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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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UNA RIFLESSIONE PEDAGOGICA 
di Luciano Corradini


La riflessione pedagogica, com'è noto, cerca di comprendere e d'ispirare l'esperienza educativa. Mentre si studia storia, letteratura e scienze per diventare colti, la pedagogia la si studia per diventare capaci d'intendere criticamente e di fare o di aiutare a fare l'educazione. Si tratta di un sapere pratico, che gravita per natura sua verso l'azione: un'azione da impostare, da condurre al meglio e da valutare: un'azione che dev'essere in realtà interazione fra chi educa e chi viene educato. Di fatto il sapere pedagogico s'indirizza soprattutto all'educatore (che può anche essere lo stesso pedagogista), per aiutarlo a capire e a vivere al meglio la sua funzione, il suo ruolo, il suo compito, nei contesti culturali, relazionali e istituzionali sempre diversi in cui deve risolvere i suoi problemi vitali e  professionali. Si tratta di capire le categorie fondamentali e le situazioni reali, e di proporre linee di azione il più possibile argomentate e ragionevoli.
L'incertezza e l'instabilità, che non sono inconvenienti della sola pedagogia, in questa sofferta postmodernità, richiedono costanti messe a punto dell'oggetto, del metodo, dei rapporti interdisciplinari e intradisciplinari, alla ricerca di un equilibrio sempre più valido fra ragioni legittimanti, pregnanza culturale  ed efficacia pragmatica..

Ciascuno di noi è variamente sollecitato, in diversi momenti della sua vita professionale, da due istanze complementari, talora in conflitto fra loro: intendo riferirmi all'istanza giustificativa e all'istanza esecutiva, indisgiungibili nel lavoro pedagogico. Quanto dedicarsi all'una o all'altra di esse, dipende certo da scelte personali, ma anche da circostanze contingenti, che ci inducono solitamente a "squilibrarci" in una direzione o nell'altra, in attesa di tempi che consentano di ricuperare l'equilibrio perduto. Il fatto poi che altri, durante la temporanea fase di "squilibramento", continui a lavorare nella direzione complementare alla nostra, non può che far bene alla complessiva salute della disciplina e accelerare il ricupero di ciò che si perde concentrando per un certo tempo l'attenzione su una soltanto delle due facce dell'impegno di ricerca pedagogica.

Si tratta di capire perché fare, che cosa è bene fare, come fare. Un discorso su queste tematiche può essere correttamente pedagogico anche senza essere sufficiente a "coprire" tutte le ragioni e le dimensioni dell'operare educativo. Di qui la consapevolezza del limite del lavoro di ciascun pedagogista, che non solo difficilmente domina tutto il sapere chiamato in causa da un determinato processo educativo, ma non sempre possiede tutte le articolazioni interne allo stesso discorso pedagogico, da quelle di tipo epistemologico a quelle di tipo didattico.

Forse è anche per questo che gli insegnanti sono spesso delusi e risentiti nei riguardi dei pedagogisti, che vedono talora come grilli parlanti, il cui sapere è scarsamente fruibile, addirittura fuorviante o comunque insufficiente a risolvere dubbi della più varia natura. Se poi si considera che i pedagogisti concorrono in qualche modo, magari in combutta con i sindacalisti e con i burocrati, a costruire le norme, sia quelle che trovano poi lenta e faticosa sanzione in parlamento, sia quelle che sono dalla normativa delegate ai governi, si può capire di quale considerazione sia potenzialmente circondato chi si trovi a fare il mio lavoro.

E' vero che ad occuparsi di scuola ci s'imbatte, lo si voglia o no, in problemi pedagogici, che dunque vanno affrontati pedagogicamente; è vero che occorrono motivi per accettare, per adottare e per adattare una norma, o per impegnarsi ad innovare, chiedendo e proponendo nuove norme: è però altrettanto vero che la complessità delle situazioni, la pluralità dei punti di vista e la sfiducia più o meno motivata nei riguardi dei decisori inducono molti a squalificare in partenza le categorie del dover essere e le innovazioni imposte per via istituzionale, salvo però invocare interventi dall'alto, per rimediare al caos che si andrebbe diffondendo, in assenza di indicazioni capaci di metter tutti d'accordo.

La parola caos  è infatti la più utilizzata dai mass media per indicare l'esito di qualunque intervento normativo, insieme alla parola disagio, che è una sorta di basso continuo di ogni sinfonia dedicata alla scuola. Il disagio c'è e va combattuto con qualche provvedimento. Per l'incapacità e/o la malvagità di chi comanda però i provvedimenti falliscono uno dopo l'altro e il disagio aumenta. Così le cronache e così il vissuto di molti, che hanno l'impressione d'esser guidati da ministri ubriachi e irresponsabili, tutti uguali, dalla fine della guerra ad oggi, con una variante: che quello in carica è sempre il peggiore di tutti. In questa situazione complicata e grottesca il CENSIS ha ricordato che per i greci caos  significava non solo disordine e distruzione, ma anche condizione di partenza e apertura creativa al nuovo. Poiché però il nuovo non nasce come Minerva armata dal cervello di Giove, ma arriva a pezzetti, con provvedimenti che appaiono casuali, anche quando sono collocabili entro una prospettiva dignitosa, si teme il nuovo come i troiani temevano i greci, anche quando portavano doni. (L.C., 1996)


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