IL BISOGNO DI AUTOREALIZZAZIONE

LA PIù PROFONDA MOTIVAZIONE AD APPRENDERE ED A FORMARSI

 di Umberto Tenuta

 

Nell’universo vivente prevale il principio della vita: non ci sarebbero gli esseri viventi se la vita non prevalesse sulla morte.

Possiamo, perciò, assumere che in ogni essere vivente agisce una forza d'autorealizzazione che lo porta a fare tutto ciò che contribuisce alla propria sopravvivenza e ad evitare tutto ciò che la minaccia (eros).

Evidentemente, questo vale in linea generale, perché non si esclude che in alcune situazioni possa anche prevalere il principio opposto (tanatos).

Come in tutti i viventi, anche negli esseri umani, sin dalla nascita, prevale il bisogno di sopravvivenza e quindi d'autorealizzazione.

A meno che non intervengano fattori disturbanti, in tutti i bambini è presente il bisogno di autorealizzazione che li porta a fare tutto ciò che possa consentire la loro più alta realizzazione umana, culturale, sociale, professionale.

È in base a questo bisogno che ogni bambino è spinto a svolgere tutte le attività che lo portano ad acquisire le capacità, gli atteggiamenti e le conoscenze che consentano la sua autorealizzazione come essere umano: in tal senso, ogni bambino è spinto a muoversi per sviluppare il suo apparato locomotorio, è spinto a balbettare per sviluppare le sue capacità fonatorie, è spinto a portare gli oggetti alla bocca per imparare a conoscerli ecc.

È ormai universalmente riconosciuto che il bambino nasce, non solo naturalmente curioso, cioè portato a conoscere il mondo, ma anche naturalmente portato a sviluppare le sue capacità, i suoi atteggiamenti, le sue conoscenze. Non solo il bambino piccolo pone domande per sapere, ma è portato a svolgere tutte quelle attività che producono lo sviluppo delle sue capacità, siano esse quelle motorie che quelle comunicative, espressive, linguistiche, cognitive, estetiche ecc.

Oggi si è orientati a riconoscere sempre più che questo bisogno naturale, innato, genetico, può essere notevolmente stimolato, favorito, incrementato dalle interazioni socioculturali, dai contesti di esperienze in cui il bambino vive, apprende, si forma.

Particolarmente significative sono le ricerche che hanno portato a prendere atto di come le deprivazioni socioculturali possano portare fino alla distruzione di questo bisogno di autorealizzazione e di come la povertà di stimolazioni porti ad un limitato sviluppo delle competenze, delle capacità, degli atteggiamenti e delle conoscenze.

È da questa consapevolezza che dovrebbe muovere l’azione educativa e didattica dei docenti, i quali debbono impegnarsi a stimolare, favorire, incrementare il naturale bisogno di autorealizzazione dei giovani.

Da quando entra nella scuola materna, il bambino dovrebbe essere visto e considerato come un soggetto naturalmente portato alla sua autorealizzazione e quindi ad apprendere e a formare le sue capacità ed i suoi atteggiamenti.

A livello di scuola materna, questo bisogno è ancora abbastanza forte, e peraltro la scuola materna è per tradizione caratterizzata da una impostazione didattico-educativa prevalentemente fondata sul gioco, per cui non sembra debbano porsi particolari problemi.

Tuttavia, anche in questa scuola deve essere quanto più possibile presente e chiara la consapevolezza che occorre fare di tutto, non solo per evitare di distruggere il bisogno di autorealizzazione dei bambini, ma anche per stimolarlo, favorirlo, potenziarlo.

Occorre innanzitutto avere l’accortezza di non distruggere quel meraviglioso atteggiamento di curiosità[1] infantile che si manifesta al massimo livello nella cosiddetta età dei perché, la quale età non si vede proprio per quali motivi debba avere termine per la maggior parte dei bambini e protrarsi per tutta la vita solo in pochi individui, i quali soprattutto per il perdurare di questa curiosità assumono le caratteristiche dello scienziato.

A questa curiosità faceva riferimento la Montessori quando parlava di periodi sensitivi.

Forse è il caso di domandarsi come mai questa curiosità venga meno e che cosa si può fare per conservarla.

Evidentemente, il primo impegno dovrebbe consistere nell’evitare di distruggere questa onnivora curiosità del bambino, impedendogli di esprimerla o reprimendola laddove si manifesti.

Se la scuola non può essere il luogo della chiacchiera, certamente non può essere il luogo del silenzio, nel quale ai bambini non è dato porre domande.

Evidentemente, vi sono modi diversi per impedire al bambino di fare domande: il più banale è quello di impedirgli di farle, le domande; tuttavia, il modo più subdolo non è questo, ma consiste nel fargli sentire l’inutilità delle sue domande, non rispondendo ad esse o non prendendole in considerazione.

Forse è il caso di fare una rilettura degli obiettivi che la scuola deve perseguire, tenendo presente che occorre privilegiare, sì, la formazione di capacità, ma anche e innanzitutto la formazione di atteggiamenti.

Evidentemente, ciò comporta una valorizzazione delle indicazioni metodologiche presenti negli orientamenti educativi, soprattutto in ordine al protagonismo dei bambini nel lavoro di gruppo ed individuale.

Se ogni bambino deve essere messo nella condizione di soddisfare i suoi bisogni di crescita umana e culturale, secondo le sue personali esigenze, allora la scuola materna e le scuole successive non possono far ricorso ad un’organizzazione didattico-educativa fondata sul lavoro collettivo e soprattutto sulla lezione espositiva, ma debbono privilegiare un’organizzazione didattico-educativa personalizzata, essenzialmente fondata sul lavoro di gruppo ed individuale, la sola capace di consentire ad ogni bambino di procedere, non solo secondo i suoi ritmi ed i suoi stili di apprendimento, ma anche secondo le sue esigenze formative ed apprenditive, nel rispetto della sua identità personale, sociale e culturale.

Occorre promuovere un’organizzazione educativa e didattica che, non solo non omologhi, ma nemmeno mortifichi le domande che ogni alunno è portato ad esprimere, anzi consenta a ciascuno di esprimerle e di soddisfarle nei tempi e nei modi a lui più congeniali.

Questa esigenza deve essere tenuta presente e soddisfatta, non solo nella scuola materna, ma anche e soprattutto nelle scuole successive, nelle quali si corre più facilmente il rischio di offrire risposte a domande non poste, impegnandosi nello svolgimento di un programma, peraltro molto spesso uguale per tutti gli alunni, che non nasce dai bisogni apprenditivi e formativi dei singoli alunni, ma viene proposto e imposto dall’alto, senza muovere dai loro bisogni concreti.

Ciò non significa che i Programmi (o syllabus degli obiettivi formativi) non abbiano la loro ragione di esistere, ma che il loro ruolo deve essere quello di indicare soltanto gli obiettivi formativi, cioè gli atteggiamenti, le abilità, le capacità, le competenze, le conoscenze che in linea di massima tutti gli alunni dovrebbero perseguire.

Al riguardo, si deve tenere presente che quelle dei Programmi (o del syllabus degli obiettivi formativi) sono indicazioni di massima, le quali però vanno rapportate ai bisogni, alle esigenze, alle possibilità formative e di apprendimento dei singoli alunni.

Vi sono alunni che possono andare oltre i traguardi indicati dai Programmi (o dal syllabus degli obiettivi formativi), altri che non li possono conseguire, ma tutti li possono e li debbono perseguire, non solo nei tempi e nei modi a loro più congeniali, ma anche nel rispetto delle loro identità personali e socioculturali.

Tuttavia, ciò che soprattutto occorre evitare non sono tanto i livelli e le modalità di perseguimento degli obiettivi indicati dai Programmi, quanto il fatto che essi vengano avvertiti, percepiti, sentiti, vissuti dagli alunni come qualcosa di estraneo alla loro autorealizzazione.

Non c’è alcuna ragione perché i traguardi formativi e di apprendimento fissati dai Programmi (o dal syllabus degli obiettivi formativi) debbano essere imposti agli alunni, cioè che gli alunni debbano avvertire come una imposizione incomprensibile le attività didattico-educative volte all’incremento delle loro capacità cognitive, linguistiche, estetiche, sociali ecc.

Appare invece naturale che tutte le attività didattico-educative siano vissute dagli alunni come esperienze che rispondono ai loro profondi bisogni formativi, i quali li portano a ricercare tutto ciò che favorisce la loro affermazione attraverso l’acquisizione di competenze e conoscenze.

La scuola, i Programmi, le attività didattico-educative sono strumenti attraverso i quali si attua la formazione umana e sociale dei giovani e come tali essi debbono essere avvertiti.

E perciò l’attenzione dei docenti va rivolta innanzitutto alla motivazione, che costituisce il primo e fondamentale momento dell’azione educativa e didattica.

A livello biologico, solo in casi eccezionali capita di dare da bere a coloro che non sono assetati, se non altro perché, come dice il Freinet, puoi portare il cavallo alla fonte e fischiare quanto vuoi, ma se il cavallo non vuole bere non beve.

Non si vede il perché le esperienze apprenditive e formative debbano essere imposte e non debbano invece essere offerte come risposta a un profondo bisogno espresso dagli alunni.

La motivazione è il primum di ogni intervento didattico-educativo.

J.J. Rousseau ha ben espresso questo fondamentale principio didattico-educativo. Volendo insegnare a leggere ad Emilio, egli si preoccupa innanzitutto di far nascere in lui questo bisogno. Una volta che in Emilio, con l’espediente degli inviti scritti ai ricevimenti a base di prelibati pasticcini, è maturato il bisogno di imparare a leggere, J.J. Rousseau risponde a chi glielo domanda che un grande pedagogista, quale egli si ritiene di essere, non si occupa dei metodi per insegnare a leggere.

Evidentemente, la risposta del Rousseau va letta nello stile dei paradossi da lui utilizzati, perché, evidentemente, anche i metodi e le tecnologie hanno la loro importanza, ma con l’avvertenza che innanzitutto e al di sopra di tutto viene la motivazione.

A chi volesse obiettare che non sempre i giovani sono motivati, non si può non rispondere che questo è il problema da affrontare in via prioritaria e che non si può eluderlo pensando di poter comunque impegnare i giovani nei processi formativi e apprenditivi senza che essi ne avvertano l’esigenza.

Non si può costringere il cavallo a bere ed il bambino ad imparare a leggere, per diverse ragioni.

A prescindere dalla considerazione che sono soprattutto le motivazioni intrinseche quelle che meglio attivano e favoriscono i processi apprenditivi e formativi, non si può non tenere presente che in una civiltà in rapida trasformazione, qual è quella nella quale viviamo, non si può più pensare di far acquisire le capacità, gli atteggiamenti e le conoscenze che servano per tutta la vita, ma occorre pensare in termini di educazione permanente, per cui il compito della scuola non può ridursi a far apprendere, comunque, determinate capacità e conoscenze, ma deve tendere essenzialmente a far maturare il gusto e la gioia di imparare ( <<scopo essenziale della scuola non è tanto quello di impartire un complesso determinato di nozioni, quanto di comunicare al fanciullo la gioia ed il gusto di imparare e di fare da sé, perché ne conservi l'abito oltre i confini della scuola, per tutta la vita>>).

E la gioia e il gusto di imparare e di fare da non si apprendono se l’apprendimento viene imposto e viene vissuto come una pena. Non si impara ad amare ciò che si odia, se non in situazioni patologiche.

L’amore dello studio non può non nascere dalla gioia dell’apprendere, dalle esperienze gratificanti dell’apprendere.

E, quindi, se occorre muovere dai bisogni apprenditivi e formativi, questi bisogni occorre prioritariamente preoccuparsi di suscitare.

L’impresa non dovrebbe poi risultare tanto disperata, come si vorrebbe far credere, se si considera che tali bisogni sono costitutivi di ogni essere umano e che, come tali, sono presenti in ogni bambino al momento della nascita.

Evidentemente, si tratta di tenere sempre presente questa prospettiva, avendo cura di stimolare, coltivare, favorire, incrementare la naturale propensione dei giovani ad acquisire e ad accrescere le conoscenze, le capacità e gli atteggiamenti che attengono alla formazione delle diverse dimensioni della loro personalità.

Occorre, cioè, che la scuola si impegni a far crescere i giovani sul piano dei loro atteggiamenti, delle loro capacità e delle loro conoscenze motorie, relazionali, emotive, affettive, cognitive, linguistiche ecc.

Le attività scolastiche debbono essere sempre avvertite dai giovani come occasioni attraverso le quali essi accrescono le loro competenze, le loro capacità, le loro conoscenze, affermandosi sempre più nelle loro identità personali, sociali, culturali e professionali.

È possibile che la scuola venga avvertita dai giovani come una palestra della loro formazione umana, culturale, sociale?

Forse è possibile, ma nella misura in cui la scuola abbandona ogni atteggiamento impositivo e si preoccupa di adeguare la propria attività educativa e didattica alle esigenze apprenditive e formative dei giovani, nel rispetto delle loro identità.

Se ogni essere umano aspira alla propria autorealizzazione, ognuno però lo fa secondo prospettive, ritmi, tempi e stili personali.

La scuola deve fare di tutto per suscitare, coltivare, approfondire interessi, motivazioni, atteggiamenti positivi nei confronti delle attività apprenditive e formative.

Al contempo, la scuola non deve far nulla per distruggere la naturale curiosità e la naturale propensione dei giovani ad apprendere ed a formarsi.

In tale prospettiva, è opportuno porre maggiore attenzione all’organizzazione didattico-educativa della scuola.

I problemi organizzativi sono importanti nella misura in cui sono funzionali alla concreta realizzazione dell’azione didattico-educativa.

È all’impostazione metodologico-didattica che occorre rivolgere maggiormente l’attenzione per individuare attraverso quali strategie si possono stimolare, favorire, coltivare le motivazioni ad apprendere e attraverso quali strategie gli alunni possono apprendere e formarsi.

Forse la risposta più adeguata può essere quella di coltivare la naturale propensione dei giovani ad apprendere, a fare, ad operare, per realizzare la loro formazione, la loro umanizzazione, la loro affermazione in termini di acquisizione di atteggiamenti, di capacità e di conoscenze.

Per incamminarsi su questa strada, occorre abbandonare ogni impostazione educativa e didattica impositiva, qual è quella che consiste nell’entrare in aula e mettersi a fare lezione, e occorre invece assumere un atteggiamento rousseauiano, preoccupandosi, oltre che di quello che si vuole insegnare e di come lo si vuole insegnare, soprattutto di suscitare le motivazioni dei singoli alunni, facendo leva innanzitutto sul loro innato, profondo, ineludibile bisogno di autorealizzazione, che li porta ad acquisire le conoscenze, le capacità e gli atteggiamenti che quell’autorealizzazione favoriscono.

Si tratta di far percepire agli alunni la scuola come palestra della loro crescita, della loro formazione, della loro autorealizzazione.

Gli obiettivi formativi della scuola non dovrebbero essere percepiti come obiettivi diversi dal loro naturale bisogno di autorealizzazione che è presente in ogni essere umano e che occorre coltivare attraverso un’organizzazione educativa e didattica fondata sulla gratificazione anziché sulla mortificazione, quale che sia la forma in cui questa si esprime.

La scuola è il luogo in cui si soddisfa l’amore del sapere (filosofia), ma è anche il luogo in cui si coltiva l’amore della vita, aiutando i giovani ad accrescere le loro conoscenze, le loro capacità ed i loro atteggiamenti positivi in ordine alle diverse dimensioni della loro personalità.


[1] In merito, cfr.: HODGKIN R. A., La curiosità innata ¾ nuove prospettive dell’educazione, Armando, Roma, 1978.