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Appunti sulle politiche sociali
 

 

 

Ripartire dai diritti. Diritto all’assistenza e diritto alla salute alla luce della riforma del titolo V della Costituzione

Le imponenti novità derivanti dalla modifica della Costituzione innovano in modo sostanziale anche in riferimento ai settori dell’assistenza sociale e della sanità. L’analisi di alcuni recenti provvedimenti legislativi nella prospettiva della tutela dei soggetti deboli

 

Mauro Perino, Direttore Consorzio Intercomunale Servizi alla Persona (CISAP), Collegno e Grugliasco (TO)

 

 

La riforma costituzionale

 

Con le leggi costituzionali n.1 del 1999 e n.3 del 2001 è stato fortemente innovato il titolo V della parte II della Costituzione. Le nuove disposizioni costituzionali sono tese a dare pieno riconoscimento e valorizzazione agli Enti locali sulla base del principio di sussidiarietà. La posizione dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane muta in modo rilevante e questi enti vengono a collocarsi - in base al nuovo testo dell’articolo 114 della Costituzione - sullo stesso livello costituzionale delle Regioni e dello Stato (con i quali costituiscono, al medesimo titolo, la Repubblica).

Il secondo elemento di grande novità è rappresentato dal nuovo testo dell’art. 117 che parifica la potestà legislativa statale e quella regionale - non più sovraordinate l’una all’altra ma distinte tra loro solamente per i diversi ambiti di competenza - assogettando entrambi i soggetti al rispetto della Costituzione, dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Inoltre, la competenza legislativa esclusiva dello Stato è ora limitata a 17 materie e in quella concorrente, allo Stato spetta - fatta salva la potestà legislativa delle Regioni - la sola determinazione dei principi fondamentali. In buona sostanza sono le Regioni e i legislatori regionali a essere titolari della competenza generale prima assegnata alla legge statale. E’ ben vero - come osserva Francesco Pizzetti[1] - che “alcune materie in cui è stabilita la competenza esclusiva del legislatore statale si configurano come ‘materie trasversali’ e dunque pervasive di ampi settori dell’ordinamento (si pensi ad esempio alla tutela della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale)” ma in ogni caso si può affermare che, nel nuovo sistema, non esiste più la legge come fonte normativa subcostituzionale dotata di un potere unificante nell’ambito delle materie regolate e disciplinate dalla legge stessa.

Il terzo elemento innovativo attiene alla potestà regolamentare che spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva ed alle Regioni in ogni altra materia. Ai Comuni, alle Province ed alle Città metropolitane spetta inoltre l’esercizio del potere regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite secondo i criteri fissati dal nuovo testo dell’articolo 118 secondo il quale “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”. Inoltre i Comuni, le Province e le Città metropolitane - titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale e regionale secondo le rispettive competenze - le esercitano favorendo “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Pur competendo in via esclusiva allo Stato la determinazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane, si può ben dire che gli Enti locali (ed i Comuni in particolare) hanno oggi quella competenza generale (intesa come competenza residuale) all’esercizio delle funzioni amministrative che prima apparteneva allo Stato stesso.

L’impatto sulla legge 328/2000…

 

La riforma del titolo V° della Costituzione lascia alle regioni la possibilità di legiferare in materia di “assistenza sociale” anche approvando norme difformi dalla legge quadro nazionale. Con la legge di riforma costituzionale vengono inoltre definitivamente trasferite al welfare municipale le responsabilità gestionali e finanziarie del welfare di stato, accentuando in tal modo i processi di differenziazione dei livelli di prestazioni fornite sia a livello delle regioni che dei comuni.

In attesa che lo Stato - avvalendosi della competenza legislativa esclusiva - determini livelli essenziali delle prestazioni, da garantire su tutto il territorio nazionale, più definiti e cogenti di quelli genericamente elencati all’articolo 22 della legge 328/2000 è auspicabile che il legislatore regionale svolga i propri compiti nel pieno rispetto del dettato dell’articolo 38 della Costituzione. Alle Regioni si richiede in sostanza di assicurare - nel proprio ambito territoriale - il diritto soggettivo “al mantenimento e all’assistenza sociale” di “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere” ricordando che “un diritto ‘subordinato alle risorse’ è semplicemente un non diritto” ed inoltre che “il diritto soggettivo si differenzia dal semplice interesse o dalla semplice aspettativa per il fatto di essere esigibile, cioè per l’esistenza nell’ordinamento di mezzi che ne garantiscano l’attuazione”[2].

La legge 328/2000 - ponendo il limite delle risorse finanziarie e patrimoniali disponibili alla programmazione ed organizzazione del sistema integrato - non assicurava la piena esigibilità di tale diritto da parte di cittadini individuati dall’articolo 38 della Costituzione ma assumeva il criterio della priorità di accesso per “i soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro, nonché i soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendano necessari interventi assistenziali”[3].

Ai minori privi delle cure familiari, ai disabili intellettivi, agli anziani non i grado di provvedere alle proprie esigenze, alle gestanti e madri in difficoltà ed a tutte le persone che necessitano di prestazioni specifiche per uscire dalla schiavitù dell’emarginazione, non basta assicurare che non verranno esclusi e che non saranno ostacolati da barriere informative, culturali o fisiche nell’accesso ai servizi[4]. La normativa regionale può (e deve, pena un arretramento rispetto a quanto si è realizzato negli ultimi vent’anni in applicazione dell’articolo 23 del D.P.R 616/77) prevedere che a queste persone vengano in ogni caso garantite le prestazioni necessarie. A tal fine è inoltre necessario che si provveda, a livello regionale, alla puntuale quantificazione delle risorse finanziarie, umane e patrimoniali che devono venire obbligatoriamente destinate alla realizzazione di tali servizi da parte degli enti locali titolari delle funzioni sociali.

…e quello sui “LEA - livelli essenziali di assistenza sanitaria”

 

Successivamente all’approvazione della legge 328/2000 ed in attuazione dell’art.3 septies del D.Lgs. 502/192 e s.m.i - è stato emanato il D.P.C.M 14.02.2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie”. Il decreto “Amato-Turco-Veronesi” ridefinisce i confini delle prestazioni socio-sanitarie e introduce nuovi criteri di ripartizione della spesa tra ASL e Comuni. Con il D.P.C.M si “transitano” inoltre le competenze su alcune “categorie” di cittadini dal comparto sanitario a quello socio-sanitario (con conseguente accollo degli oneri di intervento relativi alle attività ritenute non strettamente sanitarie ai Comuni). All’utenza già individuata dalle Regioni in applicazione del precedente atto di indirizzo[5] - rappresentata dall’area materno infantile, dai disabili, dagli anziani cronici non autosufficienti - si aggiungono: le persone non autosufficienti con patologie cronico degenerative; i soggetti dipendenti da alcool e da droga; gli affetti da patologie psichiatriche; gli affetti da H.I.V. Il servizio sanitario mantiene a completo carico solamente le “prestazioni e trattamenti palliativi in regime ambulatoriale domiciliare, semiresidenziale, residenziale” dei pazienti terminali.

Il 22 novembre 2001 la “Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano” esprime parere favorevole allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri - elaborato in accordo con i Ministri della Salute, dell’Economia e delle Finanze (il Ministero del “welfare” non è coinvolto) - sui “livelli essenziali di assistenza sanitaria”. La principale novità del provvedimento - emanato ai sensi dell’articolo 6 del decreto legge 18 settembre 2001 n.347, convertito in legge 16 novembre 2001, n. 405 (G.U, n.268 del 17/11/2001) - è costituita dall’inserimento di alcune prestazioni strettamente sanitarie tra quelle (“assistenziali”) che il decreto “Amato-Turco-Veronesi” assoggetta alla contribuzione, in percentuale, da parte del cittadino e del comune.

Grazie al “combinato disposto” dei due decreti, si accollano direttamente ai cittadini ed in seconda istanza ai comuni le spese per prestazioni sanitarie - fondamentali per la tutela della salute - che vengono, evidentemente, considerate “accessorie” rispetto ai “livelli essenziali di assistenza sanitaria”[6].

La “tutela della salute” è però - in base alla riforma costituzionale - materia di legislazione concorrente: spetta cioè alle Regioni legiferare, salvo il rispetto dei principi fondamentali la cui determinazione è riservata alla legislazione dello Stato. A questo proposito giova ricordare che sono tutt’ora vigenti i principi indicati dall’articolo 1 della legge 23 dicembre 1978, n.833 che così recita “La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. L’attuazione del servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini. Nel servizio sanitario nazionale è assicurato il collegamento ed il coordinamento con le attività e con gli interventi di tutti gli altri organi, centri, istituzioni e servizi, che svolgano nel settore sociale attività comunque incidenti sullo stato di salute degli individui e della collettività. Le associazioni di volontariato possono concorrere ai fini istituzioanli del servizio sanitario nazionale nei modi e nelle forme stabiliti dalla presente legge”.

In buona sostanza, se lo Stato vorrà modificare i principi sui quali si fonda il sistema di tutela della salute dovrà farlo con una legge e non utilizzando dei decreti amministrativi. Se le Regioni vorranno normare la materia dell’integrazione socio - sanitaria dovranno, a loro volta, intervenire con proprie leggi, nel rispetto dei principi fissati dalla legge 833/78 e garantendo la partecipazione dei cittadini. Se poi il potere politico (legislativo ed amministrativo) non vorrà porsi come primo garante del diritto alla salute, al cittadino - ed al Comune che lo rappresenta - non resterà che utilizzare lo strumento giudiziario “non per sostituire la via giudiziaria a quella politica, ma per rimediare alle inerzie e omissioni dell’amministrazione e per richiamarla (ferma la discrezionalità che le compete) ai vincoli che la Costituzione le impone[7]

Sussidiarietà e diritti: il ruolo dei Comuni

 

L’impianto normativo in materia di sanità e di assistenza che è venuto delineandosi negli ultimi anni va a mettere in discussione il principio (già abbondantemente intaccato) “per cui dei servizi statali - primi fra tutti i servizi del welfare - deve fruirsi per ‘diritto’[8]. Si è infatti in gran parte realizzato il passaggio dal welfare di stato al welfare municipale, attraverso il quale è la comunità locale che viene chiamata a “prendersi cura” di se stessa essenzialmente per far fronte alla riduzione delle risorse rese disponibili dal sistema nazionale di sicurezza sociale.

E’ però assolutamente indispensabile che il principio di sussidiarietà - definitivamente introdotto nel nostro sistema costituzionale dal nuovo articolo 118 della Costituzione - non venga inteso come il prevalere “della beneficenza” o del “sociale degli affari” sul “sociale dei diritti” ma, semmai, come “restituzione di competenza” alla comunità locale. Il tema della sussidiarietà - come quelli connessi del federalismo e della governance - non può “essere ridotto semplicemente al tema della prossimità territoriale e nemmeno a quello della semplice suddivisione del potere: si tratta invece di superare la stessa centralità della dimensione del potere, non per un astratto dover essere, ma per una più concreta comprensione del reale. Se si supera la dicotomia società / stato si superano anche le obiezioni rivolte al federalismo da parte di coloro che in esso ravvisano semplicemente uno scontro tra gli interessi dei gruppi: non è di questo federalismo che si tratta, ma di un complesso intreccio di aggregazioni di soggettività, che sono caricate di dignità e anche di responsabilità politica”.[9] Proprio con riferimento alla responsabilità politica delle istituzioni repubblicane va ribadito con forza che:

· il Servizio sanitario deve assicurare “attraverso le risorse finanziarie pubbliche individuate ai sensi del comma 3 e in coerenza con i principi e gli obiettivi indicati dagli articoli 1 e 2 della legge 23 dicembre 1978, n.833, i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse”[10]

· nella leggi con le quali le Regioni normeranno l’integrazione tra servizi sociali e servizi sanitari - auspicabilmente nel rispetto delle titolatità delle competenze - deve essere pienamente applicato il disposto costituzionale che prevede la valorizzazione del ruolo dei Comuni, in particolare con riferimento alla “verifica del raggiungimento dei risultati di salute definiti dal Programma delle attività territoriali” che viene “proposto sulla base delle risorse assegnate e previo parere del Comitato dei sindaci di distretto, dal direttore generale, d’intesa, limitatatamente alle attività socio sanitarie, con il Comitato medesimo e tenuto conto delle priorità stabilite a livello regionale"[11]

La definizione di assetti più funzionali alla gestione delle attività socio-sanitarie - che consentano l’effettivo esercizio di una programmazione partecipata da parte della comunità locale - non può dunque che avvenire attraverso la piena applicazione dell’articolo 3-quater del D.Lgs.502/92 e s.m.i che individua nei Comitato dei sindaci di distretto l’organismo istituzionale più idoneo alla tutela del diritto alla salute a livello locale. Attraverso questo strumento - l’unico al quale la vigente normativa nazionale in materia di sanità assegna un qualche potere, sarà forse possibile, ai Comuni, adottare “sul piano territoriale gli assetti più funzionali alla gestione, alla spesa ed al rapporto con i cittadini per consentirne l’esercizio del diritto soggettivo a beneficiare delle… prestazioni[12].

Ben sapendo che “la logica dei diritti è arrivata qua e là, al capolinea di una avvincente parabola storica, che è condannata a zoppicare perché è costitutivamente in imbarazzo quando deve garantire differenze, che è malata di occidentalità e di occidentalismo, ma che nel suo insieme va superata solo da chi voglia conservarla, rimodularla e potenziarla. Forse va presa per quello che è: non uno slogan per tutte le stagioni, magari nemmeno il telaio di un programma politico onnicomprensivo, ma certo una trincea. Chi la difende non fa la rivoluzione, ma chi la abbandona sceglie di avventurarsi nella notte”.[13]

 

 

 

 



[1] Città di Torino “Nuovo ordinamento amministrativo e principio di sussidiarietà” dispense di Francesco Pizzetti.

[2] Livio Pepino, “La salute: fortuna o diritto?” in Animazione sociale, n.12, dicembre 2001.

[3] Articolo 2, comma 3, della legge 328/2000

[4] Decreto del Presidente della Repubblica 3 maggio 2001 “Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001 – 2003”, parte 1, ”Le radici delle nuove politiche sociali”.

[5] DPCM 8 agosto 1985 “Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome in materia di attività a rilievo sanitario connesse con quelle socio assistenziali ai sensi dell’art. 5 della legge 23  dicembre 1978, n. 833”

[6] Nell’allegato 1.c del decreto vengono computate nella spesa posta a carico degli utenti o dei comuni - secondo le percentuali già indicate dal decreto “Turco-Veronesi” - le prestazioni domiciliari (A.D.I e A.D.P) di aiuto infermieristico; le prestazioni diagnostiche, terapeutiche in regime semi residenziale per disabili gravi; le prestazioni terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità per non autosufficienti in regime semi residenziale; le prestazioni terapeutiche in strutture a bassa intensità assistenziale a favore delle persone con problemi psichiatrici; le prestazioni terapeutiche in regime residenziale per disabili gravi; le prestazioni terapeutiche in regime residenziale per disabili privi del sostegno familiare; le prestazioni terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità per non autosufficienti in regime residenziale; le prestazioni di cura e riabilitazione e trattamenti farmacologici nella fase di lungo assistenza in regime residenziale a favore di persone affette da AIDS.

[7] Livio Pepino, “La salute: fortuna o diritto?”, Animazione sociale, n.12, dicembre 2001.

[8]Luigi Cavallaro, “Un valore d’uso chiamato Lord Keynes”,  il manifesto 9 gennaio 2002.

[9] Giuseppe Duso, “Di fronte alla democrazia”,  il manifesto 19 gennaio 2002.

[10] art. 1, comma 2, D. Lgs. 502/92 e s.m.i.

[11] art. 3-quater, comma 3, lettera c), del D. Lgs. 502/92 e s.m.i

[12]Art. 4 del D.P.C.M. 14.02.2001, “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie”

[13] Bruno Accarino, “Lo status dei diritti sociali”, Il Manifesto 3 settembre 2002.


L'integrazione scolastica in Italia: un'esperienza che viene da lontano

Marisa Pavone, Università di Torino

 

Riportiamo la relazione che l’autrice ha tenuto al Convegno nazionale “Disabilità: dall’integrazione scolastica all’inserimento lavorativo”, promosso dalla FADIS (Federazione associazioni docenti per l’integrazione scolastica) ad Ancona il 9 marzo 2002.

 

 

L'integrazione scolastica degli allievi disabili è un processo che viene da lontano e va lontano. In questo cammino non si accontenta di trovare delle risoluzioni circoscritte, come ad esempio l'applicazione di una particolare tecnica riabilitativa, o di  una specifica tecnica di istruzione quale, ad esempio, la comunicazione facilitata, o i differenti linguaggi e metodi riferiti alle diverse tipologie di deficit. L'integrazione di un allievo in difficoltà non coincide con questi aspetti, anche se sono imprescindibili; non si esaurisce neppure nella elaborazione-realizzazione di un piano educativo individualizzato, per quanto ben costruito questo possa essere. Non si accontenta di un intervento di tipo monodisciplinare, monoistituzionale, monoprofessionale, monotematico.

L'integrazione coinvolge più ambienti e interlocutori. La complessità dei bisogni educativi di un allievo con minorazione - complessità non  riducibile alla categoria del deficit - propone, non impone purtroppo - un dialogo, un confronto, un cammino da percorrere insieme ad altri. E' un’esperienza che viene da lontano nel tempo, una storia  cominciata trent'anni fa, all'inizio degli anni '70 e che strada facendo ha agganciato altre storie.         

         

Lontano nel tempo

 

Una scrittrice di favole  Clarissa Pincola Estess, autrice de Il giardiniere dell'anima dice: "Come matrjoske, le storie stanno l'una dentro l'altra. Una storia è una persona viva e cara, sicché ci pare affatto sensato, così come un amico invita un altro amico a unirsi alla conversazione, che una certa storia ne richiami un'altra, la quale, a sua volta, evoca una terza e di frequente anche una quarta e una quinta e talvolta parecchie altre storie ancora, finché la risposta a un'unica domanda ha la lunghezza di tante storie in fila".

All'inizio degli anni '70 la preoccupazione prevalente era avere assicurazione che l'allievo disabile fosse "istruito" nella scuola comune; di conseguenza, poteva accadere che, in funzione delle difficoltà di accesso all’istruzione da parte del disabile, si potesse commentare: "forse non sta bene nella scuola insieme agli altri". Nel giro di pochi anni, ci si è resi conto che la finalità univoca dell’istruzione delineava una prospettiva asfittica, troppo chiusa, riduttiva. E’ diventato importante, direi necessario, dilatare l’obiettivo dell’integrazione scolastica, superando i confini del concetto di istruzione, tanto da prevedere anche la dimensione della formazione, della educazione, che copre un ambito  più omnicomprensivo, pluridimensionale. A questo proposito, penso agli interventi normativi orientati ad arricchire i curricoli didattici, di progetti educativi individualizzati, di attività integrative, di sostegno.

Un'altra storia importante, ben innestata nella grande storia dell'integrazione, risale alla fine degli anni '80, con la famosa sentenza della Corte Costituzionale, con la quale i giudici hanno aperto di diritto le porte  della scuola secondaria di secondo grado agli allievi disabili, affermando principi  di alto profilo umano. Primo fra tutti, che non è valida sul piano scientifico la concezione di radicale irrecuperabilità: disabile non è sinonimo di incapace; contrariamente a questa enunciazione, ancora oggi capita di leggere diagnosi mediche pesanti come un macigno, che non concedono speranze di evoluzione positiva, anche se riferite a un bambino in tenera età. Ancora, il dispositivo ha sottolineato che l'integrazione scolastica è molto importante ai fini del recupero, della socializzazione, dello sviluppo cognitivo. Inoltre, ha affermato che l’istituzione scolastica, prima  di formulare giudizi sulla presunta irrecuperabilità, ha il dovere di operare per ridurre quegli impedimenti ambientali, organizzativi, personali, che possono inibire lo sviluppo. Infine, la sentenza ha affermato che la frequenza della scuola è funzionale all'inserimento lavorativo e sociale, prefigurando quel percorso di collegamento con l’extrascuola, che oggi chiamiamo “progetto di vita”. Fin qui il processo di inclusione considera che sia l'allievo in difficoltà a doversi integrare nel contesto: è il caso isolato che si deve sintonizzare con l’ambiente classe, presumibilmente omogeneo. Un  salto di qualità, una storia nuova, che alimenta il processo integrativo di rinnovate suggestioni giunge negli anni '90, in virtù di tre aspetti. Primo, la legge quadro sull'handicap,  che pur nella sua complessità, pur fra luci ed ombre, per quel che riguarda l'ambito scolastico è piuttosto chiara.

Quali, fra le indicazioni più pregnanti della legge quadro, è il caso di ricordare? Intanto, che il processo di integrazione richiama la programmazione coordinata di servizi; quindi chiama in causa non solo la scuola, ma altre istituzioni e le invita ad accordarsi, a procedere come una “mente integrata”, secondo un progetto condiviso. Si tratta di un risultato ben difficile da realizzare, ce ne rendiamo conto.

Un'altra indicazione molto interessante, è il richiamo alla continuità educativa e all'orientamento: un processo di orientamento non  di tipo “sincronico finale” - che arriva come un giudizio alla fine della terza media o a conclusione dell'anno scolastico  obbligatorio - ma che, viceversa, deve essere costruito strada facendo; una funzione orientativa  che procede con lo sviluppo scolare stesso, e si attiva molto prima della scuola media. Un ultimo stimolo importante della legge quadro è il riferimento all’importanza della flessibilità nell’uso di strutture, di materiali, di attrezzature.

Seppur fra luci ed ombre, possiamo ritenere che la legge quadro abbia introdotto un differenziale di qualità, cioè un'indicazione a leggere il processo di integrazione come un percorso che si costruisce nel tempo, ponendo al centro dell’attenzione l'esperienza scolastica e sociale dell'allievo in situazione di handicap, ma coinvolgendo più istituzioni.

Negli anni '90 ci sono almeno altri due momenti della storia dell'integrazione da considerare. Uno è  legato all'autonomia scolastica: una grande risorsa in favore degli studenti disabili se assume il valore dell'integrazione in senso strutturale. Ad esempio, se la assume come scelta fondamentale nel piano dell'offerta formativa della scuola, sia a livello di enunciazioni di principio, sia  traducendola in dimensioni curricolari  (quindi nell’insegnamento disciplinare), organizzative (quindi nella gestione degli spazi e dei tempi della scuola), didattiche (quindi nel quotidiano dell'esperienza scolastica d'aula).

Una ulteriore suggestione un po' più sofisticata, più difficile da tenere sotto controllo, viene   dagli studi condotti da esperti di fama internazionale, che invitano a interpretare la particolare condizione dello studente disabile come  appartenente ad una categoria più generale, che compete anche ad altri studenti: quella di essere soggetti con “bisogni educativi particolari”. Non si tratta di una questione nominalistica. La nuova terminologia   suggerisce un atteggiamento più educativo, più propositivo nei confronti dei disabili (sappiamo quanto siano importanti le disposizioni mentali!);  cioè considerare che la situazione di handicap esprime un bisogno educativo particolare, alla stessa stregua di quelli manifestati in classe da altri allievi. Prendiamo ad esempio gli allievi con disturbi di apprendimento: sappiamo bene quali grosse problematiche aprano, quali sfide educative propongano agli insegnanti! Non esiste, nella classe, solo la particolarità dell'allievo handicappato, che comunque va tenuta presente e rispettata; ne esistono altre. E' allora opportuno che gli insegnanti si dispongano a pensare che la loro è una classe eterogenea, che ci sono tanti bisogni: alcuni di questi sono meglio identificabili, richiedono interventi più qualificati. Questo suggerisce dei criteri meno emarginanti, per esempio, nell'assegnazione delle risorse, o nell’approccio alle situazioni individuali. L'integrazione è un processo che viene da lontano nel tempo; ho cercato di indicarne alcune tappe: gli anni '70, gli anni '80, gli anni '90.

         

Lontano nello spazio

         

Viene da lontano anche in senso spaziale e strutturale, perché i circuiti per realizzarla sono trasversali. Di nuovo si evidenzia che l'integrazione non si alimenta di prospettive circoscritte, per esempio circoscritte al rapporto a due - insegnante di sostegno/allievo in situazione di handicap -  "meglio" se in una piccola auletta ben identificata, o in un laboratorio attrezzato. Tale scelta “separatista”, segregazionista,  costituisce un limite all'integrazione che, come abbiamo detto, deve coinvolgere l'intero contesto e i suoi cardini, la globalità della proposta formativa della scuola.

Nel piano dell'offerta formativa scolastica dovremmo trovare  scelte conclamate a favore dell'integrazione degli allievi con bisogni educativi particolari, non solo degli handicappati: è da considerarsi po' sospetta la dichiarazione di principio per cui solo i disabili devono essere integrati. E gli altri? Il processo di integrazione non riguarda solo una categoria di studenti, concerne invece tutti gli aspetti della vita della scuola e tutti gli attori. Viene allora da lontano questa idea di integrazione,  perché si espande, si allarga al tessuto connettivo della scuola.

Alcuni studiosi - tra questi Andrea Canevaro - suggeriscono criteri per l'individuazione della qualità di una integrazione scolastica. Con chi sta l'allievo handicappato? Con chi stanno gli allievi con bisogni educativi particolari? Soltanto con l'insegnante di sostegno? Con quali altri insegnanti? Con l'educatore, con l'assistente? Dove sta l'allievo handicappato? Quali spazi utilizza? Spazi a lui dedicati e solo quelli, oppure gli spazi comuni a tutti? Utilizza i materiali di tutti? E i materiali e le attrezzature sono accessibili a tutti, o sono materiali e attrezzature che selezionano di fatto l'accessibilità per alcune categorie di studenti? Con quali finalità educative e su quali  obiettivi disciplinari è elaborata la progettazione? Obiettivi individuali?

Sappiamo bene che il progetto educativo individualizzato può trasformarsi in uno strumento sofisticato di isolamento dell'allievo, se non si procedere ad un lavoro puntuale di raccordo tra il PEI e la programmazione di classe, a cura degli insegnanti del team. L'integrazione dell'allievo handicappato dovrebbe coinvolgere anche la dimensione delle regole - diritti e doveri - che  organizzano la vita degli attori della scuola. Integrazione che attraversa strutturalmente l’assetto della scuola: non solo coinvolge la dimensione  organizzativa interna, e i rapporti con l'extrascuola, ma anche l’esercizio professionale dei tecnici e degli attori che  interagiscono.

 

Lontano perché interessa più attori

 

E’ un'esperienza che viene da lontano anche perché interessa più attori: gli insegnanti - non solo quello di sostegno o l’educatore  ad personam- ma anche gli insegnanti cosiddetti curricolari.

Da chi viene elaborato il piano educativo individualizzato? Solo dall'insegnante di sostegno? O coinvolge la responsabilità educativa di tutti i docenti di classe? Così dovrebbe essere. Il piano educativo individualizzato viene elaborato solo dagli insegnanti? O coinvolge anche la famiglia dell’allievo? Si chiede la firma ai genitori solo al momento in cui il documento deve essere ttrasmesso agli uffici amministrativi? La sua stesura coinvolge gli specialisti, l’educatore? Coinvolge in qualche misura i compagni di classe? A tale proposito, oggi si parla molto di esperienze che impegnano gli allievi come fonti di insegnamento, in situazioni di apprendimento cooperativo o di tutoring.

L'integrazione è  un'esperienza che viene da lontano perché dovrebbe coinvolgere il punto di vista di tutte queste  professionalità, senza sollevare nessuno di loro dalla "responsabilità" della cura educativa. Spesso avviene il contrario: ad esempio, si sollevano dalla responsabilità educativa gli insegnanti curricolari perché "tanto c'è l'insegnante di sostegno";  si sollevano dalla responsabilità della cura educativa i genitori, perché "tanto ci pensa la scuola". Se qualcuno degli interlocutori viene tenuto ai margini, probabilmente la qualità dell'integrazione ne risente.

L'integrazione viene da lontano e stimola a guardare lontano, perché nel momento in cui ciascuno - insegnante, genitore, specialista, altre figure educative, i compagni - propone il suo  progetto, deve tenere presente che ci sono altri progetti, altri tempi e spazi. Occorre ricordare che l'allievo che frequenta la scuola ha anche esperienze al di fuori dell’ambiente scolastico, con i genitori, gli amici, i terapisti. Si deve tenere presente che la scuola dura per un certo arco di tempo  nella giornata; questo dovrebbe invitare gli insegnanti a superare l’autoreferenzialità, tenendo conto che esistono altri tempi e spazi al di là dell’esperienza scolastica. Il discorso vale anche per gli specialisti della sanità: nel momento in cui  propongono  interventi riabilitativi - e sappiamo che la vita di uno studente disabile dedica molte ore nella riabilitazione - lo specialista dovrebbe tenere conto che c'è anche un tempo della scuola e un tempo della ricreazione; quest’ultimo troppo spesso assente  dall'esperienza esistenziale del disabile.

Concludo ricordando  che l'esperienza di integrazione viene da lontano e va lontano, nel senso che non possiamo mai ritenere che sia giunta al termine, come una conquista finalmente raggiunta. Ci saranno momenti di regressione, di entropia, corsi e ricorsi; ma la ricchezza sta nella disponibilità a  stimolare ulteriori ricerche, considerando ogni traguardo come una tappa che può essere superata da altre tappe. Come giustamente ha sottolineato Adriano Milani Comparetti, fratello di don Milani, la disponibilità che ogni istituzione mette in campo per far posto alla creatività propositiva dell'allievo disabile, si esprime con un aumento della creatività propositiva dell’istituzione stessa. L'integrazione è un'esperienza che dovrebbe far crescere tutti, un'esperienza generativa, complessa, una sfida piuttosto difficile e nello stesso tempo debole: si costruisce nelle esperienze del quotidiano. La legislazione dispone che gli handicappati devono essere integrati nelle classi scolastiche comuni, ma sappiamo bene che i doveri, le idealità fanno i conti con le difficoltà che  incombono giorno dopo giorno. Occorre  perseguire una sempre migliore armonia tra le idealità e le realizzazioni concrete. Secondo me questa è la sfida di ricerca che un'integrazione che vuole andare lontano, oggi propone.

Ho aperto con una metafora, un pensiero di Clarissa Pincola Estess, paragonando l’integrazione a una storia che richiama altre storie. Traggo la metafora conclusiva dall'ambiente musicale, il Bolero di Ravel. Tutti lo conosciamo: è' una bellissima esperienza musicale che prende le mosse in sordina,  con il suono di un flauto; piano piano, senza che quasi ce ne rendiamo conto, strumento si accompagna a strumento, fino a concludere con una celebrazione d'orchestra, in cui tutti gli strumenti musicali suonano in armonia. Mi sembra che l'integrazione scolastica possa convivere bene con questa metafora: nasce nel piccolo e passo dopo passo, anche se non obbligatoriamente, si può espandere fino a comporre una sonata d'orchestra.

 


Una critica ed un ripensamento del concetto di handicap intellettivo

Riziero Zucchi, Comitato per l’integrazione scolastica degli handicappati, Torino

 

Attraversiamo questo mondo una volta sola. Poche tragedie possono essere più vaste della acrobazia della vita, poche ingiustizie più profonde della negazione della possibilità di lottare o perfino di sperare a causa di un limite imposto dal-l’esterno, erroneamente considerato posto all’interno  (S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio)

 

Un vademecum per l’integrazione

 

L’ultimo libro di Mario. Esiste un dovere morale da parte di coloro che rimangono nei confronti di chi scompare. Raccoglierne il testimone, portare avanti le sue idee, terminare quanto ha iniziato. E’ stato quanto ha fatto Marisa Pavone che ha curato l’ultimo libro progettato da Mario Tortello, Individualizzazione e integrazione. Insegnare nella scuola di tutti (La Scuola, Brescia 2002). Sensibilissimo alle situazioni emergenti Mario intuisce la necessità di approfondire e allargare il campo dell’integrazione. In una situazione difficile è necessario non difendere le posizioni quanto giocare d’anticipo, rilanciare. L’attuale panorama dell’integrazione scolastica italiana non è positivo: i tagli di bilancio diminuiscono i sostegni, un assordante silenzio denuncia la mancanza di iniziative, l’assenza di ricerca nel campo della diversabilità. Mario è consapevole che occorre fondare sulla curricolarità dell’integrazione, proporre la normalità del processo. Non esistono tecniche particolari: la presenza dell’handicappato in classe è una risorsa per l’apprendimento e la crescita di tutti. Occorre individuare gli strumenti concreti per realizzare l’integrazione, sottolineare che per l’handicap sensoriale, come per quello intellettivo, esistono impostazioni corrette basate sulla comunicazione, realizzabili da tutti gli insegnanti in qualsiasi ambito disciplinare.

 

La cultura del compito e della materia. Negli ultimi tempi della sua vita Mario Tortello, assieme a Marisa Pavone ed a Piero Rollero, approfondisce il tema del valore dell’apprendimento in classe per i diversabili, secondo le indicazioni della Legge quadro n°104, art. 12 comma 3: “L’esercizio del diritto all’educazione ed all’istruzione non può esser impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap”. Le indicazioni della Cultura del compito o della materia sottolineano gli assoluti benefici della partecipazione degli handicappati allo svolgimento normale dei programmi ed alle prove di tutti, purché organizzata secondo le esigenze degli allievi. Il pensiero pedagogico di Mario  connette la metodologia dell’integrazione  scolastica alle indicazioni di Bruner rivolte a tutti gli studenti: “Si può insegnare qualsiasi cosa a qualsiasi persona a qualsiasi età, purchè venga fatto in modo adatto[1]”. 

Di qui l’offerta di un manuale, un vademecum per l’integrazione, dedicato a tutti gli insegnanti in cui si sottolinea l’esigenza di collegare il PEI alla programmazione adattandola alle esigenze specifiche dei vari handicap, in particolare l’ambito della cecità, della sordità e dell’handicap intellettivo.

Marisa Pavone presenta un quadro di riferimento all’interno del quale organizzare l’integrazione secondo le indicazioni della L 104/92. Innanzitutto proporre la classe come comunità di apprendimento in cui la collaborazione tra gli insegnanti sia modello per la cooperazione tra gli allievi, con una precisa attenzione alla cultura dell’accoglienza. Ciò permette di adattare la situazione di apprendimento a tutte le esigenze, sfruttando le competenze della comunità classe di creare un’ambiente in cui l’allievo in situazione di handicap trovi una collocazione attiva. L’autrice identifica nel concetto di cura uno degli strumenti essenziali per favorire i rapporti di crescita tra allievi e tra questi e l’insegnante. Ciò permette di inserire i processi di apprendimenti in un ambito cooperativo che proietta verso il progetto di vita le dinamiche della classe. Cardine dell’integrazione diventa l’attività didattica curricolare che stimola le componenti affettive, identificando nell’unità dell’intervento educativo l’unicità della persona. Partecipare per apprendere, uno degli ultimi slogan coniati da Mario Tortello, diventa la chiave di volta di un’integrazione tesa a sviluppare le competenze intellettive di tutti. Nel libro si sviluppano tre capitoli riguardanti rispettivamente, l’alunno cieco, quello sordo e chi ha ricevuto una diagnosi di handicap intellettivo. L’articolazione dei tre contributi segue lo stesso schema e propone il concetto di unità della persona, sviluppando le indicazioni di Vygotskij: “Le leggi che dominano lo sviluppo tanto del bambino normale che di quello anormale sono fondamentalmente le stesse[2]”. Ogni contributo è articolato secondo un’impostazione generale sui postulati di base fondati su esperienze concrete e libri che vengono definiti suggestivi, carichi di riferimenti e di suggerimenti precisi. Naturalmente vengono poste in luce le  soluzioni per le condizioni particolari, soprattutto comunicative, che permettono un corretto inserimento, tenendo conto delle risorse esistenti. E’ da queste che occorre partire “interrogando l’esperienza”, fondando  le proposte didattiche e l’impostazione metodologica anche su quelle che Mario chiama le risorse della storia: l’esperienza dei grandi pedagogisti, da Montessori a Freinet, a Freire.

 

Il concetto di handicap intellettivo. I contributi sull’alunno cieco, sordo e con diagnosi intellettiva sono simmetrici, con la stessa impostazione e gli stessi titoli, eppure c’è una differenza: dopo i Libri suggestivi ed i Postulati di base, vi è La condizione di cecità  e La condizione di sordità, ma non vi è La condizione di handicap intellettivo. Non poteva esserci, è sostituita dal paragrafo Per una revisione del concetto di handicap intellettivo. Il progresso scientifico e soprattutto l’esperienza concreta dell’integrazione non permettono più di parlare di Condizione per quanto riguarda l‘handicap intellettivo. Da tempo si stanno scoprendo gli errori scientifici che hanno permesso orrori storici, come il Quoziente di intelligenza, in base al quale migliaia di persone sono state sterilizzate, a partire dall’America degli anni 20. L’accettazione della diversità ha permesso di valorizzare il pensiero divergente, già individuato come potenziale creativo da Edward De Bono,  o il concetto bruneriano di “mano sinistra”.

 

Il dibattito internazionale. Applicare nella pratica scolastica la Revisione del concetto di handicap intellettivo significa realizzare le indicazioni nate durante il dibattito internazionale sull’argomento. Vuol dire dare contenuto alle conclusioni inglesi, sottolineate da Gary Thomas, curatore per la Open University Press della collana Inclusive Integration ed autore del saggio: Deconstructing Special Education and Constructing Inclusion[3]. Seguire le indicazioni del manuale The Handbook of Education and Human Development, curato da David Olson e Nancy Torrance, dove si pone l’accento sulla revisione del concetto di handicap mentale[4]. In Francia le ricerche della scuola di Charles Gardou a Lione[5], di Nicole Diederich sociologa a Parigi[6] e di Jacqueline Gateux-Mennecier[7] dell’Università Descartes di Parigi portano alle stesse conclusioni dei ricercatori inglesi e statunitensi. Inoltre il pensiero di Vygotskij, che considera l’uomo e la sua intelligenza il risultato di un insieme di rapporti umani ,sta diventando l’impalcatura metodologica sulla quale si basa gran parte del pensiero pedagogico contemporaneo.

E’ utile riportare alcuni delle principali considerazioni e conclusioni riportate nella parte riguardanti gli alunni diagnosticati con handicap mentale. 

 

Ripensare il concetto di handicap intellettivo

 

La confusione e l’incertezza delle diagnosi. “Il concetto di ritardo mentale è il concetto più indeterminato e difficile della pedagogia speciale. Fino ad ora non possediamo alcun preciso criterio scientifico per determinare il vero carattere ed il grado del ritardo e non riusciamo in questo campo ad uscire dai confini di un approssimativo e rozzo empirismo. Una cosa per noi è fuor di dubbio: il ritardo mentale è un concetto con il quale viene definita una categoria alquanto eterogenea di bambini. Vi rientrano bambini patologicamente ritardati, afflitti da insufficienze organiche e ritardati in conseguenza a ciò. In questa categoria rientrano altre forme e fenomeni eterogenei. Così, accanto al ritardo patologico vediamo bambini fisicamente normali, ritardati e sottosviluppati a causa di condizioni ambientali ed educative difficili e sfavorevoli. Sono bambini socialmente ritardati. Così il ritardo non è sempre un fenomeno preciso...molto spesso è il risultato di un’infanzia infelice…Ad esclusione delle malattie, nei fenomeni di ritardo mentale abbiamo a che fare con un sottosviluppo e nient’altro[8]”.

Così scriveva nel 1924 Vygotskij, facendo coraggiosamente un bilancio del concetto di ritardo mentale e la sua affermazione è tanto più importante poiché fatta in un periodo dominato dalla frenesia per la misurazione dell’intelletto. Negli USA L. M.Terman, sviluppando la scala Stanford-Binet, sogna una società ‘razionale’ che assegni le professioni in funzione del punteggio in Q I e Yerkes pone le basi dell’Immigration Restriction Act del 1924, che assegna una quota bassa di ammissione agli immigrati dai paesi afflitti da corredi genetici mediocri[9].

La sociologa Nicole Diederich che si è attivamente occupata di handicap mentale, stigmatizza la reificazione delle persone etichettate handicappate mentali ed il pericolo che l’individuo si identifichi con la diagnosi: “La situazione di ‘utente’ di istituzioni speciali o di ‘paziente’ nei servizi psichiatrici può portare ad uno spossessamento di sé che talvolta arriva ad un paradossale adattamento all’immagine stereotipata riflessa dall’ambito istituzionale[10]”. Ed è quanto può avvenire a scuola se il docente si lascia condizionare dalla diagnosi.

 

Classificazione e dignità umana. Occorre reagire alle classificazioni, come invita Charles Gardou, Docente di Scienze dell’educazione all’università Lumière di Lione, presidente del Collettivo di ricerca sull’handicap e l’educazione speciale. Egli è coordinatore di una collana di studi sulla soggettività della disabilità: “Le handicap en visages”, in cui vengono raccolte le testimonianze vive delle persone in situazione di handicap e di quanti ne condividono l’esperienza. “E’ necessario prendere a calci i clichés e gli altri stereotipi, rifiutare le categorizzazioni reificanti, uscire dai soliti schemi cognitivi, contestare la tirannia dei significati sbagliati dell’handicap che sono per coloro che li formulano un mezzo di dominio e per coloro che li subiscono un’ulteriore causa di smarrimento[11]”.

Come ogni persona in grado di “guardare in faccia” la disabilità, Nicole Diederich si dimostra in grado di “ripensare il concetto di handicap intellettivo”, attribuendo dignità alle persone, dimostrandosi in grado di accettarle e di accogliere la loro sofferenza rispettandole come persone: “Le persone handicappate che ho potuto incontrare durante le mie ricerche sono coscienti, senza talvolta poterlo esprimere, che la mancanza di considerazione in cui sono tenute deriva in gran parte dall’inserimento in categorizzazioni stigmatizzanti. E’ per questo che persone ‘handicappate mentali’, contestano sempre di più l’etichetta loro attribuita. ‘Dire di qualcuno che è handicappato mentale e come offenderlo’, dice Filippo, diagnosticato intellettivo grave, ‘noi vorremmo solo esser chiamati esseri uman’. Alcuni adulti rievocano gli insulti di cui sono stati vittime nella loro infanzia. ‘Adesso non me ne importa più’, dice Bernard, ‘prima, quando sentivo dire che ero deficiente, che ero in una scuola differenziale, ho reagito a volte violentemente. Ora lascio fare, ma dentro comincio a tremare, inizio a piangere e.. me ne vado[12].”

 

Il quoziente di intelligenza. Quanto sono intelligenti i test di intelligenza? R. STERNBERG              

“Il pericolo dei test di intelligenza è che in un sistema educativo di massa gli insegnanti meno sofisticati e più prevenuti si bloccheranno dopo aver classificato, dimenticando che il loro dovere è educare. Classificheranno il bambino ritardato invece che combattere le cause della sua arretratezza. In quanto l’intera tendenza della propaganda, basata sui test d’intelligenza, è trattare le persone con basso quoziente di intelligenza  come individui  congenitamente inferiori e senza speranza[13]”.Così scriveva negli anni ’20 un giovane giornalista, Walter Lippmann, polemizzando con L.M.Terman, che stava diffondendo negli USA i test di intelligenza.

Nella scuola italiana il feticismo del Q I non è diffuso come negli Stati Uniti, tuttavia per quanto riguarda la disabilità mentale a livello clinico se ne fa ancora uso, spesso per ancorare diagnosi a dati ‘certi’, spesso in contrapposizione con la speranza dei genitori o il desiderio di impegno dei docenti. Per una presa in carico pedagogica della disabilità mentale occorre sgombrare il campo da una serie di pregiudizi il primo dei quali è che vi sia un modello di intelligenza e che sia misurabile mediante test.

L’archetipo dei test è quello elaborato da Binet nel 1904 che partiva da un punto di vista educativo sbagliato in partenza: trovare strumenti per educare isolatamente dei ragazzi. Alla luce di un insegnamento sistemico in cui la disomogeneità ed il rispetto per la diversità sono la garanzia per l’apprendimento strappare dalla comunità dei ragazzi per un’educazione ‘speciale’, è un’operazione artificiosa destinata al fallimento. Questa operazione partiva dal concetto derivato dall’allora recente colonialismo secondo il quale esistevano apprendimenti ‘primitivi’,  comparabili quantitativamente con quelli più evoluti. Binet divideva i compiti che secondo lui potevano esser compiuti a determinate età e li faceva eseguire ai ragazzi. “L’età associata con gli ultimi compiti che egli poteva effettuare corrispondeva alla sua ‘età mentale’ ed il livello intellettivo generale era calcolato sottraendo l’età mentale dall’età cronologica…Nel 1912 lo psicologo tedesco W. Stern sostenne che l’età mentale doveva esser divisa per l’età reale. Nacque così il Quoziente di intelligenza[14]”. L’ipotesi di Binet presupponeva l’esistenza di un concetto di intelligenza universalmente inteso, una sua misurabilità, un ‘unità di misura, idee attualmente non più accettate.

 

Il gene dell’intelligenza. “Scoperto il gene delle facili illusioni”, titolava nel Sole 24Ore un articolo di Gilberto Corbellini. Sui giornali ogni tanto si legge della scoperta di un gene dell’intelligenza, suggerendo implicitamente che l’intelligenza è inserita nel corredo genetico delle persone e quindi ereditabile. Secondo uno dei maggiori studiosi di genetica,  Richard Lewontin, si tratta di una visione estremamente ideologica: “A questa società atomizzata ha fatto da contrappunto una nuova visione della natura, la concezione riduzionistica, Si è creduto a questo punto che il tutto si sarebbe compreso facendolo a pezzi, che i pezzi e pezzetti individuali, le cellule ed i geni fossero la causa delle proprietà degli oggetti interi e dovessero esser studiati separatamente per comprendere la complessità della natura[15]”.

Si tratta di una scelta secondo il biologo funzionale a “spiegare e giustificare disuguaglianze entro e fra le società e per sostenere la loro ineluttabilità…, ad esempio: “i problemi della salute e della malattia sono stati collocati all’interno dell’individuo, cosicché l’individuo diventa un problema  che la società deve affrontare, piuttosto che la società sia considerata un problema per l’individuo[16]”.

Al di là di scelte ideologiche riguardanti l’impostazione della ricerca ed i suoi rapporti con la costruzione surrettizia di un’umanità basata sulla biologia e non sui rapporti sociali occorre sottolineare veri propri errori compiuti nel ridurre l’intelligenza a semplici geni. Ci può aiutare ad esaminare gli errori dell’ereditarietà un volume pubblicato negli anni ’80 nella Enciclopedia Scientifico Tecnica della Mondadori, intitolato Il gene e la sua mente, mentre il titolo originale é Not in our genes (Non nei nostri geni). “ Il primo errore consiste nel ritenere che i geni determinano l’intelligenza, mentre né per il Q I né per qualsiasi altro carattere si può dire che i geni determinino l’organismo. Infatti non vi è corrispondenza diretta tra i geni ereditati dai propri genitori e la statura o il peso o il metabolismo basale, lo stato di salute o malattia. …Il primo fondamento della genetica dello sviluppo è che  ogni organismo è il risultato dell’interazione tra geni ed ambiente in ogni momento della vita…. Il secondo errore è rappresentato dall’affermazione che i geni, pur non determinando l’effettivo risultato dello sviluppo, sono in grado di determinare il limite effettivo fino al quale esso può giungere…Non vi è nulla nelle nostre conoscenze sull’azione dei geni che possa suggerire una possibilità totale differenziale. In teoria vi deve esser una qualche altezza massima oltre la quale un individuo non può crescere. Ma in pratica non vi è alcuna relazione tra quel massimo puramente teorico che non viene mai raggiunto e le effettive differenze tra individui[17].

 

L’età mentale Talvolta nella Diagnosi funzionale riguardante un allievo a cui è stato diagnosticata un’insufficienza mentale troviamo la notazione della cosiddetta età mentale. Si tratta di un’indicazione entrata nel linguaggio comune come dato sicuro ed assodato, mentre è una costruzione ideologica che ha determinato danni a livello educativo e va smontata al più presto. Risale alla stessa impostazione della scienza positivistica di inizio secolo che ha creato il falso concetto di quoziente di intelligenza. Mentre questo tipo di misurazione ha fortunatamente sollevato una serie di critiche, concretizzate in una miriade di ricerche che ne annullano la validità scientifica, il concetto insidioso di età mentale è stato meno preso in considerazione. E’ legato al concetto di piccolo come inferiore, inserito in una teleologia che vede il proprio compimento nell’adulto, mentre il bambino è considerato qualcosa di incompiuto, primitivo[18]. L’età e la crescita sono considerati come i prototipi di una scala di misurazione  da applicare a situazioni giudicate patologiche ed inferiori. All’inizio del secolo non si erano ancora diffuse le teorie della Montessori sul rispetto dell’infanzia come categoria e situazione in sé, non era accettata l’indicazione preziosa del “bimbo come maestro dell’adulto”. Le difficoltà intellettive non venivano interpretate come diversità[19] ma come incompiutezze ed inferiorità in analogia con la concezione dell’infanzia. Come eredità del recente colonialismo si ponevano infanti e deboli mentali sotto la comune categoria del primitivismo. Lo stesso Vygotskij, come sottolinea Oliver Saks, non è immune da tali classificazioni e definizioni. Eppure, in un articolo importante in cui sostiene la piena educabilità dei bambini ritardati di grado  profondo e la loro assimilabilità a bimbi normali, fa un’affermazione che da sola è in grado di far crollare tutto il castello classificazionista sul quale si basa il concetto di età mentale. In accordo con Gesell e Mainot egli sostiene che nei primi anni di vita del bambino avviene un’accelerazione dello sviluppo fisico ed intellettivo: “A confronto con quello che il bambino acquisisce nei primi due anni di vita, le rimanenti acquisizioni sono insignificanti. Sembra che spetti a J.P.Richter il merito di quell’idea, adottata da L.N.Tolstoj, secondo la quale è maggiore la distanza che separa un bambino che parla da un neonato che non quella che separa uno scolaro da Newton. K. Buehler ha definito bene da un punto di vista dinamico questa importanza precipua delle prime tappe dello sviluppo del bambino, quando ha chiamato tutto il processo di sviluppo della primissima infanzia il processo di formazione dell’uomo (Menschwerdung)[20].”

E’ merito di Bruner aver rilevato la competenza intellettiva del bambino[21], sottolineando le rivoluzioni concettuali e comunicative che vengono compiute nei primi tre anni di età, con una critica all’impostazione degli stadi piagetiani[22].  Le ricerche da lui compiute negli anni ’60[23] hanno dato origine  ad una vastissima bibliografia che testimonia il fiorire degli studi sullo sviluppo intellettivo che avviene nei primi anni di vita, fino ad arrivare a studi che enfatizzano la brillante intelligenza dell’infanzia, intitolando i risultati delle ricerche: Lo scienziato nella culla: mente, cervello e come i bimbi apprendono[24] . Anche la neurologia conferma il potenziale intellettivo dei bambini: “Il cervello di un bambino di sette anni ha le stesse dimensioni e lo steso peso di quello dell’adulto, nei lobi frontali ogni neurone possiede un 40% in più di sinapsi[25] (connessioni tra cellule nervose che permettono la rete neuronale, base per l’attività cerebrale).

 

Incommensurabilità della persona. A fronte di queste scoperte com’è possibile paragonare un genio come il bimbo con una persona con difficoltà intellettive? Lo esclude l’incommensurabilità della persona umana che non può esser ridotta a quantificazioni, ma soprattutto l’irriducibilità dei periodi dello sviluppo umano che hanno una loro unità e specificità. Non si deve prendere come unità di misura un’età astratta di cui si dichiarano astratti stadi di livello e raffrontarla ad una persona con una propria storia ed una propria cultura. Questo paragonare o ridurre la persona con difficoltà a generiche età inferiori ha prodotto immensi danni a livello educativo. Gli educatori che hanno accettato queste indicazioni hanno compiuto operazioni disastrose dal punto di vista della crescita umana. Quando lo hanno fatto hanno proposto livelli minimi umilianti per la dignità degli allievi, strappandoli alla coorte dei pari, facendoli studiare su testi delle classi inferiori, inserendoli in una situazione astratta, con compagni di età inferiore, oppure fuori dalla classe con obiettivi troppo specifici.

Legata a questa concezione, spesso propagandata da neuropsichiatri non in grado di conoscere le dinamiche educative e didattiche, è l’abitudine di far ripetere le classi ai disabili intellettivi. Il primo risultato è stato quello di far perdere a questi allievi il gruppo dei pari dai quali traeva alimento intellettivo ed un secondo quello di togliere dignità all’allievo stesso tramite la bocciatura. Quest’ultima non è negativa se l’allievo viene agganciato al programma di classe, gli vengono proposte prove analoghe a quelle dei compagni, ma non si impegna e la bocciatura è la conseguenza di negligenza analoga a quella dei compagni che subiscono la stessa sorte. Ricerche statunitensi hanno dimostrato che a nessun livello è utile il trattenere gli allievi nelle classi, farli ripetere più volte. Numerose ricerche, raccolte da L. Shepard e M.L. Smith[26] che hanno studiato bimbi trattenuti all’asilo un anno o più, non hanno ottenuto maggiori guadagni o competenze scolastiche rispetto a coetanei entrati in prima, ma hanno invece sviluppato una visione negativa della scuola e di loro stessi. Gli autori sostengono che il trattenere i bimbi nei gradi inferiori deriva da una paura degli educatori di eventuali fallimenti dei loro allievi.    

 

Plasticità del cervello, plasticità  dell’intelligenza: cosa dicono le scienze neurologiche Se vi sono state nel secolo appena trascorso scienze che hanno avuto uno sviluppo impetuoso sono senza dubbio le neuroscienze, che in tutte le ricerche hanno dimostrato la plasticità del nostro sistema nervoso centrale e periferico. Questo porta a concludere in termini positivi alla domanda che tutti ci poniamo sulla possibilità di ‘nutrire’ e far crescere la nostra intelligenza. E’ ancora radicata nella nostra cultura la concezione dell’intelligenza come entità fissa, statica e misurabile al punto che un libro che pone l’accento sulla possibilità di far evolvere, arricchire e diversificare l’intelligenza che in originale portava nel titolo The making of intelligence (La costruzione dell’intelligenza) l’indicazione del contenuto, è stato rozzamente tradotto: Che cos’è l’intelligenza[27]. Di estremo interesse è l’opera del neurofisiologo inglese Ian Robertson, Mind sculpture, Scolpire la mente, correttamente tradotto in italiano Il cervello plastico[28]. L’autore  si collega alla teoria del ‘darwinismo neuronale’, proposta dal Nobel per la medicina Gerald Edelmann ed ormai generalmente accettata. Il cervello viene visto come una rete interconnessa di neuroni continuamente modificata dall’esperienza e dal ragionamento che subisce una continua evoluzione dalla nascita alla morte. Possiamo utilizzare  le parole di un altro grande neurologo Oliver Sacks:(Occorre) una nuova concezione del cervello da intendere non come qualcosa di programmatico e statico, ma piuttosto come un sistema adattivo sommamente efficiente, dinamico ed attivo, equipaggiato per l’evoluzione ed il cambiamento, costantemente impegnato ad adattarsi alle necessità dell’organismo (prima fra tutte quella di costruire un sé ed un mondo coerenti, indipendentemente dalla presenza di difetti o disturbi della funzione cerebrale). Il fatto che il cervello sia differenziato sin nei minimi dettagli è un chiaro dato reale, ci sono centinaia di minuscole aree cruciali per ogni aspetto della percezione del colore e del movimento fino, forse, all’orientamento intellettuale dell’individuo). Il miracolo sta nel modo in cui tali aree cooperano  e sono reciprocamente integrate nella creazione di un sé. Quest’idea della grande plasticità del cervello, capace degli adattamenti più impressionanti, perfino nelle circostanze particolarissime (e spesso disperate) di handicap neurale o sensoriale, è arrivata a dominare la mia personale percezione dei miei pazienti e delle loro vite, al punto che a volte  sono spinto a chiedermi se non sia necessario ridefinire i concetti stessi di salute o malattia per considerarli non più nei termini di una norma rigidamente definita, ma in quelli della capacità dimostrata dall’organismo di creare un ordine ed un’organizzazione nuovi, adatti alla sua disposizione ed alle sue esigenze, così particolari ed alterate[29]

In perfetto accordo con Sacks, il neurologo Robertson dimostra come ci siano innumerevoli esempi di come il cervello può recuperare ed adattarsi a situazioni più difficili, dal recupero della deprivazione socioaffettiva di due gemelli dovuta a continui maltrattamenti che avevano bloccato il loro sviluppo psicofisico, al ripristino del linguaggio in un bambino il cui emisfero cerebrale era stato atrofizzato da una rara malattia.      Le indicazioni della neurologia  concordano quindi con l’estrema fiducia con la quale Vygotskij considera la possibilità di potenziare, tramite la cooperazione, le funzioni mentali superiori ed aprono alla pedagogia un amplissimo campo d’azione nel recupero degli handicap intellettivi.

 

La Pedagogia dei genitori e la misurazione dell’intelligenza. La classificazione e la misurazione della persona urta contro la sensibilità e la consapevolezza della pedagogia dei genitori che da sempre sottolinea l’unicità e l’identità dei figli. La loro esperienza non solo si rivolge alla totalità delle capacità dei figli, ma anche alle loro possibilità che essi da sempre conoscono e sollecitano. Lo testimonia L. Pernoud, pediatra ed autrice di volumi sull’infanzia che in un articolo intitolato La révolution du regard[30] sostiene che “in poco meno di un secolo il neonato è passato dallo status di tubo digerente a quello di persona”. Questo da parte degli studiosi, ma nell’ultima parte dell’articolo sottolinea che: Quanto alle madri da sempre erano coscienti che il neonato che tenevano in braccio era un essere sensibile ed emotivo, pensante”. A fronte di questi genitori vi è il tecnico con la sua batteria di test, le scale psicometriche  i cui risultati non possono esser capiti né accettati dai genitori, si oppongono alla diagnosi. Deve esser stata una situazione frequente, se Terman,che diffuse i test di intelligenza in tutta l’America, si sente in dovere di rivolgersi ai genitori, come sottolinea S.J. Gould: “Terman inesorabilmente metteva in risalto i limiti e la loro inevitabilità. Gli bastava meno di un’ora per annientare le speranze e sminuire gli sforzi di genitori, dotati di ‘buona intelligenza’, in lotta con la sorte, perché afflitti da un bambino con un Q I di 75”: Strano a dirsi, la madre è incoraggiata e piena di speranze perché vede che il suo ragazzo sta imparando a leggere. Non sembra capire che alla sua età dovrebbe esser iscritto da tre anni alla scuola superiore. In particolare un test di quaranta minuti ha detto, circa le capacità mentali di questo ragazzo, più di quanto l’intelligente madre sua sta in grado di apprendere in undici anni di osservazioni fatte quotidianamente ora per ora. Dato che è un debole di mente non riuscirà mai a completare la scuola elementare, non sarà mai un lavoratore efficiente o un cittadino responsabile”. Questo scriveva L.M.Terman nel suo libro The Measurement of Intelligence, pubblicato nel 1916.

 

Cultura diversa o handicap mentale?

 

Il fallimento degli istituti speciali. Nel volume collettivo L’Ecole face aux handicaps, vi sono testimonianze sull’integrazione che permettono di strutturare una mappa della situazione dell’educazione degli allievi handicappati in Europa. Il bilancio che altri paesi fanno della loro esperienza mette a fuoco problematiche ancora aperte in Italia in particolare quelle riguardanti l’handicap mentale lieve ed il problema della povertà e dell’immigrazione. In Belgio una legge del 1970[31] a cui ha messo mano anche Ovide Decroly, ha istituzionalizzato le scuole speciali che vengono divise in otto categorie a seconda delle tipologie di handicap decise dagli ‘esperti’, Jean Louis Chapellier, ricercatore dell’Università di Mons, presso il Centre de recherche et d’innovation en sociopédagogie familiale et scolaire, analizza la situazione del suo paese in un intervento dal titolo significativo: L’éducation spécialisée. Une école de pauvres en Belgique[32]. Egli sottolinea l’assurdo dell’educazione ‘speciale’ per di più parcellizzata, sostenendo che “come ogni categorizzazione, quella adottata dal legislatore belga che prevede otto categorie   di handicap per otto tipologie di insegnamento ha la sua parte di contestabile e di arbitrario. La critica diventa urgente se osserviamo attentamente la popolazione compresa in tre categorie: la tipologia n°1 (bimbi ed adolescenti colpiti da deficit mentale leggero), n°3 (bimbi ed adolescenti caratteriali) e n°8 (bimbi ed adolescenti con disturbi di tipo strumentale). Lo studioso belga, ammette che “la definizione di handicap ‘lieve’, di problematiche ’caratteriali’, di disturbi ‘strumentali’ deriva da categorizzazioni imprecise e pericolose. Chi crede che la misurazione di un Quoziente di intelligenza o di un Quoziente di adattamento sociale permetta di fondare una diagnosi seria? Chi ha definito scientificamente la nozione di problemi ‘caratteriali’, che altro non è se non un vago adattamento delle vecchie indicazioni di ‘difficili’ o ‘disadattati’. Chi dopo le ricerche sulle difficoltà intellettive chi può accontentarsi degli approcci datati riguardanti la dislessia?

          

Le diagnosi di handicap mentale riservate a poveri ed immigrati? Le associazioni dei genitori hanno fatto eseguire ricerche e soprattutto hanno accumulato dati statistici sul problema. Un articolo del 1998, scritto da I. Montulet, intitolato Presentazione dell’insegnamento speciale, pubblicato da La voix des parents, la rivista della AFAHM, l’Associazione delle famiglie belghe con figli con handicap mentale, sottolinea che il 70% delle diagnosi riguardanti allievi delle scuole speciali belghe appartiene ad una di queste contestabilissime categorie e che la maggior parte di questi bimbi provengono da famiglie povere (monoparentali, di disoccupati, ecc.). L’esperienza del Belgio è altamente istruttiva per la situazione italiana. Al contrario del nostro paese questa nazione da molto tempo è terra di immigrazione. L’esame della provenienza  dei bimbi diagnosticati con handicap intellettivi porta a rilevare che spesso le differenze di cultura portano alla differenziazione anche mentale, almeno a giudizio degli  esperti che formulano le diagnosi. E’ quanto conclude lo studioso belga: “Quando vediamo, in certi quartieri delle nostre città, scuole speciali che accolgono unicamente allievi figli di immigrati turchi o magrebini, quando vediamo la miserabile sorte destinata a quei bimbi dobbiamo gridare allo scandalo e preoccuparci delle conseguenze finali di una situazione politicamente ed umanamente inaccettabile. Non possiamo far a meno di farci questa domanda: ma la scuola speciale non è altro che la scuola dei poveri?”.

 

 

 

 



[1] Il tema è svolto nell’ultimo libro pubblicato dal pedagogista statunitense: La cultura dell’educazione, edito da Feltrinelli.

[2] L.S.Vygotskij, La collettività come fattore di sviluppo del bambino deficitario, in: Fondamenti di difettologia, Bulzoni, Roma 1987, pag. 119.

[3] Nelle conclusioni del libro si sottolinea che: “E’ troppo facile individuare qualcosa di sbagliato nell’allievo che nell’apprendimento scolastico fallisce …Diagnosi di questo tipo  portano a prescrivere vari tipi di trattamento nelle scuole speciali, con metodi ‘speciali’ di insegnamento. Abbiamo voluto sottolineare che, nel migliore dei casi, l’evidenza empirica è equivoca e l’approccio è basato su nozioni insostenibili riguardanti la mente umana. Coles, nei saggi: The Learning Mystique e Misreading Reading: The Bad Science that Hurts Children, seguendo analisi critiche e dettagliate, sostiene con  decisione che l’insieme delle ricerche sui fallimenti nella lettura costituisce una cattiva scienza”.

[4] Tutto l’impianto epistemologico dell’opera, che intende esser un manuale di pronta lettura dedicato a chi opera nella scuola, è impostato sul rafforzamento e la valorizzazione dell’esperienza dei docenti, come nell’articolo di Olson e Bruner, Folk Psychology and Folk Pedagogy. Quasi un terzo dei contributi richiama la necessità di rivedere il concetto di intelligenza, di apprendimento ed i deficit conseguenti, come ad esempio: K. Stanovich, Rethinking the Concept of Learning Disabilities; R. Watson, Rethinking Readiness for Lerning; R. Case, Changing Views of Knowledge and Their Impact on Educational, ecc.

[5] L’impostazione dei ricercatori francesi è volta al riconoscimento della dignità della persona in situazione di handicap (C. Gardou, Connaitre le handicap, reconnaitre la personne, Eres, Toulouse 1999) e alla soggettività dei disabili ed alle persone che li circondano (le serie dei volumi Le handicap en visages ripropone le narrazioni, dei disabili, dei genitori, dei fratelli e sorelle, degli esperti, ecc.)

[6] Ricercatrice al Centro per lo studio dei movimenti sociali ed autrice di Les naufragés de l’intelligence, Syros Paris 1990, e di Stériliser le handicap mental, Eres, Toulouse 1998.

[7] Autrice di: La débilité légère. Une construction idéologique, Editions du Centre National de la Recherche scientifique, Paris 2001.

[8] L.S. Vygotskij, Fondamenti di difettologia, Bulzoni  Roma 1986, pag. 81.

[9] S.J.Gould, Intelligenza e pregiudizio. Contro le pretese scientifiche del razzismo, Riuniti, Roma 1985, pag. 145.

[10] N. Diederich, Modèles d’inconduite et adaptation sociale paradoxale ou la deviance normalisée, “Comportements humains”, 5 (1991), pagg. 11-17. 

[11] C. Gardou, Le handicap en visages, I: Naitre ou devenir handicapés, Erès, Toulouse 1996, pag 14.  

[12] N. Diederich, Devenir sujet aujourd’hui, in: Connaitre le handicap, reconnaitre la personne, pagg. 41-46.

[13] W. Lippmann, The Lippmann-Terman Debate, in: N.J.Blok G. Dworkin, The I Q Controversy, Pantheon Books, New York 1976, pagg. 4-44.

14 W. Lippmann, The Lippmann-Terman Debate, in: N.J.Blok G. Dworkin, The I Q Controversy, Pantheon Books, New York 1976, pagg. 4-44

 

[15] R.Lewontin, Biologia come ideologia. La dottrina del DNA, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pag. 11.

[16] Biologia come ideologia, pag.13.

[17] S. Rose R. Lewontin L. Kamin, Il gene e la sua mente. Biologia, ideologia e natura umana, Mondadori, Milano 1983, pagg. 108-09.

[18] Per una critica, fondata sul pensiero di Wallon, a questa concezione, vedi: A. Canevaro, Un bambino non è necessariamente un primitivo, in: Quel bambino là, La Nuova Italia, Firenze 1996, pagg. 49-52. Canevaro sottolinea con Wallon il collegamento arbitrario compiuto tra gli studi etnologici di Lévy-Bruhl e gli  studi di psicologia dell’infanzia. E’ molto utile, per evitare l’erroneo concetto di età mentale,  avere presente l’elenco degli errori denunciati da Wallon: 1) Il prelogico non equivale al primitivo. 2) Il primitivo non equivale all’infantile. 3) La categoria intellettuale non si contrappone a quella affettiva. 4) Il ragionamento infantile non va opposto a quello adulto. 5) Non vi è conformità tra ontogenesi e filogenesi.

[19] Ancora una volta il pensiero di Vygotskij ci aiuta, proponendoci strumenti che ci permettono di inserire la disabilità nell’alveo più dignitoso e reale della diversità. Nel caso di una lesione o di una diminuzione di qualche facoltà egli sottolinea che avviene una ristrutturazione di tutta la persona. Nonostante il deficit abbiamo un’individualità che non può esser definita per sottrazione, non vedente, non udente, ecc.. Nella nostra cultura manca una terminologia che esprima il senso profondo della diversità. Forse in altre culture meno ‘razziste’ l’individualità, la complessità e la diversità del ‘disabile’ vengono espresse in modo diverso. La rivista HP, diretta dall’handicappato ‘gravissimo’ Claudio Imprudente propone il termine ‘diversabile’.

[20] L.S.Vygotskij, Teoria e pratica dell’educazione dei bambini ritardati di grado profondo, in: Fondamenti di difettologia, Bulzoni, Roma 1986, pag. 247.

[21] In un paragrafo intitolato La mente del neonato (J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli Milano 1997, pagg.189-90), scrive: “La nuova ricerca sull’infanzia ebbe inizio quando, alla luce della rivoluzione cognitiva, gli studiosi dello sviluppo decisero di affrontare in modo nuovo lo studio della vita mentale dell’infanzia, lasciando da parte le affermazioni di Sant’Agostino a proposito dell’’imitazione’ onnipresente nel bambino piccolo, di Locke sulla tabula rasa e  di William James sulla ‘rigogliosa e ronzante confusione’. Questo nuovo modo di  considerare il bimbo come essere competente, pensante e con un’intenzionalità ebbe larga diffusione con lo slogan di “New Look” e si trasformò in interventi sociali.

[22] “Il lavoro su questo tema (le teorie che il bambino elabora sulla funzione della mente) ebbe origine in parte dalla critica rivolta a Piaget (a cui mi associai) secondo la quale le sue notissime opere classiche facevano pensare che il bambino crescendo arrivasse a conoscere il mondo attraverso un contatto pratico, diretto, invece che, come normalmente succede, imparando da altri”, in: J. Bruner, La cultura delle’educazione, Feltrinelli , Milano 1997, pag. 192.Nello stesso libro un paragrafo è intitolato: I bambini come pensatori: lo sviluppo dello scambio intersoggettivo.

[23] L’importanza della scoperta dei bisogni intellettivi dell’infanzia portò allo sviluppo di un programma, denominato Head Start (partire dall’inizio, ma anche partire dalla testa, dall’intelligenza) finalizzato all’arricchimento dell’intelligenza dei bimbi deprivati socioculturalmente dei ghetti americani

[24] Scritto da A.Gopnik, A.N.Meltzoff, P.K.Kuhl per le edizioni Morrow, che hanno pubblicato inoltre How Babies Think. The Science of Childhood

[25] I. Richardson, Il cervello plastico, Rizzoli, Milano 1999, pag. 182-83.

[26] L. Shepard M.L. Smith, (a cura di), Flunking Grades: Research and Policy on Retention, Falmer Press, Philadelphia 1989.

[27] K.Richardson, Che cos’è l’intelligenza, Einaudi, Torino 1999.

[28] I. Robertson, Il cervello plastico, Rizzoli, Milano 1999.

[29] O. Sacks, Un antropologo su Marte, Adelphi, Milano 1995, pagg.18-19.

[30] Numero speciale sull’infanzia de “Le nouvel observateur”, maggio 1999.

[31] Dallo studio di Chapellier emerge che le scuole speciali in Belgio sono tutto fuorché specializzate: “..certi aspetti fondamentali della Legge del 1970 non sono stati realizzati. La conseguenza più pesante è stato l’abbandono del progetto di formazione  specifica degli insegnanti”.  Vi è inoltre un’eccessiva medicalizzazione: “Nei confronti degli ‘specialisti’ il ruolo dell’insegnante si è progressivamente ridotto a quello di spettatore, oppure di controllore della disciplina, poiché la classe è diventata per l’allievo un luogo di attesa inserito tra le varie sedute di terapia”.  J.L.Chapellier, l’Éducation spécialisée. Une école de pauvres en Belgique, da: L’école face aux handicaps, PUF, Paris 2000, pagg.147-55.

 


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