OBBLIGO E GIOIA DI IMPARARE

Umberto Tenuta

 

Sembra consolidata la convinzione che la frequenza della scuola costituisca un obbligo ineludibile, un obbligo che non ha bisogno di alcuna motivazione per richiederne l’osservanza.

A tre anni i bambini vanno alla scuola materna per volere dei genitori. I primi giorni, alcuni recalcitrano, resistono, piangono, ma poi si rassegnano: tanto non c’è nulla da fare contro la volontà dei genitori.

Tuttavia, la frequenza della scuola dell’infanzia non crea grossi problemi, perché quasi sempre l’atmosfera che vi regna è gioiosa. La scuola dell’infanzia è la scuola del gioco. Lo ha teorizzato il Froebel; lo hanno confermato i grandi educatori: nella scuola dell’infanzia tutto deve essere presentato come un gioco.

Il che non significa che nella scuola dell’infanzia i bambini non debbano fare esperienze estremamente significative ed apprendere concetti importanti.

Ma tutto deve avvenire, non per obbligo, ma sotto forma di gioco.

In effetti, è così che vengono impostate le attività della scuola dell’infanzia, anche se non sempre si ha la piena consapevolezza che i giochi della scuola dell’infanzia debbono essere finalizzati all’acquisizione dei saperi e soprattutto delle capacità, quali risultano indicati negli Orientamenti educativi, che pongono la scuola dell’infanzia in una linea di naturale continuità con l’attività educativa e didattica della scuola elementare e le riconoscono un ruolo estremamente importante, fondamentale, basilare, in quanto sulle esperienze vissute nella scuola dell’infanzia si fondano i successivi apprendimenti.

Sarebbe estremamente inadeguato continuare a considerare la scuola dell’infanzia come luogo della mera socializzazione, del gioco di intrattenimento, dispersivo ed inconcludente.

La scuola dell’infanzia costituisce il primo, fondamentale, essenziale segmento della scuola per la formazione di base. Ma ciò non significa che le esperienze dei bambini nella scuola dell’infanzia non debbano continuare ad essere fondate sul gioco.

Tuttavia, la situazione cambia radicalmente nel momento in cui i bambini diventano fanciulli e transitano nella scuola elementare, che è scuola dell’obbligo.

La scuola elementare, così come la scuola media, viene considerata come scuola dell’obbligo, non solo della frequenza, ma anche dell’apprendimento.

I fanciulli debbono frequentare la scuola elementare e debbono imparare a leggere, a scrivere, a far di conto; debbono imparare la storia e la geografia, debbono imparare le scienze ecc. ecc.

Se nella scuola dell’infanzia l’insegnante si preoccupava di organizzare i giochi che consentissero di apprendere, invece nella scuola elementare non si pone il problema della motivazione delle attività di apprendimento: sembra scontato che se i fanciulli debbono frequentare la scuola , essi debbono anche imparare.

Imparare è un dovere.

Ma i doveri non sempre vengono accettati e spesso sono vissuti come una condanna: apprendere è un obbligo, è una condanna, è una pena.

Si verificano delle eccezioni: qualche alunno prende gusto ad imparare, non solo perché gli piacciono alcuni apprendimenti, ma anche e soprattutto perché li vive come strumenti della propria crescita, dell’acquisizione di capacità e di conoscenze che aumentano la stima di sé ed il riconoscimento sociale.

Si tratta però di situazioni eccezionali. Comunemente l’impegno dell’apprendere viene richiesto e viene imposto senza motivazioni. Così come è obbligatorio frequentare, è obbligatorio apprendere.

Al riguardo, si possono fare alcune considerazioni.

L’obbligo della frequenza della scuola, almeno della scuola di base, può trovare la sua legittimazione nel diritto dello Stato di assicurare che i suoi cittadini siano formati: è diritto dello Stato assicurare la formazione del cittadino, e quindi dell’uomo.

Tuttavia, forse non si sono considerate abbastanza le assurdità che conseguono dall’obbligo scolastico: lo Stato può obbligare alla frequenza della scuola, ma non può obbligare ad apprendere, non può ottenere che gli alunni apprendano.

Vero è che lo Stato può cercare di assicurare l’adempimento dell’obbligo di apprendere attraverso le costrizioni: ieri si utilizzavano le punizioni corporali, oggi si utilizzano punizioni più sofisticate, come i premi ed i castighi.

Ma rimane il fatto che se l’alunno che non vuole apprendere non apprende. Come afferma il Freinet, si può portare il cavallo alla fonte e fischiare quanto si vuole, ma se il cavallo non vuole bere, non beve (1).

L’apprendere è un processo interiore che nessuno può imporre.

Per generazioni, la scuola è stata vissuta come una condanna, come una pena, come un obbligo, il cui adempimento è però rimasto più o meno formale.

Per evitare le pene, soprattutto le sanzioni sociali, gli alunni hanno sempre cercato di ridurre al minimo il loro impegno di apprendimento, ricorrendo alle strategie più diverse, compresi i bignamini.

Sembra che al fondo di tutta questa vicenda vi sia un equivoco: l’apprendere non può che essere una pena.

L’equivoco è nato da una inadeguata presa di coscienza del significato dell’imparare.

L’imparare è stato visto come acquisizione di conoscenze che andavano a depositarsi nella mente e che non si sapeva a cosa potessero servire: i docenti affermavano che domani le conoscenze sarebbero servite, ma il domani era troppo lontano, vago, incerto, perché gli alunni potessero viverlo come una valida motivazione ad apprendere.

Forse i docenti conoscevano il valore formativo che l’acquisizione delle conoscenze avrebbe potuto avere, ma gli alunni non ne coglievano il significato e perciò non si impegnavano ad apprenderle.

Eppure, fuori della scuola, i giovani continuavano e continuano ad apprendere.

I giovani che nella scuola vengono respinti perché non hanno imparato, fuori della scuola imparano.

<<La mia rabbia>>, diceva un’insegnante di sostegno, <<è che il ragazzo a scuola non apprende e che, peraltro, quel poco che oggi apprende, domani lo ha già dimenticato, inevitabilmente. Ma la mia rabbia è soprattutto il fatto che fuori della scuola il ragazzo apprende e ricorda indelebilmente>>.

Fuori della scuola i ragazzi apprendono e ricordano!

Apprendono e ricordano un patrimonio vastissimo di conoscenze e di capacità. Perché?

Fuori della scuola, i ragazzi apprendono e ricordano ciò che essi avvertono come importante, significativo, utile alla loro crescita, utile per diventare capaci, importanti, autonomi.

I bambini cominciano ad apprendere sin dalla nascita: imparano ad effettuare i movimenti più diversi, a camminare, a saltare, a parlare, a contare ecc.

Ma perché apprendono?

Apprendono a camminare per andare da soli dove vogliono; apprendono a comunicare i propri desideri per ottenere quello che vogliono; apprendono a parlare la lingua come non apprenderanno mai nessun’altra lingua, perché la lingua che apprendono serve per comunicare con le persone che li circondano.

Nessuno ha mai fatto comprendere perché a scuola occorre studiare l’addizione con il riporto, il participio passato, la caduta dell’Impero romano d’Occidente, la lingua francese.

Occorre imparare: quello che si apprende oggi, domani servirà.

Domani!

Il domani è troppo lontano, soprattutto per i giovani, i quali vivono nel presente!

Provate a inviare i giovani in Inghilterra, da soli, per quindici giorni: impareranno più inglese di quanto nella scuola ne avrebbero appreso in tre anni!

Finanche l’educazione fisica è odiata nella scuola, anche se poi i genitori sono costretti a pagare le palestre, le piscine, i campi di pallacanestro!

Fuori della scuola i giovani imparano. Imparano perché tutto quello che imparano li fa crescere, li fa diventare più robusti, più abili, più capaci: li fa crescere, li forma, li autorealizza.

Ogni essere vivente aspira alla propria autorealizzazione, alla propria affermazione, alla vita. Il filo d’erba cresce anche sotto le pietre; il lombrico rigenera lo spezzone del suo corpo; la rondine emigra da un continente all’altro per sopravvivere.

Anche i bambini nascono con la voglia di vivere, di crescere, di autorealizzarsi. E perciò imparano, imparano tutto, imparano spontaneamente, imparano gioiosamente.

Poi vanno a scuola e la scuola trasforma la naturale voglia di imparare in obbligo di imparare; la gioia di imparare diventa la pena di imparare.

È possibile fare diversamente? È possibile fare in modo che l’apprendere a scuola non sia vissuto come un obbligo, come una condanna, come una pena?

Forse sì.

Ma ad una condizione: a condizione che quello che si impara a scuola sia vissuto dai giovani come alimento della propria crescita, come strumento della propria autorealizzazione, come occasione della propria umanizzazione.

La parola alunno deriva da alere (alimentare, quindi crescere): l’alunno è colui che si alimenta per crescere e diventare adulto (alimentato, cresciuto).

Occorre che l’apprendimento scolastico sia vissuto dagli alunni come strumento per soddisfare la propria voglia di crescere, che essi portano innata in sé, perché ogni bambino nasce con la voglia di crescere, con la fame di alimenti che assicurino la sua crescita fisica e psichica.

Il bambino vuole imparare a camminare, vuole imparare a parlare, vuole imparare a risolvere i problemi, vuole imparare a fare da solo, vuole diventare autonomo.

E che cosa è ¾ dovrebbe essere¾ l’educazione se non il processo di conquista dell’autonomia?

<<Maestra>>, diceva la bambina alla Montessori, <<aiutami a fare da sola>>.

Non è necessario motivare gli alunni ad imparare: i giovani nascono naturalmente vogliosi di apprendere (2).

Si tratta, perciò, non di far nascere, ma di non distruggere l’innata curiosità umana, di coltivarla, di alimentarla.

E l’innata curiosità umana la si coltiva, alimentandola, prendendo sempre in considerazione le domande dei giovani, valorizzandole, facendo in modo che la scuola sia sempre il luogo in cui si cercano le risposte alle domande poste dai giovani.

Non v'è insegnamento senza domanda (3).

L’insegnamento deve sempre porsi come risposta ad una domanda.

Ma le domande non debbono essere necessariamente spontanee: possono anche essere suscitate. È l’offerta che crea la domanda, anche in educazione.

Quello che importa è che la domanda vi sia.

Quando si dice che la metodologia didattica più valida è il problem solving, ci si colloca in tale prospettiva, perché il problem solving trae il suo significato, non solo dal fatto che assume valenza formativa, ma anche dal fatto che nasce da una domanda.

Il problema nasce da una domanda.

La scuola deve configurarsi come il luogo delle domande, delle domande degli alunni, dei singoli alunni, e non solo dei docenti.

Sono coloro che apprendono, che debbono apprendere, sono essi che debbono porre le domande.

Perché la barca galleggia? Perché il sole riscalda più d’estate che d’inverno? Perché ora si usa l’articolo gli (lo) ed ora l’articolo i (il)? Perché? Perché?

Perché?

Non solo per sapere, ma anche per accrescere le proprie capacità, per diventare abili nella soluzione dei problemi , per diventare capaci di fare da soli, di imparare da soli, per diventare autonomi, per diventare degli uomini.

Problem solving

E allora la scuola non è il luogo in cui il docente impone l’obbligo di apprendere quello che i programmi prescrivono, ma la scuola è il luogo in cui gli alunni sono motivati ad apprendere ciò che li fa crescere, ciò che fa maturare le loro capacità ed i loro atteggiamenti: ciò che li fa diventare adulti, cresciuti, alimentati alle fonti della cultura.

In tale prospettiva la metodologia più valida è quella del problem solving, non solo perché l’apprendimento nasce dai problemi, dalle domande che ciascun alunno avverte e pone, ma anche perché i problemi vengono risolti dagli alunni, e non dai docenti.

I docenti non danno le risposte: non le debbono dare facendo lezioni; non le debbono suggerire agli alunni impegnati a ricercarle.

I docenti debbono limitarsi ad aiutare gli alunni a cercarle, a scoprirle, a inventarle, a costruirle da soli.

Sono gli alunni che risolvono i problemi , perché in questo impegno essi attivano le loro facoltà mentali e , non solo arrivano alla scoperta dei concetti ¸ma sviluppano le loro capacità, acquisiscono competenze, diventano abili, crescono, diventano autonomi.

Dice un proverbio cinese: se dai un pesce al tuo amico, lo sfami per un giorno, ma se gli insegni a pescare lo sfami per tutta la vita.

Imparare a pescare: saper imparare è una ineguagliabile conquista, è una gioia, è la gioia di poter fare da solo, di essere indipendente, di non avere più bisogno degli altri, di poter andare avanti da solo per le strade del mondo, di essere diventato autonomo, di essere cresciuto: di essere diventato adulto.

La scuola deve insegnare ad apprendere.

E può insegnare ad apprendere, se consente ai giovani di continuare ad apprendere per risolvere problemi: i problemi dei giovani, e non i problemi dei docenti, che problemi non sono per gli alunni.

I problemi nascono dall’innata curiosità umana che i giovani possiedono ancora vivissima.

I problemi nascono dal bisogno di competenza, dal bisogno di diventare competente (<<sono bravo!>>) che è innato in ogni essere umano.

I problemi nascono dal bisogno di crescere, di diventare adulto, di farsi uomo; di imitare e di identificarsi con coloro che uomini sono già.

Bruner ha individuato in questi quattro bisogni fondamentali le motivazioni intrinseche più adeguate a far nascere la volontà di apprendere (4).

LA SCUOLA DELL’AUTONOMIA COME Scuola DELLA GIOIA DI IMPARARE

Altro che scuola dell’obbligo di apprendere!

Non solo fuori, ma anche dentro la scuola, gli alunni possono alimentarsi alle fonti della cultura per crescere, per farsi adulti, per diventare autonomi.

La scuola abilita alla vita, promovendo l’acquisizione delle competenze, delle abilità, delle capacità (matematiche, scientifiche, storiche, linguistiche…).

È questa la nuova scuola, la scuola dell’autonomia, la scuola che ha come scopo l’acquisizione di <<obiettivi formativi e competenze>>.

Anche nella scuola i giovani possono vivere la gioia di crescere, di diventare adulti, di farsi uomini!

Occorre restituire ai giovani la gioia di imparare per crescere, per diventare adulti, per autorealizzarsi che avevano al momento della nascita: anzi occorre non distruggere l’innata gioia di imparare (5).

La scuola non può continuare a configurarsi come luogo dell’obbligo e quindi della pena di imparare.

Il riconoscimento dei diritti dei giovani sarà una realtà quando sarà stato riconosciuto il loro diritto di alimentasi alle fonti della cultura, di educarsi, di formarsi, trasformando la scuola da luogo dell’obbligo di imparare a luogo della gioia di apprendere, di crescere, di autorealizzarsi!

È questa un’impresa estremamente difficile, ma possibile, come hanno dimostrato con le loro esperienze educative i grandi maestri.

Richiede come condizione essenziale che anche i docenti vivano la scuola come luogo della gioia di insegnare, di vivere, di essere.

Di fatto, non a parole!


 

Note

1 FREINET C., I detti di Matteo, La Nuova Italia, Firenze, 1962, p. 8.

2 HODKIN R.A., La curiosità innata - Nuove prospettive dell'educazione, Armando, Roma, 1978.

3 <<L'istruzione non dà risposte senza domande>> (Relazione Fassino del 1982, Par. XXVI). Scrive il Laeng che <<La domanda, in effetto, costituisce formalmente il discepolo: egli è colui che non sa e vuole sapere, e che pone i suoi interrogativi a chi sa, o almeno sa come si può sapere>> (LAENG M., L'educazione nella civiltà tecnologica, ARMANDO, ROMA, 1970, p. 100).

4 Bruner J. S., Verso una teoria dell’istruzione, Armando, Roma, 1967.

5 HODKIN R.A., op. cit.