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La scuola è di Franti. O no? (*)

di Domenico Starnone

I giornali negli ultimi tempi ci hanno raccontato le scuole di ogni ordine e grado a forza di bulli, sesso in aula filmati col telefonino, droga, arrivo prossimo venturo dei Nas. Ma la crisi dell'istruzione pubblica è lì? Non credo. In teoria la scuola potrebbe essere sanissima, malgrado quegli episodi. O malatissima, pur in assenza di quegli episodi. E' il suo trantran che ci dice quale scuola abbiamo, non il caso straordinario che finisce sui giornali.
Dubito che la crisi della scuola sia recente. Dubito che sia causata semplicemente dal cattivo lavoro degli insegnanti o da qualche orrenda mutazione antropologica che ha investito gli studenti. Escludo anche - i giornali insistono molto su questo punto - che derivi dagli effetti corruttivi della Lettera a una professoressa , dal '68 o, per andare più indietro, dall'introduzione della scuola media unica.
Sono invece convinto che la scuola di oggi sia per molti aspetti migliore di quella che ho conosciuto da studente negli anni '50. Anzi, per dirla tutta, penso che la sua crisi - qui da noi come altrove - sia diventata più visibile proprio grazie a un generale miglioramento dell'istituzione scolastica a partire dagli anni '60 del secolo scorso.

Cerco di chiarire ciò che voglio dire. Tutto il Novecento è attraversato da un lato dall'idea che l'istruzione di massa sia una necessità ormai improrogabile, dall'altro lato dall'idea che la scuola di massa comporterà la dequalificazione degli studi. Le odierne argomentazioni polemiche contro la scuola che non funziona non sono affatto nuove, ma vecchie di cento anni e più. Gli insegnanti - si scriveva già un secolo fa - sono ignoranti e incapaci, per di più abbrutiti dai bassi stipendi. I giovani - si scriveva già un secolo fa - sono inebetiti dalla lettura corruttiva dei romanzi, dai fumetti, persino dalla penna a sfera che distruggerà la bella pensosa grafia, senza la quale diventerà impossibile accedere a un impiego. Qual è allora il fatto veramente nuovo?

Io direi così: negli ultimi quarant'anni, tra mille ostacoli, tra mille mediazioni, si è cercato di fare una scuola per tutti, una scuola rivolta a limitare gli effetti delle disuguaglianze di partenza. Questo tentativo generoso ha portato allo scoperto tutti i problemi dell'istruzione di massa senza risolverne nessuno. Come insegnare bene a tutti? Cosa insegnare? Come rimuovere gli ostacoli di partenza? Come imparare a non confondere la diligenza con l'intelligenza? Istruire tutti significa necessariamente il trionfo della semplificazione? Dare a tutti gli strumenti per accedere alla complessità è impossibile? A fine anni '70 gli insegnanti protagonisti di quel tentativo erano già finiti nell'ingorgo delle loro stesse buone intenzioni e cominciava il declino del docente innovatore pre e post sessantottesco, declino che dura fino a oggi.

Qui è inutile scavare nelle ragioni extrascolastiche di quel fallimento: economia, politica, cultura di quegli anni. Restiamo a scuola e vediamo di capirci. Se sono un insegnante volenteroso, vado in classe tutte le mattine per fornire educazione e istruzione di qualità a tutti i miei studenti. Ma mi accorgo presto che primo, nessuno mi sostiene veramente in questo mio sforzo, tra l'altro mal remunerato, di non perdere nessuno dei miei studenti; secondo, che io stesso non sono stato formato, non ho gli strumenti - forse bisognerebbe dire non ho la testa - per perseguire un obiettivo così alto; terzo, che l'istituzione dentro cui lavoro non è stata pensata per questo, ma solo per prendere atto delle disuguaglianze così come si manifestano attraverso incapacità e demerito; quarto, che lo stesso sistema è incapace di assorbire intelligenza di massa, tant'è vero che i miei alunni - ormai laureati - riappaiono di tanto in tanto a scuola per dirmi che o sono disoccupati, o fanno lavori precari lontanissimi dalla loro specializzazione o tentano la fuga all'estero. Butto insomma le mie energie inseguendo un obiettivo che, anno scolastico dietro anno scolastico, riesco sempre meno a raggiungere. Mi trovo chiuso tra scuola di ratifica delle disuguaglianze e scuola facile o, peggio, faccio una scuola facile e insieme di ratifica delle disuguaglianze.
Questo è l'ingorgo, ed era già visibile all'inizio degli anni '80. La scuola come l'abbiamo ereditata dall'Ottocento non sa, non può funzionare come scuola volta a istruire tutti. La funzione originaria degli insegnanti, lo strumentario «storico» (scansione del tempo scolastico, lezioni frontali, compiti a casa, interrogazioni, voti, scrutini) sono pensati per prendere atto delle disuguaglianze, non per colmarle.
L'istruzione di tutti presuppone il contrario: presuppone che si lavori a colmare le disuguaglianze; presuppone la centralità dell'insegnamento e dell'apprendimento; presuppone che la registrazione di gerarchie intervenga solo dopo la reale istruzione di tutti. Dunque bisognerebbe inventare una scuola nuova. Ma questo non accade.

Così oggi siamo fermi qui. Pretendiamo dagli insegnanti cose contraddittorie: gli chiediamo di dare a ciascun allievo una buona istruzione; ma lo mettiamo dentro un'istituzione che funziona solo se espelle coloro che non sa o non può integrare. Poiché non si capisce come fare bene la prima cosa e nessuno si sente di sposare fino in fondo una selezione rigorosa, l'intera macchina gira sempre più faticosamante e disperatamente a vuoto.

La crisi dell'istruzione oggi è né più né meno che la crisi dell'istruzione di massa, la crisi del diritto di tutti allo studio. Ma nessuno lo dice con chiarezza politica. E questo non è bene, perché i protagonisti della scuola - studenti e insegnanti - hanno urgentissimo bisogno di un'idea chiara di scuola. Che si venga, dunque, allo scoperto senza peli sulla lingua.
Per esempio: in che direzione vanno le politiche neoliberiste decollate, nella scuola, proprio in coincidenza con l'ingorgo a cui si è accennato? Vogliono l'istruzione come capitale umano che accresca la produttività del lavoro e quindi i profitti? Vogliono una scuola rigorosamente selettiva, rimossi o no che siano gli ostacoli di partenza? Vogliono che la sola scuola di base sia scuola pubblica per tutti e poi chi ha filo tesserà? Vogliono mettere sul mercato la scuola superiore e l'università? Vogliono privatizzare tutta l'istruzione pubblica? Vogliono porre in concorrenza le scuole tra loro, vogliono creare un libero mercato degli insegnanti?

Perché non dicono a chiare lettere che la privatizzazione della scuola pubblica, totale o parziale che sia, è l'unica soluzione per ottenere una scuola che torni a selezionare i capaci e i meritevoli senza perdere tempo con tutti gli altri? Perché non dicono che vogliono tornare a una scuola con canalizzazioni precoci ed esplicitamente concepita per individiduare gli eccellenti?
Un discorso diretto, dati alla mano, non sarebbe più proficuo? Un vecchio serio discorso tipo: i genitori che possono assicurino ai loro figli le scuole migliori e quelli che non possono si arrangino, non sarebbe meglio che dichiarazioni da tartufo?

Altrettanta chiarezza, per un dibattito politico proficuo, va chiesta a chi difende la scuola pubblica fino al punto di negarne la crisi. Tutto funziona per il meglio? Forniamo già istruzione di elevata qualità a tutti, dalle elementari all'università? Lavoriamo già efficacemente a limitare gli effetti delle disuguaglianze? Se la scuola deve restare rigorosamente pubblica, perché si flirta con le tesi neoliberiste? Se la scuola pubblica va sostenuta fino in fondo come un bene essenziale, perché le tagliamo i fondi? Se l'istruzione di massa deve essere di qualità elevata (e deve esserlo, altrimenti a che serve?), perché si bara, perché si semplifica, perché si fa una scuola facile che frustra gli insegnanti e annoia gli studenti, non li appassiona?

E' urgente, insomma, riconoscere la crisi, analizzarla nella sua prassi quotidiana, nel rito degli atti dovuti. Temo invece che oggi si spari ogni giorno su falsi bersagli puntando in segreto a bersagli veri. Non giova. Va individuato come e dove e perché s'è arenata la grande esperienza di rinnovamento cominciata a fine anni '50.

Intanto bisogna uscire da categorie generiche. Per esempio, non esistono i professori, non esistono gli studenti, non esiste la scuola. Ci sono solo realtà specifiche che andrebbero studiate per capire il da farsi. Per esempio, ci sono professori che lavorano bene, professori che lavorano male ma in condizioni diverse potrebbero lavorare bene, e professori che non lavorano affatto; studenti che studiano bene e benissimo pur essendo stati allevati nell'era dell'elettronica, altri che darebbero molta soddisfazione se le cose funzionassero diversamente, altri che si perdono; ci sono scuole ben organizzate e scuole dove regna il caos; c'è la scuola elementare, quella media, quella superiore, l'università e c'è un generale invecchiamento dell'età degli insegnanti, cosa che è sicuramente un male. Basterebbe un controllo serio sulle scuole peggio gestite. Basterebbe non lasciare soli gli insegnanti e gli studenti nelle situazioni più degradate o più a rischio. E già funzionerebbe un po' meglio il comune trantran.

Ma funzionare un po' meglio dovrebbe servire solo a tirare il fiato, a riorganizzare l'esistente. Poi bisognerebbe andare al cuore dei problemi. Il cuore è questa domanda: quale scuola vogliamo? Una scuola di qualità per Franti, l'infame del Cuore, o una scuola di qualità per i soli capaci e i soli meritevoli? Una scuola di qualità che sia tale perché espelle i Franti o una scuola di qualità capace di trasformare Franti in capace e meritevole?

(*) da Il Manfesto, 2 giugno 2007


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