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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

La questione curricolare, oggi

Si può formulare, per cominciare, così: che cosa insegnare?  Una domanda per una risposta che non può essere né semplice né facile. Cominciamo col chiarire perché.

Iniziamo dalla spiegazione più semplice e immediata: la quantità. I contenuti che si possono candidare per la scolarizzazione  sono, oggi, sempre più numerosi da risultare incontenibili. La soluzione è imposta dai fatti, bisogna selezionare, portando il  problema della quantità ad un salto di livello, facendolo diventare un problema di qualità: quali contenuti scegliere? I criteri, manco a dirlo, abbondano: così insorge un altro problema ancora, quello del formato: come organizzare i contenuti? Finora –da noi come negli altri Paesi, buoni ultimi Inghilterra e Galles- i contenitori sono stati le discipline, le quali –discutibili come tutti i criteri di ordinamento- da tempo hanno denunciato il limite intrinseco di settorializzare inopportunamente il sapere in comparti fini a se stessi. La teoria curricolare dominante negli anni ’70 –la ‘Pedagogia per Obiettivi’- ha cercato di sopperire proponendo di coordinare i contenuti disciplinari rispetto –appunto- agli Obiettivi,  adottati come punti di convergenza per contenuti disciplinari diversi. Ma gli stessi Obiettivi –per le ragioni di rigore e di controllo che ponevano- più che unificare inducevano, essi stessi, a scindere i contenuti con le note procedure di operazionalizzazione. Oggi, la teoria curricolare emergente –che potremmo definire, dalla sua parola-chiave,   ‘Pedagogia delle Competenze’- si propone come dispositivo aggregante: ma già cominciano a diffondersi ‘liste di competenze’ che, quando non si ‘confondono’ con le abilità (skills) dell’approccio ‘per obiettivi’, per specificarsi ricorrono ancora alle discipline… D’altra parte, se le discipline continuano ad esercitare il loro richiamo, i motivi ci sono e –ai fini dell’educazione scolastica- non sono banali: e tuttavia, sono le stesse discipline che non corrispondono più ai loro contenuti ‘canonici’ –quelli tradizionalmente catalogati nelle ‘materie’ scolastiche- perché le nuove epistemologie hanno rimosso le fondazioni precedenti e continuano a ridefinire la conformazione stessa dei saperi scientifici. L’incertezza del parametro disciplinare come regola ordinatrice dei curricoli scolastici deve fare i conti con un altro ‘spiazzamento’: la nuova ricerca didattica rivendica la specificità della scuola con compiti suoi propri fra soggetti –principalmente insegnanti ed alunni- impegnati in processi di socializzazione culturale peculiari, non riconducibili –appunto- a quelli della ricerca scientifica, ben diversi perché finalizzati ad altri scopi rispetto a quelli della formazione. E pertanto, quand’anche le denominazioni delle ‘discipline scolastiche’ riproducessero quelle ‘disciplinari scientifiche’, si tratta solo di etichette, perché i significati sarebbero profondamente differenti.

 

    La denuncia  è continua, dalle elementari alle superiori: ci sono troppi contenuti da insegnare, in ogni materia, e troppe materie, separate fra di loro. Ora anche i programmi ufficiali, che nell’ultima versione (bozza del 24 luglio 2002)  prendono il nome di ‘Piani di Studio Personalizzati’, comprendono –nella rubrica delle ‘educazioni’, in aggiunta alle precedenti- altre cinque: ‘stradale’, ‘ambientale’, alla salute’, ‘alimentare’, ‘all’affettività’; né mancano le pressioni delle 'agenzie' del territorio, che suggeriscono alle scuole pacchetti già confezionati per complementi di curricolo, dai viaggi d'istruzione fino alle tecnologie informatiche. Ma anche gli alunni portano a scuola l'ambiente esterno, il loro, i video-giochi e le arti marziali, gli eroi dello sport e i divi della musica, un 'rumore' di fondo che non si può soffocare, emerge continuamente. Una confusione, un'irritazione sorda, quella di non riuscire a venire a capo di una 'selva oscura e forte'. L'impressione è di rincorrere l'effimero, il dubbio di smarrirsi in particolari che fanno perdere il senso complessivo del lavoro; e di sprecare il poco tempo che c'è...

 

    Un altro problema si staglia in tutta evidenza: le nuove tecnologie –soprattutto quelle elettroniche, informatiche e virtuali- sospinte, oltre che dalla intrinseca invasività, dall’industria che le produce e da chi, in buona o cattiva fede, se ne fa tramite (ministero compreso). Lasciamo da parte la querelle che da sempre accompagna le tecnologie –non solo quelle attuali, per quanto massicciamente intrusive più di altre mai- perché ben nota in virtù dei buoni uffici di ‘profeti positivi’ e di ‘grandi fratelli’; e concentriamoci sulla questione curricolare: dobbiamo usarle come ausili occasionali, quando vogliamo mettere in ‘bella copia’ i prodotti degli alunni per mostrarli in ‘multimediale’ a qualche assemblea e alle feste della scuola? Oppure dobbiamo fare dell’informatica una ‘attività’ a se stante, magari una vera e propria distinta ‘materia’, fino a scorporarla dalla matematica? O infine dare forma a tutto l’insegnamento, predisponendo l’aula come un ambiente dove realizzare esperienze di apprendimento plasmate su tutto quello che –in fatto di processi, informazioni e prodotti- i nuovi Media consentano di attivare: un set di ‘On-Line-Education’, con l’assistenza discreta di insegnanti collocati in cabina di regia? Chi si ritrae da queste prospettive –magari in nome della ‘scuola del libro’- è invitato innanzitutto a ricordare che tra scuola e tecnologie culturali si è sempre dato un legame molto stretto –tra i quali, a suo tempo, rivoluzionari, proprio l’alfabeto e la stampa, riassunti nel libro-; quindi a far conto che la didattica è –essenzialmente- strutturazione di ambienti circoscritti al riparo dei quali far interagire opportunamente soggetti e strumenti a scopi di apprendimento. Cos’altro sono state le innovazioni più creative della didattica attivista –dal ‘materiale’ della Montessori fino alla ‘tipografia’ di Freinet- se non l’invenzione di strumenti capaci di elaborare processi di sviluppo, sociali ed emotivi, non solo cognitivi? La ‘nuova’ Scuola di Base sarà tale perché – secondo auspici ancora vaghi, ma suggestivi- si tradurrà in un set neo-tecnologico, capace di anticipare pratiche sensoriali e stili di vita, ma anche modi di pensare e di essere –profili antropologici- della società affluente?   

 

    Un terzo problema –meno immaginato e più diretto- tocca il rapporto fra teoria e pratica. Da un lato si tratta di tener conto che –data la crescente tecnologizzazione della vita quotidiana- il sapere significa sempre di più saper fare: usare nuove procedure, manovrare più strumenti e utilizzare materiali più strutturati. Ma c’è qualcosa di più profondo, che cambia le idee che ci siamo fatti sul sapere: una volta le idee –le ‘teorie’- sopravanzavano di gran lunga  il fare –le ‘applicazioni’- che appunto ne derivavano più o meno rapidamente: e di fatto noi ci siamo formati sull’imperativo per il quale ‘prima’ bisognava conoscere e, soltanto ‘dopo’, conseguentemente, operare. Ora non più: il ‘pensiero tecnico’, il come-si fa, ha preso la guida della conoscenza. Lo sviluppo tecnologico è decollato, anticipando sempre più frequentemente la ricerca teorica, fino ad imporle di essere rincorso secondo ritmi inediti e su strade imprevedibili; ma, ancora di più, si sta rivelando un modo ‘alternativo’ di conoscere, alternativo rispetto alla ‘teoria’, perché sistemico, strategico, complesso (in verità la pratica è sempre stata ‘diversa’ rispetto alla teoria, ma una volta si spiegava la differenza come uno ‘scarto’, una insufficienza del fare rispetto alla ‘assolutezza’ della teoria). Questa rivalutazione della pratica –che nelle nostre aule si coglie negli alunni che manifestano  un approccio più diretto, ‘esperienziale’,  che a noi pare ‘meno-riflessivo’- non può non avere conseguenze sulla soluzione del problema dell’insegnamento: non si tratta di bambini ‘più vivaci, distratti e poco motivati’, o non è solo questo e tanto questo, quanto invece un’altra modalità di andare incontro alle cose, solo apparentemente più ‘sprovveduta’. Ma noi sappiamo che è un’altra modalità di conoscere, anch’essa con le sue ‘virtù’: l’immediatezza, l’essenzialità, la concretezza, la coordinazione, la positività, la responsabilità e in genere, nel bene e nel male, il superamento delle distinzioni (dal dire al fare, dal pensiero all’azione, dalla scienza alla morale…) cui eravamo abituati (e rassegnati). Quando –nelle parole del nuovo corso curriculare- si dice ‘Competenze’ si cerca anche di dare risposta a questo problema: si segnala l’importanza di abilitare ad un ‘saper fare’ –consapevole, mirato ed efficiente- capace di orientarsi nell’incertezza, valutare calcolando possibilità e priorità, intervenire con prudenza e lungimiranza.

 

   Un altro problema è di carattere epocale, solitamente designato come globalizzazione, un neologismo che si è affermato subito perché offre l’idea di un mondo che si è insieme unito e dilatato al limite della totalità; ma ha sùbito anche diviso ‘buoni’ da ‘cattivi’, ‘poveri’ da ‘ricchi’, rilanciando in forme rinnovate le ideologie che si dicevano superate. La ‘globalizzazione’ ha una portata –com’è inevitabile- anche curricolare, e contribuisce a riposizionare un tema originario e fondativo per l’istituzione scolastica: quello fra ‘identità’ e ‘universalismo’ della cultura da insegnare (finora affidate principalmente a discipline come la Storia e la Geografia). Oggi non basta più –dopo il nazionalismo- lo spazio europeo, ed anche l’internazionalismo risulta astratto quando irrompono sulla scena gli immigrati dall’Est e dai Sud del mondo, in numeri e tempi che ci trovano largamente impreparati, per regole, istituzioni e soprattutto come mentalità. Le nostre società –lo sappiamo- stanno rapidamente diventando –piaccia o no-  multiculturali di fatto: riusciranno a realizzarsi come società interculturali in grado di promuovere l’integrazione garantendo la vitalità delle differenze? Questo progetto ormai attuale non è di facile né immediata soluzione, per una serie di ragioni che di solito, ‘generosamente’ quanto ingenuamente, si sottovalutano: per quanto necessari, non bastano i ‘buoni sentimenti’ dell’accoglienza, perché alla lunga, le incomprensioni e la concorrenza per la scarsità delle risorse, finiscono col prendere il sopravvento sulle emozioni  positive suscitate dall’emergenza. Così le convinzioni che affermano una ‘natura’ fondamentalmente ‘comune’ a tutti gli uomini devono prendere atto della ‘natura culturale’ dell’uomo, e quindi arrendersi all’evidenza di quanto le idee ‘universaliste’ dell’uomo –quelle occidentali soprattutto, perché più di altre impegnate dalla colonizzazione ieri, oggi dalla globalizzazione- siano, alla prova delle migrazioni, scopertamente etnocentriche; e quindi che la convivenza, più che richiamarsi ad un presunto ‘denominatore comune’, è tenuta a ‘inventare’ regole di convivenza che devono prendere posizione rispetto a effettive incompatibilità, dilemmi morali e controversie storiche il cui superamento è tutt’altro che scontato e facilmente perseguibile. Per quanto concerne la scuola, in particolare, non è accettabile nessuna superficialità: fuori dall’equivoco di una improbabile ‘neutralità’ dell’educazione, è solo il caso di richiamare alla memoria che operiamo all’interno di una istituzione che scaturisce direttamente –pur nel conflitto delle differenti visioni del mondo - dai progetti storici messi a punto dai gruppi egemoni e dai loro occasionali alleati. Comunque, sempre in ordine a finalità di inculturazione non sempre rispettose delle minoranze né dei prestiti e debiti da altre culture: ovvero quanto di più limitativo, se non controindicato, rispetto ad un progetto di apertura interculturale. Se la scuola non è ‘innocente’, mai, nemmeno entro i confini nazionali e neppure rispetto alle ispirazioni europeiste,  è difficile aspettarsi che non ceda –di fatto- alle pratiche assimilazioniste. In quanto tale la scuola potrebbe essere il posto più sospettabile, il meno adatto per un’educazione interculturale quanto più si professa aperta al cosmopolitismo…  

 

     Infine, va considerato il problema della personalizzazione dell’apprendimento. Concorrono in questa direzione molteplici fattori sociali e psicologici. Da un lato la cultura del consumismo, che viene esercitata ormai fin dalla più tenera età, sotto le sollecitazioni del mercato che offre prodotti e servizi su misura delle caratteristiche individuali e dell’autorealizzazione, esplorando spregiudicatamente tutte le dimensioni, anche più riposte, della personalità. Sul fronte delle ricerche sull’apprendimento, si sono venute stemperando le divergenze fra le ‘scuole’ psicologiche intorno al riconoscimento del ruolo del soggetto, sia in senso passivo –come resistenze opposte agli stimoli ambientali, persistenza degli schemi precedenti…- sia in senso attivo –come reazioni alle pressioni esterne, elaborazione di risposte originali, costruzione di ‘teorie’ variamente organizzate. Sempre in ambito psicologico, il soggetto  è venuto rivelandosi internamente composito e articolato di molteplici potenzialità che solo  in ambienti favorevoli riescono a manifestarsi e che si esprimono secondo quelle combinatorie irripetibili che sono gli stili individuali: insomma, ogni soggetto appare diverso, depositario di qualche ‘talento’ pronto a premiare il pigmalione che avrà saputo portarlo alla luce. Infine, nella ‘società centrata sul cliente’ (Customer Society), va messa in conto anche la concorrenza formativa e la ricerca per l’accaparramento dei tempi di apprendimento del bambino da parte delle più diverse agenzie educative: queste competono con la scuola nel campo dei loisirs –danza, musica, nuoto, arti marziali… afferenti alla cultura del corpo (non a caso la più trascurata a scuola)- ma non mancano le offerte più ‘intellettuali’ come la scrittura creativa, la poesia, il teatro, la fotografia ed il cinema e, ovviamente, l’informatica e la multimedialità. La scuola è già stata chiamata a coordinarsi  nell’insieme dei servizi educativi, definendo la sua ‘qualità’ in riferimento all’alunno, differenziando il curricolo -fra attività obbligatorie, opzionali e facoltative- in ordine, come abbiamo visto, a Piani di Studio ‘Personalizzati’ anche nel lessico ministeriale. Segnali di richieste di personalizzazione che s’aspettano di essere soddisfatte in termini di risposte flessibili e adattive perennemente rinnovate e riorientate, da documentare in ‘portfolios’ corrispondenti a traiettorie in soggettiva.

 

   La questione curricolare è chiamata così a cercare risposte a fronte di una realtà che, per i continui e profondi cambiamenti sta trasformando alla base il modo di vivere, senza peraltro offrire orientamenti certi sul modo di essere. La società complessa si  è annunciata con la caduta delle ideologie onnicomprensive e si viene caratterizzando per il pluralismo interculturale, nella mobilità permanente di identificazioni flessibili e provvisorie, nel flusso ondivago e ininterrotto di stimoli e interessi, occasioni e possibilità. I percorsi formativi non si compiono tutti in una volta, prima dell'ingresso nella vita attiva, solo all'interno di un canale a ciò esclusivamente preposto: sono ricorrenti, durano tutta la vita ma ad intermittenza, diffusi senza essere incorporati in altre attività, si offrono 'alla carta'.  Quella che viene a mancare –in sintesi- è la possibilità di affidare ai giovani –sulla base del passato- indicazioni affidabili per quel che riguarda i problemi posti nel futuro, che è già cominciato: la scuola, in definitiva, non sembra poter disporre del capitale conoscitivo necessario per anticipare le soluzioni utili in un mondo che sta mutando imprevedibilmente. Ma in questa emergenza, non viene invitata a dimettere dalle sue funzioni educative, bensì è chiamata ad assumere un compito forse ancora più importante: mettere il giovane in condizioni di costruire in tempo reale –mano a mano la sua condizione si evolverà, scegliendo tra le opportunità accessibili-  la sua prospettiva personale.

 

Curricolo e cultura

 

Come si vede, la fenomenologia dei problemi che si pongono oggi a chi intenda far fronte a decisioni sul cosa insegnare non è ‘solo’ una questione curricolare: quella che abbiamo pur sommariamente abbozzato e schematizzato è ‘anche’ la rappresentazione della temperie culturale generale, una panoramica dei problemi di senso e di orientamento che investono la cultura in quanto tale e la condizione esistenziale di chi partecipa di questo quadro. Perché è di questo che si parla, né di più né di meno, quando si tratta di ‘curricolo’; ancora più specificamente quando ci si occupa della scuola ‘primaria’, perché questa riguarda i ‘fondamentali’ della cultura, quelli da cui si articoleranno tutte le filiere dei gradi scolastici successivi.

 

Non c’è dubbio che porre la questione curricolare, sia quando si vanno ad identificare i termini del problema sia, soprattutto, quando si passa alla ricerca di soluzioni apprezzabili, corrisponda a svolgere un tema impegnativo di antropologia filosofica e di etica sociale. Ma è già più difficile rendersi conto che questa elaborazione –di interpretazione di ciò che siamo e di progettazione di che cosa abbiamo bisogno- risenta, nella scuola, delle medesime difficoltà (almeno) che si incontrano fuori di essa. Difatti, in congiunture come quella attuale, succede regolarmente di rivolgersi alla scuola come alla ‘cittadella’, il presidio dove proteggere i valori in crisi e ripartire alla riconquista della loro legittimazione: cos’altro significano, di fatto, i ricorrenti progetti di ‘educazioni’ che si addizionano ai corsi scolastici, ora addirittura incorporati fra gli ‘obiettivi di apprendimento’ da personalizzare, prescritti come necessari dall’amministrazione? Non solo gli ‘esperti’ che formulano le opzioni curricolari –peraltro convocati in commissioni che, quando sono composte in forme politicamente corrette, concentrano al loro interno il ‘conflitto organizzato’ delle diverse visioni del mondo- ma anche gli insegnanti, che sono tenuti a renderle operative, non possono non condividere lo smarrimento di cui soffriamo tutti. Anzi, gli insegnanti sono particolarmente toccati dal logorio socioculturale perché professionalmente esposti –addirittura in posizione di responsabilità- in quell’autentico laboratorio che è l’aula scolastica, dove gli alunni ‘sperimentano’ le proprie vie, individuali e di gruppo, alle scelte antropologiche, in una ricerca incessante e contraddittoria, tra anticipazioni, conformismi e rifiuti.

 

E’ un’ingenuità, questa di attribuire alla scuola la funzione di ‘camion’ del riorientamento antropologico della cultura, oppure un alibi, rispetto a scelte che non si riescono a gestire presso altre istituzioni –politiche, economiche, religiose? Quale che sia la spiegazione, vanno comunque riportate allo stato di incertezza in cui versiamo. Come alla stessa condizione grigia va ricondotta quella che possiamo chiamare la ‘sindrome dell’ingegnere’ –nel nostro Paese la cronaca può segnalarne due casi, uno interrotto bruscamente (Berlinguer), uno tuttora in corsa, con qualche affanno (Moratti)-  che consiste nel progettare riforme ‘olistiche’ ovvero del sistema scolastico nella sua globalità. Questo approccio all’innovazione scolastica, sempre fallimentare alla prova dei fatti, soprattutto oggi, in assenza di consenso sugli aspetti essenziali della cultura-  per quanto ampio e generoso, non potrà che esprimere uno dei punti di vista in campo, magari interessante, ma limitato e quindi eccessivo se non sconsiderato.       

 

Ancora più lontana, non solo da parte del pubblico ma anche di cultori della materia, è la percezione di un altro legame tra curricolo e cultura: quello che riguarda la natura della conoscenza, ovvero fra teorie epistemologiche e organizzazione dell’insegnamento. I curricoli non rappresentano solo uno dei documenti in cui l’epistemologia consolidata si può ritrovare, ‘applicandosi’, bensì (se non soprattutto) una delle sedi in cui la riflessione epistemologica si può esercitare attivamente, ‘producendosi’. Difatti, l’occasione per interrogarsi sui ‘fondamenti’ e sulla ‘struttura’ propri di un campo di conoscenze, più che nei momenti di scoperta,  è quella dettata da esigenze di organizzazione e di sistemazione: p.e. quando ci si pone il problema di come insegnarla ad aspiranti-apprendisti rappresentandola in modo unificato nel formato di un manuale o alla voce corrispondente ad uso di lettori ‘comuni’ nel contesto di una enciclopedia. Di solito si trascura il legame diretto fra l’azione d’insegnamento e l’epistemologia: che cosa suppone l’insegnante, quando pensa alla sua attività, ovvero quando bada a predisporre esperienze di conoscenza ‘valide’ e ‘pertinenti’? E quando opera in aula, che cosa si può cogliere –in concrezione- nelle mosse mediante le quali realizza le sue strategie? Ma anche quando corregge, tollera, conferma i comportamenti degli alunni, soprattutto quando interviene sul loro ‘metodo di studio’ o comunque sui loro ‘ragionamenti’? Le aule scolastiche sono certamente un ‘laboratorio epistemologico’, dove anche il regolamento –dichiarato o anche solo agito-  immanente all’organizzazione delle attività didattiche, le strumentazioni più semplici (gesso, lavagna e libro di testo, per intenderci) fino alle tecnologie emergenti (quando sono usate intensivamente –e come- ma anche quando fanno solo arredo) manifestano una epistemologia (anche più d’una, e non sempre coerentemente) e paradigmi epistemologici riconoscibili. Anche le ‘credenze’ relative all’insegnamento delle proprie materie, o all’apprendimento da parte degli alunni, il successo o le difficoltà che possono incontrare con le diverse discipline o aspetti del programma, rimandano a teorie cognitive più o meno consapevoli ed implicite, a diversa portata, più frequentemente ‘locale’, in dipendenza dall’esperienza d’insegnamento (e di apprendimento). Non necessariamente ‘ingenue’, comunque effettive e non di rado tenaci e resistenti agli sforzi di ‘aggiornamento’.

 

 

Contenuti e concetti

 

L’orientamento epistemologico in didattica ha anche altre radici più remote, per quanto indirette. Mi riferisco a Jean PIAGET, che già negli anni ’20 aveva aperto un filone inedito di ricerche –innovativo anche nel metodo- che trovò la sua prima configurazione nei tre volumi d’introduzione all’Epistemologia Genetica. Nasceva così una originale modalità ‘empirica’ di fare epistemologia, indagando presso i soggetti in età evolutiva –addirittura fin dalle prime settimane di vita- la maturazione delle categorie fondamentali del pensiero, peraltro in corrispondenza con la storia delle scienze (socio-genesi della conoscenza, nel linguaggio del Ginevrino). Il trasferimento in didattica di questi studi non fu immediato, anche se lo stesso Piaget lo incoraggiò, e non mancò di procurare,all’inizio, fraintendimenti e contrasti che fecero rumore (caso Aebli: 6). Tuttavia, è a partire da queste aperture che, lungo un itinerario non certamente lineare –un momento di rottura è documentato dai lavori di alcune ricercatrici degli anni ’70, documentato dalla prima appendice di questo volume- si è venuta costituendo una linea della ricerca didattica, in chiave epistemologica,  all’interno della quale si colloca l’insegnamento ‘per concetti’.

   Oggi, a scuola, 'concetto' è un termine ricorrente, che dice molte cose, tutte riferite ad un disagio professionale profondo:  l'attesa di una didattica semplice e rigorosa. E quando si cercano i 'concetti trasversali', si esprime un bisogno ulteriore, quello di insegnare 'i fondamentali', di mostrare i saperi 'dalla parte delle radici' che hanno in comune: un curricolo scolastico epistemologicamente disciplinato.   E' su questo sfondo che si eleva la domanda di 'concetti', né è un caso che si formuli come 'mappe concettuali': per orientarsi nel labirinto curricolare. E certamente i 'concetti' possono assolvere questa funzione: non da oggi, ma da sempre. Se vogliamo andare all'inizio, già Adamo -per esprimere la conoscenza ed il controllo del lussureggiante (e quindi disorientante) giardino originario- prese ad assegnare a tutte le cose un 'nome': una 'etichetta sonora' che ci consente di possedere le cose sotto forma di rappresentazione mentale e di rievocarle anche in loro assenza. Se al mito delle origini preferiamo una chiave propriamente storico-epistemologica, il riferimento non può che essere Socrate: il suo ironico e paziente interrogatorio non aveva altro scopo se non quello di cercare l'unità e l'intesa nella soggettivizzazione delle opinioni fatte implodere dai suoi amici sofisti, in un’epoca con varie analogie con la nostra. Nel concetto, l'uomo scopertosi 'misura di tutte le cose' e subito smarritosi nella babele del relativismo,  poteva trovare, secondo il Maestro della filosofia occidentale, lo strumento della comunicazione universale. Per Socrate (ovvero per Platone che gli dà voce) la via che porta al concetto  è il processo di definizione: la ricerca del 'genere prossimo', ovvero la categoria nella quale l'oggetto referente si può collocare -preferendo la più vicina per convenienza- e della 'differenza specifica', ovvero l'attributo che consente di distinguerlo rispetto agli altri oggetti della medesima categoria.   

   Il 'concetto di concetto' segna l'inizio -per la cultura occidentale- della riflessione epistemologica. Da allora la domanda 'cosa succede quando l'uomo conosce' ha trovato, in occidente,  risposte diverse e finanche opposte, ma ha sempre ruotato intorno ai 'concetti': ovvero intorno alla questione della base della conoscenza e della sua –attesa ma non scontata- corrispondenza alla realtà. Con la differenza che, a lungo e fino a non molto tempo fa, la domanda era posta dai filosofi, mentre oggi -sulla spinta di Piaget- il campo d'indagine è più variegato: lo frequentano assiduamente storici delle scienze, biologi, neurologi, psicologi e, ovviamente, didatti.

La domanda di unità espressa oggi dagli insegnanti è un appello a tutto il campo di ricerca sulla concettualizzazione, nessuno escluso. In generale, i concetti possono essere studiati per il loro contenuto (gli aspetti del reale che vengono rappresentati), i processi (le operazioni che si compiono nell' elaborare quegli aspetti), e il formato (il codice mediante il quale li rappresentiamo).  L’indagine  psicologica in senso stretto (o 'classico')  si dispone sugli ultimi due  versanti:  si occupa dei concetti per il loro formato e per i processi, non per il loro contenuto (se non di riflesso, per far cogliere i processi della loro costruzione). L'insegnamento, invece,  ha bisogno dei concetti anche per i loro contenuti, è di essi che si alimenta, necessariamente: ma questi sono gli aspetti che a scuola fanno la differenziazione e la specializzazione, mentre quello che unifica la molteplicità dei contenuti disciplinari è proprio il processo di codificazione, che consente di dare loro un formato. In questo senso si può dire che la psicologia prende il posto della filosofia, per quella branca che una volta si usava denominare 'gnoseologia': lo studio della conoscenza.

   L'unificazione del curricolo scolastico non dipende solo da questo, ma da ben altro (innanzitutto dalle finalità educative e dai processi d'insegnamento, ma anche, indirettamente, dalle regole costitutive della scuola, quelle che codificano  gli spazi, i tempi, le relazioni dell'istituzione educativa, nei loro aspetti materiali e nella loro portata simbolica e finanche inconscia). Ma quando si eleva la domanda di unità  e  si pensa ai concetti, è solo sul loro 'formato' che fino a non molto tempo fa si portava l'attenzione: ovvero sui processi di concettualizzazione, ovvero sugli aspetti per i quali -pur a contenuti informativi diversi- corrispondono processi di elaborazione e rappresentazione sostanzialmente omologhi. Questi possono variare certamente, ma soltanto in relazione all'età (criterio psicologico per eccellenza) oppure in relazione alla competenza (la differenza che corre fra un 'novizio' ed un 'esperto'): ma non in relazione al contenuto, più o meno complesso e soprattutto disciplinarmente specifico, in riferimento ai diversi saperi.

     Un contenuto, se non ha un formato, non può essere nemmeno considerato un 'concetto', sarebbe solo 'informazione-senza-organizzazione', come si diceva una volta,  rudis indigestaque moles. E' l'organizzazione che assicura ai contenuti informativi la loro coesione interna, ma anche la loro correlazione esterna rispetto ad altri concetti, articolandoli strategicamente in mappe a tensione unitaria. Di fatto, si tratta di due facce della stessa medaglia -il formato non si dà senza contenuto, e viceversa- ma la psicologia se ne occupa (occupava) dal punto di vista che  mostra all'opera il lavoro di organizzazione: quello che -se ha successo- può consentire di semplificare il materiale informativo, ordinandolo secondo criteri di volta in volta diversi e funzionali allo scopo; di 'metterlo in rete' in modo da riuscire a richiamare l'informazione contenuta nel momento in cui possa occorrere; di cogliere regolarità ed altri tipi di relazione fra gli eventi; di risolvere problemi; e finanche di assicurare un senso unitario all'esistenza. In sintesi: conoscere e pensare come integrazione  di sè nel mondo. Di questa multiforme e capitale attività, i concetti sono le unità operative elementari, adottano i contenuti più diversi, su scale diverse di estensione e di complessità, ma si misurano con gli oggetti dell'esperienza con la medesima funzione di unificazione. E se le categorie e le strategie elaborate prendono un formato ad alto grado di copertura, a tendenza universalistica -si pensi alle teorie filosofiche o alle 'leggi' scientifiche'- all'opera sono comunque i medesimi processi di concettualizzazione: sia nelle fasi di 'scoperta' che nelle  fasi di 'sistemazione', la produzione di conoscenze si compie, quando riesce, mediante i concetti. Anche quando per le dimensioni totalizzanti e per la condensazione sconcertante di fenomeni fino a quel momento considerati lontani se non opposti ci collochiamo agli estremi rarefatti delle risorse intellettuali. E' più difficile riconoscerli, ma anche il laboratorio più sofisticato produce concetti ed agisce processi di concettualizzazione.       

       Si comprende, così, la domanda oggi emergente dalla scuola, di un insegnamento 'per concetti':  in un ambiente sovraccarico e frastornante di frammenti agglomerati, un approccio mirato sui processi di unificazione del sapere, per restituire alla scuola il compito di orientamento. Abbiamo già detto che l'aspettativa è eccedente, segno di un disagio professionale profondo e incontestabile, perchè serve ben altro per 'riscolarizzare' la produzione culturale odierna: ma non è mal riposta, se è vero che i concetti esercitano una funzione di architettura istituente delle conoscenze.

 

Adattamento da Elio Damiano, “Insegnare i concetti. Un approccio epistemologico alla ricerca didattica, in via di pubblicazione presso Armando, Roma


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