Come sarà l'Esame di Stato del Duemila?

di Davide Leccese

 

La tentazione è sempre fortissima: non facciamo a tempo ad abituarci ad un cambiamento - anche radicale - che già rivendichiamo il diritto e la necessità di ulteriori mutamenti. L'Esame di Stato, formula Berlinguer, ha appena un anno di vita e già fioccano le richieste/proposte di aggiustamenti, di curvature, di adeguamenti.

Che si tarino alcuni aspetti procedurali è anche giusto, ma si abbia pazienza: lasciamo che qualche anno di prova ci dia la capacità di verificare l'assieme del sistema, sicuri comunque che non si proceda, questa volta, con una sperimentazione plurideccenale, altrimenti ci arrabbiamo davvero!

Per compiere una riflessione seria, a favore dei docenti e dei candidati, invitiamo a ripercorrere quanto è sintetizzato nel sito dell'Enciclopedia Treccani, proprio a proposito di un convegno organizzato alla fine del marzo 1999, avente ad oggetto gli Esami di Stato (cfr. http://www.treccani.it/site/iniziative/scuola/ESAME.html).

Procediamo per argomenti partendo dal tema principale: "La costruzione dei saperi e la valutazione finale".

La delicata questione del rapporto passato-presente-futuro, trattata dal Presidente Francesco Paolo Casavola, nel sottolineare che non c'è costituzione di futuro senza valutazione sostanziale del passato, pone, a nostro avviso, la scuola di fronte al suo ruolo di cerniera tra i due tempi (passato e futuro). Effettivamente la scuola, vivendo la dimensione transeunte della persona, con un pensiero e delle emozioni vive, sente la drammaticità del suo ruolo e a volte fa fatica a contemperare la richiesta di fissazione scientifica e l'esigenza della flessibilità delle idee e dei sentimenti, coerenti con il tempo che scorre sotto la vita reale.

Molto più accentuata risulta la dialettica, allora, tra formazione ed informazione (tema trattato da Luigi Capogrossi Colognesi): se la scuola non è più l'unica e principale fonte d'informazione delle giovani generazioni, "a fronte di un sistema sempre più complesso e intricato di saperi", il suo ruolo - invece di risultare indebolito - risulta rafforzato sempre perché il sistema formativo si atteggi più verso l'insegnare ad apprendere e a capire e meno verso l'insegnare cose. In buona sostanza diamo mano forte ai metodologi che spingono i docenti verso l'impegno del rendere gli studenti capaci di imparare ad imparare, a selezionare, a discernere nella congerie delle informazioni, fissando l'attenzione sui gesti significativi, sulle idee complesse, sui sentimenti coinvolgenti della persona e dell'umanità.

E quando Matilde Callari Galli ha focalizzato la sua riflessione sulla crisi della scuola, attribuita anche alla scissione tra sistema formativo e sistemi informativi, c'è parso comunque che si chieda alla scuola (e solo alla scuola) di fungere pedagogicamente da catalizzatrice di valori, per l'identità culturale del mondo contemporaneo, mentre la società dell'informazione si tira fuori di un obbligo, altrettanto pressante, sia pur non specifico, di formare alla propria comprensione e fruizione. In buona sostanza, un docente di Storia, come fa a far passare la lettura dei fatti e la comprensione degli avvenimenti utilizzando la logica della "notizia"; esiste un salto teoretico che la scuola deve salvaguardare. Il fatto di oggi è protetto dalla "prudenza" che non vuole verdetti interpretativi definitivi perché mancano di prospettiva. Il fatto della storia - scolasticamente inteso - può e deve attingere ad un quadro di valori interpretativi (didattici e formativi) che svincolano la lettura dal coinvolgimento emozionale del vivere corrente.

Totalmente condivisibile la posizione di Paolo Fabbri che sollecita l'abbandono della preminenza della lingua parlata (e scritta scolasticamente, aggiungiamo noi) sugli altri sistemi della comunicazione. Le ulteriori modalità linguistico-espressive, sconosciute o rarefatte nella scuola, rappresentano il vero cuneo per l'apertura al nuovo e al vissuto giovanile. I giovani parlano per ideogrammi, con sonorità esplicite e la scuola continua con un canale monodico della comunicazione, rendendo sterile e noioso l'insegnamento oltre che fastidioso l'apprendimento.

Le relazioni "ministeriali" dei Direttori Generali Giovanni Trainito e Pasquale Capo hanno evidenziato come anche la cosiddetta burocrazia - contrariamente ai luoghi comuni - creda all'innovazione non solo come modificazione delle leggi ma soprattutto come nuovo atteggiamento verso gli operatori di situazione (docenti e alunni, esaminatori e candidati). Valutare la maturità del candidato oggi significa certificare le competenze, controllare le conoscenze, valorizzare le esperienze autonome (ma seguite) dello studente.

Noi continuiamo a nutrire comunque sospetti su certe geografie pedagogiche: scuola con docente al centro, o alunno al centro, etc. La centralità è da assicurare alla relazione docente-alunno; assieme, nella distinzione dei ruoli, si costruisce un percorso significativo. Al decrescere del ruolo del docente deve corrispondere un crescere il ruolo dell'alunno. Quanto più impara l'alunno tanto meno sovrasta l'azione del docente. Un vero docente dovrebbe vantarsi, al termine di un percorso formativo, del fatto che oramai gli alunni non hanno più bisogno di lui!

Certo, ogni cambiamento - se non vuole essere etichetta e soddisfazione di cerimoniale - non può consolidarsi se non in un clima di Autonomia. Questa è la vera innovazione della scuola e gli Esami di Stato - a nostro parere - nella prima applicazione (un po' per timidezza, un po' per mancanza di coraggio interpretativo) peccano di rigidità burocratica, senza sostanziali slanci verso l'Autonomia. In quest'ottica le Commissioni, invece di verificare secondo premesse aprioristiche, dovrebbe atteggiarsi a saper leggere le conclusioni: come una scuola ha saputo applicare i dettati ministeriali, i percorsi formativi istituzionali, i "programmi" del curricolo secondo le sue strategie, secondo le esigenze di curvatura del territorio, secondo le originali scelte della classe? Gli esaminatori, più che verificare se gli alunni "sanno", dovrebbero saper "spiegare" a conoscenza nei suoi elementi formativi (sapere, saper fare, saper essere, essere consapevoli, sapersi pronunciare, saper decidere delle proprie idee, dei propri sentimenti, avere un progetto della propria vita).

Opportuna, quindi, è risultata la relazione di Alessandro Cavalli sulla funzione della prova d'esame sulla formazione dei giovani. Molti, sentiamo dire, auspicano l'abolizione dell'esame di Stato. Possiamo pure cambiarlo radicalmente, possiamo pure ipotizzare (come da più parti si fa) la perdita del valore legale del titolo di studio, ma una prova finale va nell'ottica del bisogno dei giovani. Non è vero che i giovani non vogliono essere valutati, esaminati. Chi vive, giorno dopo giorno, l'esperienza della situazione didattica sa quanto curiosi siano gli studenti del giudizio del docente. Sosteniamo - a buona ragione formativa - che tale giudizio è parte integrante dell'apprendimento quando non si limita ad enunciare un numero, a declamare errori compiuti, a sottolineare piccinerie di lezioni recitate e non dialogate.



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