SULLA NECESSITA’ DELLA RETE

di Renzo Stio

 

E’ già da qualche anno che va prendendo sempre maggiore vigore in me l’idea che la gestione, la promozione, l’organizzazione, la progettazione di una scuola non si possono più sostenere e svolgere secondo modelli confezionati da un centro promotore per poi essere più o meno adattati all’interno di singole e isolate periferie. Da un lato l’affermazione sul piano ermeneutico di logiche sistemiche, originariamente pensate per i fenomeni biologici e poi applicate a quelli sociali; dall’altro la nascita e la rapidissima affermazione del paradigma della società della comunicazione globale, pervasiva, coinvolgente, digitale - e proprio per questo capace di superare qualsiasi barriera - hanno fatto da sfondo, sostanziandola, a quella che in origine mi sembrava solo una ricorrente sensazione. La bufera di novità che ha investito la scuola italiana dal 1997 ad oggi, ha reso poi ancora più palpabili certe originarie percezioni. Autonomia scolastica, conoscenze fondamentali, riordino dei cicli, contratti di lavoro, istanze di qualità totale sono gli agenti principali di un clima che diventa sempre più opprimente, nonostante le buone intenzioni della ratio che li sostiene. E tuttavia il processo sembra irreversibile. Necessario? Forse sì! A questi ritmi? Forse no!

Oggi, a distanza di qualche anno, le sensazioni sono diventate dati pressoché inopinabili. Gli stessi sviluppi dei presupposti autonomistici contenuti nell’articolo 21 della legge 59 del marzo del 1997, così come si rilevano dalle successive disposizioni ad esso collegate (vedasi il Regolamento dell’autonomia didattica e organizzativa D.P.R. 275 del marzo 1999) e da una serie di norme secondarie (CCNLS 99, sperimentazioni, progetti ministeriali, direttive, ecc.), confermano il sospetto.

Ma una risposta ai problemi della complessità crescente, accompagnata dalla disgregazione di una antica identità culturale e professionale che contraddistingue gli operatori della scuola, occorre pur darla. Accertata l’incapacità soggettiva di riuscire a controllare le variabili di un’evoluzione esasperatamente progressiva, si fa strada una prospettiva che va ben oltre la perizia, il mestiere, il sapere, il saper essere e il saper fare individuali dirigendosi verso le forme più attuali di una nuova dimensione, quella dell’"intelligenza collettiva"(1).

Punto di arrivo, ma certamente non di conclusione, di una riflessione pedagogica iniziata nel 1600 con Comenio attraverso la proposta di una scuola dove l’insegnamento di massa diventava anche strumento di veicolazione e socializzazione reciproca del sapere, l’idea della "comunità pensante" (2) riesce a coniugare istanze apparentemente inconciliabili: l’insufficienza del singolo di fronte alle infinite – e spesso troppo indefinite – grandi questioni del nostro tempo, e la possibilità di ridurle a termini problematici sui quali riuscire a proporre ipotesi di interpretazione e intervento; la necessità di conservare la specificità del pensiero e della conoscenza umana, e la prepotente affermazione di un artificiale tecnologico che avanza con l’impeto di un ciclone.

Nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa, tutto il sapere risiede nell’umanità (3). Questa credo sia la chiave di volta per affrontare la modernità e, nella fattispecie, per approcciare le delicate questioni che nel sistema scuola si vanno quotidianamente profilando con i caratteri incerti dell’abbozzo piuttosto che con i tratti precisi e sicuri della fotografia. Piaccia o no, il modello della cosiddetta "rete" di risorse, conoscenze, competenze è, con buona probabilità, quello che oggi anche nel mondo dell’educazione può offrire maggiori garanzie, per lo meno sul piano metodologico, sul fronte della produzione e diffusione di sapere e cultura. Le difficoltà per l’implementazione delle reti non sono certo indifferenti. Basti pensare alle problematiche aperte da quella sorta di sistema reticolare in nuce che la scuola italiana propose nel 1990, allorquando furono istituzionalizzati l’organizzazione modulare e il gruppo docente nella scuola elementare. Il condividere, il concertare, il cooperare attivano processi relazionali che coinvolgono ambiti che trascendono la dimensione professionale pura e semplice interessando la multiforme sfera del personale. Ciononostante, «se le nostre società si accontentano semplicemente di essere dirette con intelligenza, quasi sicuramente non raggiungeranno i propri obiettivi. Per avere qualche possibilità di vivere meglio, esse devono rendersi intelligenti a livello di massa» (4). Persistere in scelte tendenti all’isolamento e alla chiusura verso le sollecitazioni e le istanze altrove rappresentate può significare precludersi la via alla continua crescita personale e collettiva. Dar credito all’idea di una comunità pensante, alla possibilità di mettere in comune ciò che è patrimonio di ogni persona è l’occasione per uscire dall’impasse e dare un senso a quanto appare ormai sempre più uguale ad una rappresentazione kafkiana dell’esistenza. La strada è tutta da battere. «Pedro, adelante, con juicio!»

 

Note

1 P. Lévy, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano, 1996.
2 P. Lévy, Op. cit.
3 M. Authier, P. Lévy, Les arbres de connaissances, La Découverte, Paris, 1996.
4 P. Lévy, Op. cit., p. 21.



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