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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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IMMIGRAZIONE/Inchiesta

di Elisabetta Norzi


Oltre la metà (53%) degli stranieri presenti in Italia ha la laurea, ma rischia una ''dequalificazione''. Mancato riconoscimento, burocrazia: le difficoltà di vedersi riconosciuto un titolo di studio

 

BOLOGNA – Commercialista in Albania, impiegato in Italia. Biologa in Romania, colf in Italia. Psicologa in Messico, disoccupata in Italia. Gli immigrati qualificati, nel nostro paese, sono una componente rilevante del flusso migratorio, ma lasciato il paese d'origine spesso esperienza, studi e capacità non servono più a nulla. I numeri – anche se a livello nazionale non è facile fare stime - parlano chiaro: secondo due ricerche del Gruppo Cerfe (Progetti Ragi e Raimi,1999), condotte su un campione significativo di immigrati qualificati (979 stranieri, in Lazio, Umbria, Toscana, Sardegna, e 120 key persone, ovvero soggetti in contatto con la realtà delle migrazioni internazionali), i laureati sono risultati il 53%. Se si mettono però in rapporto l'esperienza curriculare e professionale acquisita e il tipo di lavoro svolto, escludendo coloro che non sono ancora inseriti in una esperienza lavorativa, emerge come più del 77% delle donne e più del 66% degli uomini si trovino coinvolti in un processo di progressiva dequalificazione, non riuscendo a mettere a frutto le proprie capacità e competenze. Non solo: secondo alcune stime (sempre Cerfe), gli immigrati con un'istruzione superiore rappresentano in Italia circa un quarto della popolazione immigrata. Nella sola città di Roma (dati Caritas) il 67,5% degli immigrati residenti ha una formazione secondaria superiore o universitaria, addirittura circa 30 punti percentuali in più rispetto ai romani.


Ma che cosa succede quando si mette piede nel nostro paese?

Sicuramente una buona preparazione personale aiuta a trovare un lavoro, ma il grosso problema sta a monte: è molto difficile arrivare al riconoscimento di un titolo di studio “straniero”. Non tanto – o non solo - per la burocrazia, ma soprattutto perché manca un’adeguata informazione al riguardo, sia tra gli italiani che tra gli immigrati. Non è raro, così, che molti migranti, arrivati in Italia, tengano nascosti lauree e diplomi. Durante i colloqui di lavoro, poi, nei settori più diversi, i ritornelli che si sentono ripetere sono sempre gli stessi: “la tua laurea è troppo” oppure la “tua laurea è troppo poco”. Per i mestieri che non richiedono un titolo di studio specifico, infatti, chi possiede una laurea ha più probabilità di ottenere il posto senza dire di averla - meglio una persona con aspettative più basse (come viene ripetuto anche a molti neolaureati italiani) -; per le professioni che invece una laurea la richiedono, ci si scontra con la burocrazia. Per ottenere la validità di una laurea non comunitaria ci vogliono tempo, pazienza e la voglia di rimettersi sui libri: l’equiparazione prevede infatti, nella maggior parte dei casi, il superamento di esami aggiuntivi. Per non parlare dei bandi delle Università, che chiedono sempre come requisito la cittadinanza italiana o comunitaria, fatta eccezione, in alcuni casi, per i dottorati. Chi quindi non è italiano, non può accedere agli assegni di ricerca né concorrere per i bandi da ricercatore. Dopo anni di studio, dunque, magari anche dopo una specializzazione presa in un’Università italiana, è molto raro che un cittadino non comunitario riesca a trovare un lavoro che abbia qualcosa a che vedere con gli studi che ha fatto. Ma il discorso è complesso, e va inserito in un contesto più ampio: la crisi che sta vivendo il “lavoro istruito” nel nostro paese, la mancanza – tipicamente italiana – di una richiesta di personale tecnico qualificato straniero, la carenza di una decisa volontà politica e culturale di creare una società davvero multietnica.

 

A Roma il 67,5% degli stranieri ha una formazione secondaria superiore o universitaria. Percentuale più alta tra gli europei

 

Il 67,5% degli immigrati residenti a Roma ha una formazione secondaria superiore o universitaria, circa 30 punti percentuali in più rispetto ai romani. E' questo il dato della ricerca condotta da Luca Di Sciullo e Leonardo Samà, tra i curatori del Dossier statistico immigrazione della Caritas, che verrà pubblicata a settembre dalla Camera di Commercio in un volume dedicato al ruolo degli immigrati a Roma. Una premessa: l'area romano-laziale, che detiene un sesto di tutta la presenza straniera (212.000 su 1.362.000 al 31 dicembre 2001), trova a Roma il suo "epicentro"; nella provincia si trova il 90% della presenza regionale, nella capitale il 90% della presenza provinciale. A Roma sono poi rappresentati tutti i gruppi stranieri, e la loro presenza è di più lunga durata rispetto ad altre città italiane. Il sorprendente dato sui titoli di studio è stato stabilito analizzando la classificazione che fa l'anagrafe di Roma a tutti i suoi i scritti, stranieri compresi, e prendendo in considerazione i dati dei censimenti Istat. Risulta, così, che la percentuale complessiva dei laureati tra gli stranieri è molto più alta di quella rilevata per i romani. Il livello medio-alto di formazione è percentualmente più rilevante tra gli europei e, in particolare, tra i cittadini dell’Unione europea rispetto a quelli dell’Est. Lo stesso avviene tra gli americani, con una prevalenza di livelli di formazione più alti dei nordamericani sui latinoamericani.

 

Tra gli africani non solo si abbassa la percentuale dei laureati (13,1%, comunque superiore a quella dei romani) ma è notevole la differenza tra i due sessi (18% gli uomini e 6,3% le donne), mentre la differenza è meno accentuata per quanto riguarda i diplomi. Per le donne la situazione varia molto a seconda del paese di provenienza: tra le capoverdiane lo 0,2% è in possesso di laurea e l’8,3% di diploma, mentre tra le egiziane le percentuali sono, rispettivamente, del 23,1% e del 51,7%. Tra gli asiatici è bassa la percentuale dei laureati (12,7%) e più soddisfacente la percentuale dei diplomati (42,8%) e sono meno vistose le differenze tra le donne e gli uomini: 10,6% laureate rispetto al 15,1% degli uomini, 46,% diplomate rispetto al 40,4% degli uomini. Naturalmente la situazione, per i diversi paesi di provenienza, è molto diversificata: tra gli indiani, i laureati sono il 13,2% e i diplomati 58,1%; tra gli iraniani, i laureati 22,8% e i diplomati 68,5%; tra i filippini, i laureati 9,9% e diplomati 43,3%. Ma i titoli di studio sono utili, poi, per trovare un lavoro in Italia? Chi proviene dai paesi ad alto indice “di sviluppo umano” svolge in gran parte (38,3%) lavori intellettuali e, più raramente, mansioni non qualificate (11,2%); la situazione si inverte (13,3% lavori intellettuali e 56,1% mansioni non qualificate) per i paesi “a medio sviluppo” (Filippine, Brasile, Libano, Romania, Perù e Paesi ex Urss). Tra gli immigrati provenienti dai paesi con un “basso indice di sviluppo” la percentuale di impiegati in mansioni intellettuali è del 33% e di quelli impiegati in mansioni non qualificate del 37,7%.


Infine un’analisi dei dati “al femminile”: disaggregando i numeri relativi alle donne laureate si riscontra che il 20% svolge lavori da casalinga. Si può quindi concludere che lo spreco formativo (il cosiddetto "Brain Waste") coinvolge specialmente la popolazione femminile (4 su 10 donne straniere laureate). I due terzi delle casalinghe possiede, infatti, una laurea o un diploma. Più critica la situazione tra i diplomati, sia maschi che femmine: oltre il 30% svolge lavori a bassa qualificazione.

 

 

Toscana; il 15% degli stranieri con laurea o titolo superiore. Più spendibili lauree forti e ''maschili''. In difficoltà le donne

 

FIRENZE - Circa il 15% degli immigrati presenti in Toscana ha un titolo di studio equiparabile alla laurea o a un titolo superiore. Il dato arriva dal gruppo Cerfe, che nel maggio 2002 ha presentato una ricerca sull'immigrazione qualificata in Toscana, condotta tramite interviste a un campione di 285 immigrati, dei quali 135 diplomati e 150 laureati (“Ricerca-azione sugli immigrati qualificati e l'integrazione professionale”). Secondo lo studio il 71,4% degli intervistati si è laureato nel proprio paese, e questo attesta la perdita dei cervelli da parte delle aree di esodo: la percentuale arriva all'85% nei paesi dell'Est e conosce una differenziazione di genere (84% fra le donne rispetto al 60.5% dei maschi). Le lauree forti e "più maschili" (ingegneria, medicina, farmacia, matematica, fisica) sono le più diffuse perché più spendibili sul mercato. Non solo: un laureato su dieci è in possesso di un titolo di studio post-laurea. Gli immigrati nel proprio paese d’origine erano tecnici, amministrativi e intellettuali a medio (46,4%) ed elevato (32,0%) livello, mentre solo pochi esercitavano un lavoro manuale (15,4%).


Ma il titolo di studio, una volta arrivati in Italia, li ha aiutati a trovare un lavoro? Nei tre quarti dei casi la buona preparazione aiuta a trovare un’occupazione, ma gli immigrati qualificati solitamente subiscono un processo di dequalificazione (il cosiddetto “Brain Waiste”), a causa dell'impiego in attività che non hanno nulla a che vedere con la preparazione ricevuta (questo avviene per l'81,4% degli uomini e il 70,3% delle donne. L'ascesa professionale è molto difficile anche perché ai più non viene riconosciuto il titolo di studio: l'inconveniente riguarda il 58% degli immigrati laureati e il 76,6% delle donne. Per rendersi conto del problema, basta pensare che la metà degli intervistati svolge attività di tipo manuale, e che il 34,8% ha un lavoro come operaio non qualificato o di servizio non specializzato. Prima di emigrare in posizioni analoghe si trovavano solo l'1% degli intervistati. E a svolgere più frequentemente i lavori meno qualificati sono le donne, che risultano in questo modo soggette a un doppio processo di depauperamento, sia rispetto alla loro preparazione sia rispetto agli immigrati maschi. Il processo di dequalificazione è attestato anche dal reddito: il 51,4% degli intervistati laureati si colloca al di sotto di 774,68 euro mensili e appena un terzo dei laureati si dichiara soddisfatto del proprio lavoro sotto l'aspetto economico. Tenuto conto del riuscito inserimento o meno, il Cerfe distingue tra due categorie: i dequalificati sono quelli che hanno peggiorato la loro situazione rispetto al titolo di studio; gli integrati sono i laureati che sono riusciti a migliorare la propria posizione professionale o comunque l’hanno mantenuta allo stesso livello. A inserirsi positivamente, secondo i risultati dell'indagine, è un terzo degli immigrati: tra di loro sono riusciti a integrarsi più facilmente coloro che si sono laureati in Italia (55,9%), o chi si è sposato con un italiano (52,4%).

 

Perla: negli Usa laureata e giornalista, in Italia senza titolo di studio e senza lavoro

 

PAVIA - "Con una laurea, in Italia, pensavo che fosse tutto più facile, ma mi sono trovata solo porte chiuse”. Perla si è laureata in Messico, in psicologia sociale. Quando abitava nel suo paese lavorava come giornalista, poi ha deciso di partire. Prima è andata negli Stati Uniti, dove la laurea gli è stata riconosciuta senza problemi. “Anche negli Stati Uniti – racconta - sono riuscita a trovare lavoro come giornalista, a Filadelfia, in un giornale bilingue, inglese e spagnolo. Le difficoltà sono arrivate quando ho deciso di venire in Italia”. Da un anno vive vicino a Pavia, e non trova lavoro. La sua laurea? Nel nostro paese ci vuole tempo per ottenere il riconoscimento del titolo. Nel frattempo Estela, sposata con un italiano e mamma di un bambino di due anni, sta facendo un corso come mediatrice culturale nel comune del paese dove vive. “Me ne sono sentita dire di tutte – prosegue –. Il ritornello che quasi tutti mi hanno ripetuto, soprattutto nelle agenzie di lavoro interinale, è sempre lo stesso: ‘hai due caratteristiche contrastanti, dal momento che sei laureata non puoi svolgere certi lavori, hai aspettative tropo alte, dall’altra alcuni lavori, per cui è richiesta la laurea, non ti possono essere assegnati, perché il tuo titolo non è riconosciuto”. Perla ha provato anche a rivolgersi all’Ordine degli psicologi, ma senza i documenti per l’equiparazoine del suo titolo di studio non è stato possibile fare nulla. Nel piccolo comune dove sta facendo il corso per mediatrice culturale sono in 15, 7 laureati e 4 diplomati. Ma anche dopo questo corso le prospettive non sembrano essere molto buone: “ci hanno già avvistati, le nostre lauree e la nostra certificazione come mediatori, dopo le lezioni, valgono meno da quando è stata inserita la laurea di specializzazione, qui in Italia, in mediatori culturali. Saranno avvantaggiati quei laureati lì”. L’idea di Perla, dopo avere conosciuto moltissimi stranieri nelle sue condizioni, è di fare una lista con tutti i laureati stranieri della sua zona, che si offrono volontari per svolgere i lavori per i quali hanno studiato, gratuitamente. “Questa è una sorta di provocazione – precisa - per fare parlare di un problema poco conosciuto e di cui non si occupa nessuno. Sarebbe bello andasse in porto questa idea, per fare capire che non è una questione economica, ma di autostima e di dignità”.

 

Carriera universitaria? Impossibile per chi non ha la cittadinanza

 

PERUGIA - Anche per i cittadini non comunitari che studiano in Italia, e riescono ad arrivare alla laurea, le difficoltà non mancano. Sanad è nato in Yemen, si è laureato in giurisprudenza, a Roma, e sta per discutere la tesi di dottorato. Dopodiché la sua carriera universitaria non può più proseguire: per andare avanti, e diventare ricercatore, è necessario avere la cittadinanza italiana. “Sembra assurdo, ma è proprio così – spiega Sanad -. E la mia paura è di non trovare un lavoro attinente agli studi che ho fatto”. Gli hanno offerto un posto all’ambasciata, ma vorrebbe provare a diventare avvocato. Per ora, per mantenersi, lavora all’Inps “ma non c’entra proprio nulla con tutto quello che ho studiato”, dice. La stessa situazione in cui si trova Manuel, originario del Camerun, che si è laureato in Farmacia all’Università di Perugia. Ora sta facendo il dottorato, ma più avanti di così non può andare. “Sono stato fortunato – racconta -, sono riuscito a laurearmi, e ora a fare il dottorato, grazie a una borsa di studio per un progetto di cooperazione tra Italia e Camerun”.


Per chi non ha la cittadinanza italiana è infatti impossibile ricevere le borse di studio universitarie: “i posti per gli stranieri, per quanto riguarda il dottorato, sono quelli sovra numero, senza borse”, conferma Manuel. Finito il suo dottorato, anche se un lavoro come farmacista lo troverebbe (“è infatti una professione molto richiesta”), probabilmente tornerà in Camerun, “per mettere in pratica tutto quello che ho imparato in un Paese che ne ha davvero bisogno”. Per questo ha provato a presentare un progetto, alla Farnesina, che riguarda la mancanza di acqua potabile nel suo paese d’origine. “Non credo però, purtroppo, ne verrà fuori qualcosa di concreto – aggiunge Manuel -. L’emergenza acqua in Camerun non è considerata tra le ‘priorità’, come mi hanno già fatto sapere, nei progetti della Farnesina. In ogni caso qui non vedo molti sbocchi, tornerò comunque a casa”.

 

Albania-Italia: ancora esami per riconoscere il titolo di studio acquisito oltre Adriatico

 

BOLOGNA - Estela si è laureata nel 1993 all'Università di Tirana, in Economia e commercio. Per tre anni ha lavorato come commercialista in Albania, dove è nata. Poi è arrivata in Italia, e sono iniziate le difficoltà. “So che trovate lavoro è un problema per tutti i neolaureati, anche per quelli italiani – spiega -, ma per uno straniero è ancora più difficile. E’ quasi impossibile riuscire a fare quello per cui si è studiato tanti anni, nemmeno qualcosa che gli si avvicini”. Il primo ostacolo l’ha trovato appena ha messo piede in Italia: una laurea presa in Albania, nel nostro paese va “integrata” con alcuni esami aggiuntivi. L’Università italiana le ha riconosciuto solo 17 materie su 30; quasi tutto da rifare, quindi: lezioni, appunti, libri. “Il problema – prosegue Estela - è che io ora non ho più tempo per dare gli esami e per studiare, peraltro materie che già ho studiato una volta. Ho una famiglia qui in Italia, e non posso permettermi di non guadagnare”. Estela ha quindi iniziato a lavorare, per due anni, come operaia generica in una fabbrica. Ha provato anche a cercare un impiego come ragioniera, “la professione che più si avvicina alla mia laurea”, ma niente: “e pensare – dice - che ero disponibile a lavorare gratis, almeno all’inizio”.

 Ora un lavoro che le piace l’ha trovato, anche se non ha nulla a che vedere con i suoi studi; lavora all’Anolf della Cisl, come formatrice per stranieri, e non solo (corsi di lingua italiana, computer, legislazione del lavoro). “Sono soddisfatta di quello che faccio – conclude - ma non è quello che vorrei fare veramente e per cui ho faticato tanto a studiare. Un bel salto: dall’economia sono passata a lavorare nel campo sociale”.

 

Alvarez (Anolf): ''La difficoltà più grossa è la conversione del permesso di soggiorno per motivi di studio in quello lavorativo''

 

ROMA – Se gli immigrati che arrivano in Italia con un titolo di studio sono parecchi, le pratiche che raggiungono i ministeri competenti, per il riconoscimento e l’equiparazione di lauree o diplomi non italiani, sono molto poche. Quali le difficoltà che incontra uno straniero quando decide di convertire il proprio titolo di studio? Quali gli ostacoli per un ragazzo che arriva in Italia e che vuole studiare o specializzarsi all’Università? Ne abbiamo parlato con la dottoressa Liliana Ocmin Alvarez, responsabile nazionale del coordinamento studenti universitari dell'Anolf.


Quali sono gli ostacoli che può incontra uno straniero neolaureato in Italia?

“Le difficoltà sono diverse, anche perché bisognerebbe differenziare gli studenti in due categorie: la prima costituita da coloro che provengono dal proprio paese d’origine con un permesso di soggiorno per motivi di studio, e la seconda da coloro chi si trovano in Italia per motivi di lavoro, famiglia o altro e desiderano riconoscere i propri studi (laurea, diploma universitario) o la propria professione”.


Iniziamo dai primi…

“Il primo problema è il permesso di soggiorno. Per chi vuole studiare o specializzarsi in Italia, è previsto un particolare permesso di soggiorno per motivi di studio. Al di là delle pratiche burocratiche per le selezioni, il grosso problema è il vincolo economico al quale è legato: viene infatti richiesta una fideiussione bancaria di garanzia per un anno, anziché di sei mesi, il reale tempo effettivo che lo studente impiega per le valutazioni necessarie, per l’immatricolazione (esame di lingua o eventuale esame d’alcune materie per le facoltà a numero chiuso). Ma la difficoltà più grossa è la conversione del permesso di soggiorno per motivi di studio in quello lavorativo. E’ incredibile, ma anche questo tipo di conversione è vincolato ai decreti di flusso. Non esiste, poi, alcuna elasticità mentale al riguardo: viene dato il permesso di soggiorno per motivi di lavoro solo per occupazioni subordinate o autonome. Un sistema che chiaramente non tiene conto dell’attuale mercato del lavoro, fatto, soprattutto all’inizio, e non solo per uno straniero, di lavori atipici (collaborazione coordinata e continuativa, lavoro interinale, ecc)”.


Come funziona, invece, il riconoscimento di un titolo professionale conseguito in un altro paese?

“Nell’ambito medico-sanitario, gestito dal Ministero della Salute, le cose sono leggermente più semplici, grazie al consistente numero di domanda di riconoscimento degli infermieri determinate da un crescente fabbisogno nel mercato del lavoro. Ci sono poi le altre professioni i cui Ordini e Collegi sono vigilati dal Ministero della Giustizia, come ad esempio i commercialisti, agenti di cambio, agronomi, avvocati, ingegneri. In questo caso lo straniero deve presentare la domanda direttamente al Ministero, dove vengono verificati una serie di parametri: l'iscrizione a eventuali albi, l'esercitazione della professione nel paese d'origine. Ai fini del riconoscimento professionale e per la successiva abilitazione, i candidati sono anche sottoposti alla verifica delle loro competenze: lo straniero deve quindi mettersi a studiare di nuovo determinate materie e sostenere gli esami stabiliti. Questo vale per tutti quei paesi di provenienza dove non ci sono accordi specifici”.


Questa la burocrazia, e i problemi concreti?

“Effettivamente le pratiche avviate sono molto poche, nonostante gli stranieri in possesso di un titolo di studio siano molti. Il fatto è che l’informazione su come convertire i propri diplomi o lauree è molto scarsa. Assente nelle università, se ne occupano solo alcune associazioni. Bisognerebbe mettere in piedi una rete capillare d’informazione al riguardo, sia a livello nazionale che territoriale, portata avanti dalle diverse associazioni. Si aggiunge poi il problema per lo straniero, che spesso lavora o ha una famiglia, di doversi rimettere a studiare per sostenere gli esami necessari all’equiparazione…non ne ha proprio il tempo”.


Secondo l’esperienza dell’Anolf, una volta riconosciuto il titolo di studio, le prospettive lavorative migliorano?

“Sicuramente sì. Un lavoratore straniero in possesso di un titolo di studio, acquisito nel paese d’origine, nella maggioranza dei casi si trova a svolgere lavori dequalificati fintanto che non richiede la conversione o il riconoscimento in Italia”.


Ma a che punto siamo, rispetto anche agli altri paesi?

“La situazione è migliorata molto in Italia, per esempio rispetto a quando sono arrivata io, una decina di anni fa. Allora non c’era veramente nulla, i vincoli per uno studente straniero erano irremovibile. Poi la burocrazia e la normativa si sono evolute. Di strada, comunque, ce n’è ancora molta da fare: è assente, di fondo, una chiara volontà politica verso una società davvero multiculturale, che apra possibilità, indistintamente agli italiani e agli stranieri, in tutti gli ambiti lavorativi, anche in quelli qualificati. Come avviene, del resto, in altri paesi europei e soprattutto negli Stati Uniti”.


 Stranieri laureati. Ambrosini (Univ. di Genova): ''Ai problemi dell'occupazione si aggiunge la discriminazione degli Ordini''

 

GENOVA - Nel nostro paese il lavoro istruito sta vivendo un periodo di forte crisi, che tocca tutti, italiani e stranieri. Bisogna partire da qui, secondo Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università di Genova, per riflettere sulla difficoltà che incontrano gli immigrati laureati a trovare un lavoro in Italia. “Per fare un esempio concreto – sottolinea Ambrosini - nelle piccole imprese i laureati sono sotto il 4%. E’ chiaro, quindi, come gli spazi per l’assunzione di giovani laureati, italiani o stranieri che siano, sono molto ristretti. Per il terziario, invece, e per terziario si va dall’impresa di pulizia alla consulenza aziendale, sono in genere richieste elevate competenze linguistiche, che possono essere un limite per gli stranieri”.


Ma i problemi non si fermano qui: un altro esempio?

“Un laureato in diritto in un paese straniero – prosegue Ambrosini -, non ha solo il problema del riconoscimento formale del proprio titolo di studio, ma deve trovare un datore di lavoro interessato, magari per motivi commerciali, a una persona che conosca il diritto di un determinato paese”.


Niente di strano, quindi, se uno straniero laureato non trova lavoro?

”Assolutamente no – precisa -. Quella che ho fatto finora è solo la premessa: a tutto questo si aggiunge il grosso problema della discriminazione. C’è un aspetto molto grave in Italia, che è la resistenza degli ordini professionali, da quello dei medici e quello dei commercialisti o dei giornalisti, ad allargarsi agli stranieri, e ai giovani in generale. Il sistema degli ordini ha una chiusura sociale molto forte, che vede come vittime, in primo luogo, proprio gli stranieri e i ragazzi neolaureati”. Non si può però generalizzare: “non sempre uno straniero laureato che arriva nel nostro paese è costretto a tenere nascosto il proprio tutolo di studio per trovare lavoro; questo non è certo l’unico esito – aggiunge Ambrosini -. Qualche sbocco professionale c’è: il più diffuso è quello per occupazioni come mediatori culturali, soprattutto per le donne, e poi per il grosso settore del precariato intellettuale, ruoli da interpreti, consulenti nei tribunali, ricercatori, consulenti per enti locali. Esistono poi casi fortunati di battaglie vinte, innanzitutto con il matrimonio e l’ottenimento della cittadinanza italiana.

 

Con fatica, e molto travaglio, insomma, qualche spiraglio si sta aprendo; forse il settore migliore, da questo punto di vista, è quello infermieristico, dove la richiesta di personale è molto alta”. Ma in Italia c’è un altro problema, ben più complesso, che è quello della scarsa richiesta di personale straniero tecnico qualificato, come al contrario avviene in altri paesi (Stati Uniti in testa): “nel nostro paese gli immigrati sono soltanto a bassa qualifica – conclude Ambrosini -; la grande richiesta è per quei lavori che io definisco ‘occupazioni a cinque P’: ovvero precarie, poco pagate, pericolose, pesanti e penalizzate socialmente, che ricoprono proprio gli immigrati”.

 

Immigrati: Che cosa è il Brain Drain

Si intende per Brain Drain la perdita di risorse umane qualificate da parte di un paese a causa dei fenomeni migratori. Si tratta di un fenomeno identificato attraverso un’indagine curata dal Gruppo Cerfe su un campione di 979 immigrati qualificati complessivamente intervistati.
Dei 979 immigrati qualificati intervistati (394 uomini e 585 donne), la percentuale di laureati si attesta intorno al 53% (52,1% nel caso delle donne e 54,0% in quello degli uomini). Di questi, una porzione rilevante (il 27,2% tra le donne e il 28,1% tra gli uomini) ha addirittura ottenuto una specializzazione post-universitaria. Più di una laureata su 4 e quasi un laureato su 2 sono possessori di diplomi per così dire “forti” che, in condizioni normali, avrebbero un’alta spendibilità sul mercato del lavoro.

La grande maggioranza degli intervistati conosce almeno due lingue, oltre all’italiano e diffuso appare il ricorso alle tecnologie informatiche (tra i maschi, 1 immigrato su 3 dispone di un personal computer). Il 49% degli uomini e il 46% delle donne dichiarano di avere competenze in campo informatico; il 47% degli uomini e il 38% delle donne affermano di avere esperienze nel campo della contabilità; il 73% dei maschi e il 71% ha avuto esperienze di gestione di gruppi o unità di lavoro, mentre il 58% degli uomini e il 52% delle donne ha svolto attività di progettazione e di pianificazione. La maggioranza degli intervistati (il 64% tra le donne e il 57% tra gli uomini) ha lasciato il proprio paese pur avendo un lavoro, spesso di medio o alto profilo.

Inoltre, se si considera che, secondo alcune stime, gli immigrati dotati di una istruzione superiore rappresentano circa un quarto della popolazione immigrata (200.000 persone) si fa presto a comprendere come non ci si trovi affatto di fronte a un fenomeno marginale e di scarso impatto, bensì a una vera e propria emorragia di saperi e di capacità di cui i Paesi meno sviluppati sono vittime – saperi e capacità che spesso tali paesi paradossalmente cercano all’estero; una emorragia la cui gravità può essere senza retorica paragonata a quella che essi subiscono a causa del debito pubblico.

Fonte: Gruppo Cerfe


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