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La difficile integrazione. Riflessioni dopo ’ipotesi caduta delle classi islamiche

di Luciano Corradini

Roma locuta, causa soluta, si diceva una volta. Effettivamente, dopo l’intervento del Ministro Moratti, il 13 luglio scorso, il liceo Agnesi di Milano non potrà dar seguito alla sua delibera di istituire una prima classe di soli studenti islamici, diciassette ragazze e tre ragazzi, prevista come primo intervento volto a secolarizzare alunni che i genitori minacciavano di non iscrivere a scuola. La situazione era piuttosto complicata, perché i genitori dei circa 400 ragazzi di Via Quaranta hanno finora mandato i loro figli in  una illegale scuola coranica in lingua araba, fino alla terza media, evidentemente non fidandosi della scuola italiana.

 

Il preside dell’Agnesi Giovanni Gaglio e lo stesso direttore generale ragionale della Lombardia Mario Dutto hanno spiegato che, con la soluzione temporanea della classe “islamica” di prima liceo, pensata fra l’altro in accordo col CISEM, intendevano trovare una soluzione provvisoria, che comunque consentisse a questi ragazzi la possibilità di fruire del diritto-dovere alla formazione e di inserirsi gradualmente nella scuola e nelle classi comuni.

 

Non si trattava insomma della rinuncia, ma al contrario di un primo passo verso l’integrazione di persone finora estranee al nostro sistema formativo.

Il Ministero non ha accolto queste considerazioni e ha dato voce istituzionale ad una diffusa preoccupazione circa la possibile evoluzione negativa di un esperimento considerato troppo accondiscendente nei riguardi di una minoranza etnica e religiosa di stampo fondamentalista.

 

Molti pensano che l’intervento del Ministro sia stato provvido, perché una classe di soli islamici avrebbe creato un precedente pericoloso, configurando una sorta di diritto all’apartheid. Da Davide Boni, capogruppo leghista di Milano, a don Antonio Mazzi, direttore di Exodus, da Andrea Riccardi presidente della Comunità di S.Egidio a Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega, da Francesco Merlo e Magdi Allam editorialisti del Corriere della Sera a Giuseppe Savagnone di Avvenire, tutti hanno tirato un respiro di sollievo, con argomentazioni diverse, d’accordo però sulla difesa della laicità della scuola di stato, sulla base dei principi costituzionali.

 

Se la vicenda si conclude qui per la cronaca, non si può dire che si concluda anche per la storia, ossia per i tempi lunghi di una problematica sociologica, giuridica e pedagogica che ci avvolge in modo sempre più pressante e che è destinata a proporre, come in passato, anche in futuro una serie di incidenti critici. La situazione contemporanea ci pone infatti di fronte a dilemmi di tipo filosofico, giuridico, politico, pedagogico che non trovano finora soluzioni incontrovertibili, come dimostra anche l’oscillare delle leggi e delle sentenze in diversi paesi e in diversi tribunali.

 

I principi costituzionali infatti (a parte le diverse costellazioni dei diversi combinati disposti con cui si possono leggere) sono come la stella polare, indispensabile per la navigazione (quando non ci sono le nuvole), ma non sufficiente a stabilire come si debba e si possa navigare lungo le coste frastagliate, per di più durante le tempeste. E questo nostro è un tempo di burrasche e di maremoti. Se possiamo abusare un momento della metafora marinara e meteorologica per descrivere la situazione sociale e culturale del nostro tempo, dobbiamo costatare una rapida riduzione della zona temperata intermedia, quella che si stende fra i tropici e i circoli polari, a causa di modifiche climatiche da cui vengono siccità e alluvioni,  che fanno danni terribili intorno a noi. Dal sud sale la desertificazione, dal nord lo scioglimento dei ghiacciai, con conseguenti alluvioni e innalzamento del livello del mare.

 

Qualcosa di simile accade sul piano religioso e civile, sicché l’aria dei diritti umani, della democrazia e delle relazioni interculturali diventa sempre meno ricca di ossigeno, nonostante la grande quantità dei convegni che si dedicano ai problemi della globalizzazione, delle migrazioni, della multiculturalità e dell’interculturalità.

 

In Europa il riferimento a Dio, che  per millenni è stato principio di comprensibilità del mondo, di conferimento di dignità all’uomo, di senso iniziale e finale alla vita e di governabilità della società, sta scomparendo in vasti settori della  vita civile, nonostante alcuni segni di apparente ripresa della presenza visibile dei cattolici.

 

Le chiese si vanno trasformando in musei, la presenza del Crocifisso in luoghi pubblici è sempre più problematica e il cristianesimo non riesce ad ottenere neppure una fugace menzione nel preambolo della Costituzione europea. Per i nostri nonni, cristiano era sinonimo di uomo: e i cristiani si distinguevano chiaramente dagli animali. Oggi il cristiano in taluni ambienti musulmani è visto come il crociato invasore, la parte più ingiusta ed empia dell’umanità. Da noi l’abbandono di un gatto rischia di venir punito da una recente legge più duramente dell’abbandono di un figlio.

 

Mentre nel mondo cristiano la piramide che vedeva in cima Dio, poi la dignità dell’uomo, al centro la patria e alla base le famiglie monogamiche stabili, si va decomponendo, sul piano culturale e sul piano politico e demografico, nel mondo islamico si fanno “in nome di Dio clemente e misericordioso” non solo le leggi, ma anche i delitti più nefandi, che hanno lo scopo salvifico di mandare gli infedeli all’inferno e i fedeli, anche se suicidi-omicidi, in paradiso.

 

Da un lato la ragione e la connessa dottrina universale dei diritti dell’uomo appaiono sospese a mezz’aria, senz’altro fondamento che una opinione largamente diffusa; dall’altro si colloca in Dio stesso il fondamento delle pulsioni distruttive e dell’odio. Mentre il terrorismo mafioso si regge sugli interessi di cosca e quello brigatista su arzigogolate analisi sociologiche, il terrorismo fondamentalista pretende di giustificarsi sulla parola e sulla volontà di Dio. Del resto anche il nazismo aveva assunto il motto Gott mit uns, anche se non pretendeva di ricavarlo da un libro sacro come il Corano, ma dalle farneticazioni del Mein Kampf di Hitler.

 

D’altra parte alcuni studiosi del mondo musulmano vedono nel fondamentalismo violento che affligge parte del loro mondo (e contro gli stessi paesi musulmani ritenuti traditori) anche una reazione  all’aggressiva occidentalizzazione dei paesi arabo-musulmani e alle ingiustizie fatte nei loro confronti; e contestano la legittimazione teologica che anche Bush avrebbe dato alla sua guerra contro l’Iraq, come se si trattasse di una lotta del Bene contro il Male.

 

Nello scorso cinquantennio in Occidente si pensava che il mondo sarebbe stato prospero e pacifico, se non ci fosse stata la minaccia comunista. Dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) e la fine del comunismo nell’Europa dell’Est, parve giunta la grande bonaccia, addirittura la fine della storia, come scrisse Francis Fukuyama. Vinto l’antagonista, la democrazia e il mercato avrebbero assicurato il progresso a raggio mondiale.

 

Le cose non sono andate in questo modo: la distruzione delle torri gemelle di New York l’11 settembre 2001 e le guerre che sono succedute all’attacco del terrorismo islamico, ci hanno ripiombati in una situazione che alcuni storici ritengono di guerra mondiale, e altri, ancora più radicalmente, come Samuel P. Huntington, di scontro di civiltà.

 

I saggi violentemente polemici di Oriana Fallaci costruiscono a tinte fosche questo scenario di lotta mortale fra due civiltà. Da questa lettura ha preso le distanze, fra gli altri, Franco Cardini, chiedendosi se il fanatismo non sia anche di tipo reattivo e se “far vendetta e chiamarla giustizia, far i propri interessi e chiamarla libertà non sia  un mistificare una realtà più complessa” e un dare involontario alimento al terrorismo che si vorrebbe combattere.

 

E’ in riferimento a questa problematica che un uomo informato come Magdi Allam ha parlato sul Corriere(16.7.04) della “Trappola delle scuole islamiche”.

 

“Sono anni, scrive, che la moschea di viale Jenner, la più inquisita d’Italia, sforna giovanissimi integralisti, le cui menti sono state forgiate dalla cultura della segregazione, dell’intolleranza, dello scontro religioso. Questi innocenti ragazzini sono il frutto di una scellerata decisione di genitori che odiano la nostra civiltà. E sognano l’avvento di una nazione islamica purificata dagli «infedeli» occidentali e dagli «apostati» musulmani. (…) La verità è che questi integralisti militanti sono un’aberrazione dottrinale e un danno concreto all’islam così come è inteso dalla stragrande maggioranza dei musulmani che anche in Italia mandano i propri figli nelle scuole pubbliche. Esprimono una realtà minoritaria e marginale che va isolata e neutralizzata perché portatrice di valori che promuovono lo scontro religioso e civile. E’ ora che le autorità italiane intervengano per porre fine alle realtà integraliste che annidano tra noi quasi fossero uno stato islamico in nuce in seno allo stato di diritto italiano. (…)

 
Sarebbe una catastrofe per tutti noi se, seppur in buona fede, si permettesse ai militanti integralisti islamici di imporre la loro legge e i loro valori all’insieme delle comunità musulmane che nella stragrande maggioranza non si riconosce nelle moschee e nei suoi esponenti. Per contro è nell’interesse generale che gli italiani abbiano una forte identità anche sul piano religioso, che in Italia s’imponga con forza la legge uguale per tutti, che si affermi senza tentennamenti la condivisione dei valori comuni. Perché solo uno stato e una società con una forte identità e una radicata certezza nei propri valori, potranno aprirsi e favorire una autentica e piena integrazione dei musulmani”.

 

L’elemento che induce lo studioso a formulare questo giudizio tagliente è l’analisi del mondo da cui proviene la richiesta di classe separata e la previsione di evoluzione infausta di una soluzione accondiscendente. Non è però questa l’unica maniera di considerare il problema. Il Forum europeo tenutosi a Bruges nel novembre 2002, nelle sue Raccomandazioni alla Comunità europea invita gli stati, fra l’altro, “ prestare particolare attenzione al ruolo delle scuole nell’integrazione dei minori con provenienze culturali distinte, compresi i figli degli immigrati che corrono il maggiore rischio di esclusione e la cui capacità di crescita, attraverso il sistema educativo del Paese che li accoglie, potrebbe richiedere azioni speciali”(punto 6 delle Conclusioni).

 

Il termine speciale, utilizzato anche dai promotori della citata esperienza,  richiama il precedente delle classi speciali, che la riflessione pedagogica e l’esperienza amministrativa e didattica hanno superato nel nostro Paese. D’altra parte le diversità su cui si lavorava negli anni ’60 non sono quelle degli anni 2000. E l’autonomia scolastica dovrebbe pure avere qualche spazio nella ricerca delle soluzioni ritenute più praticabili nelle diverse situazioni che si presentano (secondo l’immagine delle coste frastagliate e delle bufere marine, che richiedono la responsabilità del pilota, e non solo della capitaneria di porto e del Ministero della Marina).

 

E’ vero però che nella stessa Milano quella ipotizzata dall’Agnesi non è l’unica soluzione possibile, se altre iniziative sono state assunte e sperimentate con successo da altre scuole, in diverse zone della città. Sarà interessante seguire l’evoluzione della vicenda e conoscere le conseguenze della scelta ministeriale e delle conseguenti decisioni del liceo in questione.

 

Alla luce di questo episodio si possono riconsiderare i problemi della “difficile integrazione” tra persone appartenenti a culture diverse, per certi aspetti antagonistiche..

Il termine utilizzato richiama a chi scrive il titolo di un libro uscito nel 1975. Difficile convivenza  è l’espressione con cui si è identificata la riforma degli organi collegiali, che doveva indicare una tappa significativa del passaggio dalla scuola di stato alla scuola della comunità. La difficoltà stava nella elaborazione della compresenza di diverse componenti scolastiche, portatrici di diversi valori, oltre che nell’armonizzazione dei due modelli di scuola (appunto statale e comunitario) tra i quali la legge aveva fatto una scelta di compromesso. Passata l’epoca gentiliana, che aveva riconosciuto nella scuola la sola legittimità della cultura dominante, emanata dallo Stato, espressione dello Spirito, si trattava di fare i conti non più solo in sede parlamentare, ma anche in sede di singolo istituto scolastico, con le culture presenti sul famoso territorio.

 

Anche allora si parlava di pluralismo e di differenze culturali: anche allora si trattava di cercare mediazioni che rendessero per tutti significativa e possibile la convivenza e la collaborazione nella scuola, sulla base di una comune piattaforma valoriale (la “comunità scolastica” indicata dalla legge come fine comune da perseguire), anche se ciascun rappresentante delle tre famiglie culturali che avevano sostenuto i decreti delegati, la cattolica, la liberaldemocratica e la marxista, era legittimato dalla legge a perseguire un ideale di formazione che andasse oltre la definizione comunemente accettata. Si aggiunga che queste famiglie culturali dovevano poi confrontarsi con la cultura della cosiddetta contestazione globale, che rifiutava l’idea di scuola partecipata voluta dalla legge, e che proclamava addirittura, nelle sue frange estreme, che la scuola non si riforma, si distrugge.

 

Si trattò di esplorare il retroterra di queste culture, i percorsi con cui erano arrivate ad incontrarsi per superare la stagione dei conflitti paralizzanti fra cultura del sistema e cultura dell’antisistema, le possibilità d’intesa, sul piano dei metodi e dei contenuti.

Oggi quel pluralismo è sollecitato ad allargarsi: si pensi al dilatarsi della gamma delle preferenze individuali, sia tra i docenti sia tra gli studenti, sia fra le famiglie. Si va dal modo di vestire alle manifestazioni affettive, all’uso del linguaggio, alle abitudini sessuali, alle opinioni religiose e politiche, all’alimentazione, all’uso del tabacco, delle droghe, alla gestione degli orari, alle giustificazioni per le assenze.

La richiesta di protezione del singolo (leggi sulla privacy) e le sue pretese identitarie sono sicuramente aumentate. Trent’anni fa le alunne portavano in classe un grembiule nero. Oggi si scoprono anche d’inverno. Tutto questo comporta uno sforzo di contrattazione e di convincimento, per stabilire regole ed eccezioni, vincoli e libertà, che rende la vita sociale, in famiglia come a scuola, molto più faticosa e costosa in termini di energie erogate.

 

Non è dunque sostenibile che la problematica del multiculturalismo e dell’intercultura si ponga solo in presenza di immigrati, in particolare di cultura e religione islamica, anche se questo presenza indubbiamente pone, almeno nelle sue forme più radicali, problemi che mettono in difficoltà il nostro modo di pensare e di organizzare la vita e la scuola.

 

I primi problemi sono posti dalla difesa di modi di vestire (il chador per le donne islamiche e il turbante per i sigk, di alimentarsi e di celebrare le feste religiose. Talora si è deciso di sospendere le leggi per coloro che appartengono a comunità religiose determinate, per salvaguardarne l’identità, talora, come in Francia, si è deciso di imporre regole uguali per tutti, sacrificando il rispetto delle identità. Anche nelle nostre scuole ci sono presidi che tollerano l’esenzione dall’educazione fisica delle ragazze islamiche, mentre altri che resistono, provocando talora il ritiro dell’iscrizione da parte dei genitori.

Più grave è il problema della compatibilità della cultura dei diritti umani con la concezione della vita, della donna, dello stato in certe culture ispirate più o meno correttamente al Corano.

E’ noto che in Israele in molte scuole si esaltano i kamikaze come eroi nazionali, a cui è assicurato il paradiso.Concezioni di questo genere non sono conciliabili con la dignità della persona umana come la si intende nelle costituzioni occidentali e nella Convenzione internazionale dei diritti del minore.

Anche in questo caso non si tratta di dichiarare impossibili la convivenza e il dialogo, ma di trovare forme che lo rendano possibile.  L’integrazione è una prospettiva difficile, talvolta ingiusta, se pretende di portare i ragazzi portatori di culture lontane dalla nostra, nei riguardi di valori che paiono loro in antitesi con quello che pensano giusto. Ciò che veramente occorre è che troviamo tutti il modo di integrarci in una umanità possibile, della quale nessuno conosce a priori tutte le chiavi.

“Il futuro del mondo è in pericolo, recita il documento conciliare  Gaudium et Spes, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi”. Secondo il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo questo compito un po’ misterioso appartiene a tutti gli individui e tutti gli organi della società. Non si può presumere d’essere gli unici portatori della verità sull’uomo, ma non si può neppure nascondersi e rinunciare a testimoniare e a battersi per superare ostacoli e chiusure.

 

Torniamo conclusivamente all’episodio da cui siamo partiti, a proposito del tentato e poi abortito tentativo del liceo Agnesi. Sulla base delle riflessioni che abbiamo abbozzato, possiamo dire che il Ministro ha avuto probabilmente ragione a fermare quell’esperimento, anche se una visione più chiara si potrà avere dopo che si siano tentate altre vie. E’ anche possibile che gli insegnanti di quel liceo non avessero tutti i torti: in ogni caso non ci sono motivi per farne dei martiri o dei traditori della patria.

I molti volumi sull’educazione interculturale qualcosa ci possono insegnare circa la prudenza necessaria per affrontare problemi che, per la loro complessità, appaiono talvolta insolubili, ma che non per questo devono essere rimossi dalla coscienza civica e professionale.

 

Nota bibliografica

 

 

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Quale Europa per i giovani? Pace, giustizia, tolleranza, solidarietà, diritti e doveri, responsabilità per un’identità europea Quale Europa per i giovani? Pace, giustizia, tolleranza, solidarietà, diritti e doveri, responsabilità per un’identità europea

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