualità diverse, i compiti delle istituzioni educative pubbliche; e non devono perciò essere più utilizzati come simboli polemici di visioni ideologiche contrapposte, o come termini che definiscano ambiti fra loro estranei e separati, come sono ancora oggi la scuola e i centri di formazione professionale.

La sopravvivenza della formula giuridica "sistema educativo di istruzione e di formazione" nella nuova legislatura non è ancora la garanzia del funzionamento sistemico di tutti i soggetti che in un modo o nell’altro fanno parte di questo sistema, né della capacità/volontà di assumere un concreto impegno educativo da parte di coloro che vi operano come professionisti, ma testimonia almeno della comune volontà di rifarsi ad un criterio alto, per indicare che le attività riconducibili all’istruzione e alla formazione professionale non sono pensabili al di fuori di un contesto e di una finalizzazione educativi.

Ricordiamo anche che già la legge 10.3.2000, n. 62 sulla parità, sostenuta da Berlinguer, aveva stabilito all’art. 1 che "il sistema nazionale di istruzione (…) è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali".

La più recente legge Moratti, che naviga perigliosamente fra le secche della finanza pubblica e la bonaccia di motivazioni ideali, non va esente dal rischio che l’aggettivo educativo, issato sul pennone più alto, finisca per assumere un carattere puramente esornativo, più che programmatico, e che qualcuno pensi di eliminarlo di nuovo come inutile orpello, o pericoloso paravento. Non è la prima volta che l’educazione compare e scompare dalla stima degli addetti ai lavori e perfino dal frontespizio del palazzo di Viale Trastevere.

La sua presenza in quella sede nel fatale Ventennio non ci assicurava sulla qualità educativa di quel regime, né la sua polemica cancellazione nell’epoca successiva ha significato anche assenza di educazione scolastica nelle leggi e nel costume. Queste leggi e questo costume oscillano sovente fra l’enfasi e la rimozione dell’educativo, che, un po’ come l’aggettivo gratuito, viene caricato volta a volta di significati salvifici o squalificanti.

Nella scorsa legislatura negli uffici del Ministero, che si chiamava ancora "della Pubblica Istruzione", si parlava malvolentieri di educazione, sostituendo il termine, ovunque possibile, con istruzione o col più ampio termine formazione. Ma alla fine è prevalsa la soluzione integrativa, rispetto a quella alternativa, come ho ricordato.

Qualcuno scrisse allora che il ministro Luigi Berlinguer voleva liberare la scuola dal fardello delle "educazioni", pensando che sarebbero state d’intralcio ai "saperi" e alle "competenze". In effetti negli anni ’80 e ’90, nell’impossibilità di ottenere una riforma parlamentare del sistema scolastico, con particolare riferimento alla secondaria superiore e alla formazione professionale, si era lavorato particolarmente intorno all’educazione alla salute, voluta dalla legge contro le tossicodipendenze (dpr.309/1992), e a tutti i valori connessi con questo ampio concetto, che in latino significa augurio di benessere, di felicità e persino di salvezza.

Dall’educazione alla salute alla "cultura costituzionale"

Memori della lezione diffusa in tutto il mondo dai rapporti dell’UNESCO, firmati da Edgar Faure nel 1972 e da Jacques Delors nel 1996, che affidavano alla scuola, accanto ai compiti di tipo cognitivo e strumentale (insegnare a imparare, a conoscere e a fare) anche i compiti di tipo etico e sociale (insegnare a vivere insieme e ad essere), di fronte all’esperienza del disagio giovanile e alle sue cadute nella droga, nella devianza, nella dispersione, al Ministero si elaborò quel Progetto Giovani 93/2000, col quale anche la FIVOL ha collaborato validamente. Basti pensare alla collana di succosi libretti editi dalla FIVOL stessa, sotto il titolo generale "Gioventù domanda".

Solo per memoria storica ricordo che le polarità entro cui era pensato il Progetto Giovani e Ragazzi 2000 erano l’identità personale e la solidarietà mondiale; e che gli slogan relativi non invitavano ai giochi del Club Méditeranée, come qualcuno insinuava, ma a perseguire obiettivi di benessere attraverso condizioni moralmente impegnative, che suonavano in questo modo: "star bene con se stessi, in un mondo che stia meglio; con gli altri, nella propria cultura, in dialogo con le altre culture; nelle istituzioni, in un’Europa che conduca verso il mondo".

I congiuntivi indicano la condizionalità e il dinamismo che si volevano legare all’ universale desiderio di superare lo "star male" con lo "star bene": segnalano cioè la via del pensiero e dell’azione, per un "viaggio" verso se stessi, gli altri e le istituzioni, che sia valida alternativa al viaggio nella droga e nella devianza. Il tutto nella prospettiva del successo scolastico e umano di un giovane protagonista della vita scolastica, al posto dell’insuccesso di un giovane disorientato, in fuga dal mondo e da se stesso.

Una sintesi delle"educazioni" implicite in questo programma "trasversale", con le necessarie mediazioni di tipo pedagogico e di tipo istituzionale, fu messa a punto dal governo "tecnico" Dini-Lombardi nella direttiva 8.2.1996 n.58, e nell’allegato documento intitolato "Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale".

Questa sintesi intendeva rinforzare l’asse valoriale della scuola, rivelatosi altrettanto debole quanto quello cognitivo, nell’ambito di un contesto normativo, quello dei primi anni ’90, nel quale non c’erano ancora né l’autonomia scolastica, né la riforma degli ordinamenti della secondaria. Col successivo Governo dell’Ulivo, questi progetti Giovani, Ragazzi 2000 e Genitori, istituzionalmente deboli, ancorché radicati nella legge e nei relativi finanziamenti, furono abbandonati, con la conseguente perdita di idee e di esperienze preziose, ma si portarono ad ordinamento l’autonomia scolastica, ora entrata anche nella Costituzione, e lo "statuto delle studentesse e degli studenti".

Dall’autonomia alla riforma degli ordinamenti

Sono in tal modo aumentati gli spazi di manovra, per chi intenda (e istituzionalmente questa è l’unica visione corretta) la scuola come istituto educativo. L’autonomia infatti viene finalizzata dal dpr 275/1999 al "pieno successo formativo": espressione con cui s’intende evidentemente combattere l’insuccesso e il relativo disagio, mentre nel dpr 249/1998, che ha promulgato lo statuto degli studenti, la scuola è definita come "luogo di formazione e di educazione….E’ una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni".(art.1,2, sottolineatura mia).

La legittimazione è alta e l’apertura a tutte le dimensioni della persona è notevole, coerente col disegno costituzionale, che all’art. 3 finalizza l’intero ordinamento al "pieno sviluppo della persona umana". Nella presente legislatura, questo spazio ideale non è rimasto vuoto di intenzioni, di iniziative e di normative, anche se vi restano vistosi limiti di coerenza operativa.

Ora che il Ministero si chiama MIUR, il ministro Letizia Moratti non perde occasione per sottolineare il primario valore educativo della scuola, ricollegandosi frequentemente al ruolo della famiglia, sia in sede domestica, sia in sede scolastica. Del resto la sua legge parla di "cooperazione tra scuola e genitori": questa si esprime sia nella scelta di una parte del curricolo, sia nella elaborazione del portfolio delle competenze individuali, ossia nella individuazione di materiali scolastici e nella stesura di "annotazioni" di genitori, che influiscono anche sulla valutazione.

Si notano a questo proposito gli influssi del recente riferimento costituzionale e normativo alla sussidiarietà, che ha indotto il legislatore delegato a considerare genitori e studenti non come dei semplici fruitori del servizio offerto dagli erogatori del medesimo, ma in certo senso come dei coprotagonisti dell’attività educativa della scuola.

Ai genitori infatti si riconosce la possibilità di scegliere una parte delle attività scolastiche o di non sceglierle affatto. In tal modo si riduce il tempo per la scuola obbligatoria per tutti, nell’ambito del primo ciclo, fino a 14 anni, dando motivo alla querelle sull’abolizione del tempo pieno.

Si direbbe che la libertà si giochi più sulla offerta della possibilità di disobbligarsi, di non avvalersi, che in quella di riconoscersi, partecipando, nel progetto comunitario di scuola cui alludevano le leggi degli anni ’60 e ’70. Tanto più che si è lasciata illanguidire, con l’inerzia parlamentare, la visione partecipativa che giusto trent’anni fa aveva alimentato la nostra scuola con i decreti delegati.

E poiché con i tempi anche la disponibilità del personale e le risorse economiche di fatto si riducono, si nota una evidente discrasia fra le intenzioni chiaramente manifestate, anche con toni convinti, da parte del Ministro in carica, e le concrete possibilità di incentivare la mentalità alla quale allude la domanda di Lipari, richiamata all’inizio di questo intervento.

Educazione alla convivenza civile e volontariato

L’humus in cui può essere coltivata questa mentalità ha di recente trovato un riconoscimento formale nelle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati della scuola primaria e secondaria di primo grado, e nel Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo di istruzione, allegati al d.lev.vo 19.2.2004, n.59, primo decreto attuativo della legge delega n.53.

E’ in sede di attuazione di questa legge, che impegna la scuola a promuovere "il conseguimento di una formazione spirituale e morale" e a "educare ai principi fondamentali della convivenza civile", che le "Indicazioni nazionali" identificano e propongono alla scuola, in riferimento a questi principi fondamentali, l’educazione alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività

Nell’ambito delle abilità a cui fare riferimento, nel corso della scuola primaria, per l’educazione alla cittadinanza, si chiede che il fanciullo sappia "impegnarsi personalmente in iniziative di solidarietà", mentre nella sintesi del profilo dello studente si chiede che abbia conquistato, entro i 14 anni "gli strumenti di giudizio sufficienti per valutare se stessi, le proprie azioni, i fatti e i comportamenti individuali, umani e sociali degli altri, alla luce di parametri derivati dai grandi valori spirituali che ispirano la convivenza civile"; che avverta "interiormente, sulla base della coscienza personale, la differenza fra il bene e il male" e sia "in grado di orientarsi di conseguenza nelle scelte di vita e nei comportamenti sociali e civili"; che sia disponibile "al rapporto di collaborazione con gli altri, per contribuire con il proprio apporto personale alla realizzazione di una società migliore"; che si ponga "le grandi domande sul mondo, sulle cose, su di sé e sugli altri, sul destino di ogni realtà, nel tentativo di trovare un senso che dia loro unità e giustificazione", nella consapevolezza, tuttavia "dei propri limiti di fronte alla complessità e all’ampiezza dei problemi sollevati".

Il progetto ministeriale "Scuola e volontariato"

Intervenendo a Torino, il 17 maggio 2003, al convegno nazionale che ha lanciato ufficialmente il progetto triennale "Scuola e volontariato", il ministro Letizia Moratti ha parlato di un "compito nuovo per la scuola: passare dalla promozione di una generica ‘vocazione socializzante’ alla promozione e alla formazione dell’’essere volontari’, in cui il valore della solidarietà possa essere insegnato e acquisito attraverso la partecipazione attiva". Ha presentato i dati relativi ad un primo rapporto Scuola-Volontariato, da cui risulta che 261 scuole secondarie superiori avevano presentato 481 progetti, che avevano interessato 6218 studenti, 1416 docenti, 1430 genitori. "Non si tratta, ha aggiunto, di premiare chi fa volontariato: so che i ragazzi credono nell’azione gratuita del volontariato, a prescindere da qualunque riconoscimento del credito scolastico. Il volontariato è infatti una scelta che si persegue, in cui si crede, senza inseguire alcun tornaconto. Ma la scuola può e deve riconoscere le buone pratiche, farle crescere e qualificarle".

Inaugurando l’anno scolastico in corso il 20 settembre al Vittoriano, il Ministro ha elogiato di nuovo i volontariato, alla presenza di ragazzi che hanno fatto esperienze di questo tipo in tutta Italia. La solennità e la sacralità del luogo, con un centrato intervento del presidente Ciampi, ha toccato corde profonde, in chi non ha squalificato come retorica quella manifestazione, chiedendo il conto al Ministro sul piano degli stanziamenti e dei provvedimenti per la scuola. Ma il gratuito ha a che fare anche col non pretendere di leggere ogni momento della vita in chiave economica o politica. Sarebbe miope pensare che si debbano celebrare solo i concerti di Vasco Rossi o le vittorie olimpiche, e non anche i buoni esempi e i buoni sentimenti, che tutto sommato hanno fatto l’Italia e ancora riescono a tenerla insieme.

Conclusa la festa, resta il problema. Come si può prima identificare e poi incentivare la pratica di un’azione gratuita, non mercantile, in una società e in un apparato normativo che, al di là delle nobili e innocue affermazioni di principio, sembra apprezzare solo la mentalità aziendale, tesa all’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro? Come si può sviluppare la mentalità dell’azione gratuita non solo, cosa già pregevole, nelle attività di volontariato che occupano parte del tempo scolastico e del tempo libero in funzione di obiettivi "aggiuntivi" nei riguardi dei propri doveri quotidiani, ma anche nel concreto esercizio di questi doveri?

Gratuità e Costituzione

Questa mentalità è ben precisata nell’art. 4 della Costituzione, felicemente ricuperato nelle attuali prose ministeriali, che recita con chiarezza: "Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società". E’ questa la condizione perché si realizzino il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese: in altri termini perché si realizzi il progetto di democrazia repubblicana delineato nei primi tre articoli. L’alternativa è la ricaduta nella barbarie totalitaria.

Lavorare con questo spirito e con questa finalità significa esercitare diritti e doveri vivendoli come valori, con senso di gratuità, che in questo caso significa grazia sovrana, non obbedienza ad altri, per timore, per necessità o per convenienza. Naturalmente non si pretende - non sarebbe realistico né ragionevole - che le motivazioni al proprio lavoro siano solo quelle relative al progresso materiale o spirituale della società.

Si vuol dire che se si perde di vista questa finalità, se ci si accartoccia solo nella ricerca del particulare guicciardiniano, come emerge da recenti ricerche sui giovani, i valori della convivenza civile e la coesione sociale progressivamente si liquefano come i ghiacciai e le calotte polari, e infine l’apparato istituzionale collassa. Quello che è successo nello scorso decennio in Ruanda e nell’ex Jugoslavia e quello che sta ancora succedendo in molti paesi africani mostra tutta la gravità del crollo delle istituzioni politiche e sociali.

Preoccupa la miopia dei giovani, ma preoccupa ancor più quella di noi anziani, che abbiamo perduto la chiarezza della visione dei padri fondatori della Repubblica, della costruzione europea e delle Nazioni Unite e che rischiamo di lasciare questo mondo senza aver assicurato agli eredi il possesso delle "istruzioni per l’uso" e soprattutto dei criteri di manutenzione delle istituzioni democratiche.

Di più: lasciamo un mondo più complesso, più inquinato, avendo saccheggiato in vario modo risorse pubbliche. E qui debbo ricordare l’iniziativa "esagerata" assunta da circa trecento persone e cinque consigli comunali di questo paese, per segnalare che il nostro stato non è onnipotente e cattivo per definizione, e quindi degno d’essere comunque gabbato e derubato, ma traballante e malconcio, per il modo con cui è stato e viene ancora amministrato da molti, e per il modo con cui viene trattato dai cittadini evasori.

Il significato di un esperimento sociale con finalità educative

Alludo all’associazione per la riduzione del debito pubblico, che ha svolto negli undici anni scorsi, e ancora non va in pensione, un ruolo di studio, di denuncia, di testimonianza, a proposito del debito pubblico. Ospite della FIVOL, a cui rivolgo anche in questa sede un vivo ringraziamento, l’ARDeP ha segnalato il problema del debito, delle sue cause, delle sue conseguenze e delle vie per ridurne la portata malefica, con una provocazione: quella del volontariato a favore del fisco, e cioè dello stato.

Non siamo solo il paese più indebitato d’Europa, ma anche l’unico, a quanto ci risulta, in cui i cittadini abbiano versato più del dovuto (una cinquantina di milioni di vecchie lire, che anche in euro continuano a confluire al Fondo di ammortamento dei titoli di stato), sia per vergogna nei confronti degli altri paesi, sia per sdegno nei riguardi dei corruttori e dei corrotti nel nostro paese, sia per incoraggiare gli onesti, sia per la soddisfazione morale di segnalare da un lato un grave pericolo, dall’altro la possibilità di "sortirne insieme", se si vorrà imboccare la strada del gandhiano "morire" dell’individuo e della famiglia, perché la nazione e l’Europa vivano. Il piccolo esperimento fatto dall’associazione in questo periodo ha dimostrato però che non si muore affatto, anche dando una piccola somma da volontari fiscali allo stato.

Tra i fondatori dell’associazione c’erano un insegnante, vicepresidente del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, un dirigente di Confindustria, il presidente nazionale di un’associazione di genitori e il vicepresidente nazionale di un’associazione di insegnanti e alcuni dirigenti di ministeri.

Qualcuno anzi, come gli speleonauti che stanno mesi sotto terra per vedere come si comporta l’organismo in quelle condizioni, ha dimostrato con versamenti mensili al citato Fondo, che si può campare un anno e mezzo col 10% di stipendio in meno, senza danni particolari al fegato, al cuore e, si spera, al cervello.

Della cosa si è parlato nel convegno della FIVOL sul dono. Per una documentazione delle vicende trascorse, del generoso incoraggiamento ricevuto dalle somme Autorità dello Stato, delle stupefacenti testimonianze raccolte da comuni cittadini, del rigoroso silenzio in proposito degli economisti e dei politici, e per approfondire la morale della favola, rinvio al libro La tunica e il mantello. Debito pubblico e bene comune. Provocare per educare, Euroma, Roma 2003. I diritti d’autore vanno al citato Fondo.

Si può capire l’intenzionalità di questo comportamento, che speriamo sia considerato gratuito nel senso migliore dell’espressione, pensando al comportamento di un padre e di una madre di famiglia, che vegliano la notte un figlio ammalato non perché lo impone qualche legge o perché qualcuno gli aumenta lo stipendio: ma semplicemente perché con quel servizio esercitano la loro umanità generativa, realizzando se stessi nell’atto di curare il figlio.

Se, come scrisse Alberoni nel 1992, tutti capiscono che con questo debito non si può andare avanti "ma al momento di pagare tutti si tirano indietro", noi non siamo rimasti indifferenti di fronte al pericolo di bancarotta e abbiamo fatto qualche passo avanti. I cinquanta milioni donati in questo decennio allo stato sono quantitativamente neppure un soffio di fronte al debito: ma qualitativamente ci hanno fatto fare un’esperienza che ha cambiato il nostro modo di vedere i rapporti tra le generazioni, la famiglia, la società, lo stato, il privato e il pubblico.

La condivisione della sofferenza e della gioia di superarla e di costruire, anche nella scuola

E’ la condivisione del limite, della sofferenza, è l’identificazione del proprio bene col bene dell’altro, è l’amore per lui che induce il genitore a dare, anche senza la garanzia che ci sarà qualche forma di restituzione da parte del figlio. Dando a lui, è come se desse a se stesso.

Discorso analogo vale per l’insegnante. Non sono in questione lo stipendio e tutte le garanzie giuridiche e sindacali che una ragionevole contrattazione riesca ad assicurare a dignitosi professionisti. E’ in questione il vissuto dell’insegnante, soprattutto in un periodo storico in cui sono esplosi i diritti, sono implosi i doveri e sono impalliditi i valori che non siano quelli del proprio personale interesse, anche per i comportamenti e le scelte di responsabili di talune istituzioni e di personaggi che influiscono come modelli sulla fantasia dei giovani.

Occorre una forte coscienza della dignità del proprio compito antropologico, sociale e politico (nel senso costituzionale indicato) per valorizzare ogni giorno l’attività educativa, istruttiva e formativa che, insegnando, si compie a favore di ragazzi e di famiglie spesso inconsapevoli della posta complessiva in gioco.

La possibilità di un’azione volontaria dei docenti nella scuola, in modo anche gratuito, come previsto per esempio dal citato dpr 309/1992, non va letta come elemosina ad uno stato indebitato e taccagno, ma come la possibilità di esprimere la propria professionalità anche al di fuori di stretti vincoli di contratto.

Prevedo le obiezioni. E ricordo, rischiando il linciaggio, che i colleghi dell’Est europeo, con cui da anni noi dell’UCIIM passiamo una settimana estiva di convegno, fanno un lavoro come il nostro per 250 euro al mese. Nella quota di soggiorno, noi della vecchia Europa mettiamo qualche euro anche per loro. L’Europa dei diritti non è gratis: costa impegno e fatica, come qualunque bene prezioso. Uno degli slogan lanciato dell’ARDeP, per i pochi che ne hanno letto i notiziari era: "Adottiamo l’Italia, per meritare l’Europa". Naturalmente non è proibito pensare che in questo modo si potranno fare anche buoni affari.

Si tratta qui di quel volontariato per le istituzioni e entro le istituzioni che appare coerente, quando è possibile, con lo stesso esercizio della professione docente, ove la si legga alla maniera di Socrate, invece che di quella, altrettanto legittima e sindacalmente più corretta, ma non altrettanto densa di futuro, dei sofisti.

Se è vero che gli insegnanti ogni giorno a scuola creano il dialogo, come ha scritto l’UNESCO in uno slogan recente, è anche vero che ogni giorno costruiscono la Repubblica, con maggiore o minor lena, convinzione ed efficacia. Torna alla mente l’apologo dei tre scalpellini, che raccontano al viandante che cosa stanno facendo: il primo dice che spacca una pietra, il secondo che si guadagna da vivere, il terzo che sta costruendo un tempio.

E’ possibile far sapere, fra tanti scandali che non scandalizzano più nessuno, ma che inducono alla rassegnazione e a "farsi i fatti propri" o a elaborare teorie eversive, che in giro esistono anche gli scalpellini numero tre; che l’amore gratuito del genitore, esso stesso passibile di gravi deviazioni patologiche, puntualmente enfatizzate dalla cronaca massmediale, si estende di fatto in molti casi anche ai propri amici, ai propri vicini, ai propri scolari, ai propri concittadini, e perfino alle istituzioni, dal quartiere al comune alla regione all’Italia all’Europa e al mondo?

C’è chi dice perentoriamente di no, c’è chi dice retoricamente di sì; e c’è chi dimostra, con le sue scelte e con la sua vita, che si può trascendere le appartenenze e le identificazioni di corto respiro, per mettersi dal punto di vista del bene comune a molti, dalla scuola alla patria nazionale all’umanità, per sconfiggere quanto possibile i mali altrui, vissuti come mali comuni, e per tentare di sorreggere, anche con le proprie spalle e le proprie mani, la "casa" culturale e istituzionale indispensabile alla vita umana.

L’icona infernale della scuola ossetica di Beslan, distrutta nelle mura, nelle persone e colpita nei valori culturali più profondi, da fanatici terroristi suicidi, che hanno inteso sfogare la disperazione dovuta alla comune incapacità di costruire nel rispetto reciproco le istituzioni della Cecenia e della Russia, mostra il duplice volto della gratuità: la gratuità come insensatezza di chi rifiuta la vita, perché problematica, complessa e talora tragica; e la gratuità di chi dice di sì alla vita e a tutto ciò che le consente di svilupparsi e di fiorire nell’armonia, anche al di là delle proprie particolari vedute e dei propri interessi.

Dopo tutto, Simona Torretta e Simona Pari sono nate su questa terra, e non su Marte. La partecipazione corale per la sofferenza dovuta al loro sequestro, la solidarietà morale e politica mai così unanime, la loro liberazione sotto la luna, con l’abbraccio di famiglia, Governo, opposizione, istituzioni e volontariato, vicini di casa e piazze festanti, hanno mostrato un’icona opposta a quella di Beslan: là la spaccatura fra istituzioni e società civile, con la reciproca distruzione. Qui l’abbraccio fra volontariato e istituzioni, fra mondi vitali e mondi istituzionali, all’insegna della volontà di aiutare e di educare i ragazzi che hanno subito prima l’embargo, poi la guerra, poi una snervante guerriglia terroristica.

L’immagine delle due ragazze sorridenti che si tengono per mano, miti e vittoriose, nutrite da cultura filosofica, antropologica, vissute in chiave di pedagogia interculturale e per una concreta testimonianza di pace, va tenuta presente nelle nostre scuole; mentre purtroppo in Palestina gli eroi da venerare sono giovani armati che si sono fatti esplodere per uccidere decine di innocenti.

La dialettica vitale fra individuo famiglia nazione mondo

Dall’Oriente, oltre agli omicidi suicidi moltiplicatori di odio viene anche un’altra visione del mondo: quella di Gesù, che vede nella disponibilità a sacrificarsi per gli altri la condizione per avere una vita più abbondante ("se il granello di frumento non marcisce non porta buon frutto") e quella di Gandhi, che in Antiche come le montagne ha scritto questa summa di saggezza etico-politica: "I doveri verso se stessi, la famiglia, la nazione, il mondo non sono indipendenti uno dall’altro. Non si può servire la nazione facendo torto a se stessi e alla famiglia. Similmente non si può servire la nazione facendo torto al mondo. In ultima analisi dobbiamo morire affinché la famiglia possa vivere, la famiglia deve morire affinché la nazione viva, la nazione deve morire affinché il mondo viva". (tr.it. Comunità, Milano 1978, p. 163)

Il retto amore di se stessi, della famiglia e della nazione sta nella capacità di vincere l’egoismo, il familismo, il nazionalismo, in quanto "fanno torto" al mondo, e quindi in ultima analisi anche a se stessi.

La gratuità di cui parla il nostro tema non è dunque estranea alla famiglia e alla scuola: basta farla uscire allo scoperto. Com’è successo per esempio con le letture di Dante fatte da Benigni e da Sermonti, e con gli incontri letterari di Mantova e quelli filosofici di Modena. Anche questa è gratuità. Per questo possiamo lasciare la conclusione del discorso ad un poeta orientale, premio Nobel, che affronta con lo spirito e con la bellezza di un verso, l’odio e i fucili dei terroristi. E la stella disse: "io darò la luce: non so se le tenebre scompariranno". (Tagore)

Nota bibliografica:

A.ARDIGO’ e C.CIPOLLA, La Costituzione e i giovani. Un’eredità da riscoprire, Angeli, Milano 1988;
G.BERTAGNA, Pedagogia e cultura per la scuola di tutti, La Scuola, Brescia 1992;
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