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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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La gabbia d’oro

di Vito Piazza (1)

Quando la società capisce che anche la persona disabile può esserci se non un’educazione almeno un addestramento, si pensa che prima di entrare a far parte della società e della scuola di tutti, quel ragazzo debba essere in qualche modo <<riparato>>. Non nell’officina di tutti – la scuola – ma in un’officina in cui non desse fastidio agli altri, non ritardasse il cammino dei compagni di scuola e di vita che sapevano correre, mentre lui era appena in grado di camminare. Così sono nate le scuole speciali, seguendo il principio – non si quanto in buona fede – secondo il quale bisogna <<prima riabilitare e poi inserire>>.

            Ma non sarebbe giusto parlare delle scuole speciali come della difesa organizzata dei ricchi contro i poveri: la disabilità colpisce ricchi e poveri. Né sarebbe giusto considerare le scuole speciali come gabbie volute dai sani per i malati. Le scuole speciali hanno dimostrato che questi ragazzi sono educabili e hanno contribuito a fare uscire fuori di casa la <<vergogna>> delle famiglie delle persone disabili.

            Se prima il principio adottato dalle famiglie era quello secondo il quale <<i panni sporchi si lavano in famiglia>>, ora la famiglia li consegna alla lavanderia (la scuola speciale), che provvede al ritiro e alla consegna a domicilio. Con propri mezzi di trasporto. Nei primi del Novecento con i tram, fino a pochi anni fa con i pullman.

           E’ settembre, l’autunno in cui scade l’ora legale: alle 7 del mattino alcuni ragazzi scendono in strada

           accompagnati dai genitori.  L’impaccio e la goffaggine motoria ne denunciano l’identità : si tratta di

           ragazzi  portatori  di disabilità  psicofisiche, di  quelli che  una  volta  venivano  definiti  <<matti>> e

           chiusi in manicomio. O in casa, quando si trattava di soggetti i cui  panni  sporchi si potevano lavare

           in casa,  nel  privato  della  cerchia  familiare.  E’ un’alba livida, fatta  di  piombo  e di  nebbia che si

scioglie sugli alberi e  sulle  macchine,  l’umido cala  sui  berretti  e sulle orecchie che sembrano non

essere fatte per ascoltare. Le orecchie, come gli occhi, sembrano essere un ornamento, un  accessorio

cattivo su un corpo che non risponde ai comandi della mente e da cui partono spesso attacchi violenti

e improvvisi, inspiegabili. Sono orecchie fredde che non odono e occhi che guardano ma non vedono.

Disseminati  e  nascosti  nei  punti  più  diversi  della  città,  questi  ragazzi  non  sono  neppure  tanto

piccoli: molti hanno superato i diciotto anni,  l’età in cui  per  gli  altri si  va a votare o ci si prepara a

fare il servizio militare.

          Questi ragazzi, di cui quasi nessuno si accorge mentre sale il traffico convulso della metropoli,

non sono  mai soli in  questi  luoghi  deputati dove ogni mattino, dal  lunedì  al venerdì,  si   consuma

il rito dell’attesa.

          Sono disabili, non diventeranno mai grandi e avranno sempre bisogno dell’aiuto di un adulto...

Sono dei Peter Pan che non hanno scelto di restare piccoli    , ma che non possono farne a meno.

Appena  nati, i genitori  hanno investito  su di loro  sogni e speranze e, mentre provavano la gioia e il

fastidio della culla, pensavano a quando  sarebbero  stati  in  grado di cavarsela  da  soli: allacciarsi le

scarpe,  vestirsi,  prendere  la  cartella a tracolla, dire: << Ciao mamma, vado a scuola>>,  imparare un

mestiere, sposarsi…

              Invece la culla si è fermata.  

                Alla fermata non di linea, una fermata speciale…(2)

Non c’era una scuola speciale. Ce n’erano tante, quasi una per ogni tipo di <<malattia>>: ce n’era una per i non vedenti, ce n’era una per i non udenti, ce n’era una per i motulesi, ve n’erano altre per i pazzi (schizo-frenici), per i ritardati mentali (oligofrenici), ecc.

Ogni persona disabile nasce con un destino determinato dalla sua patologia

Ma la patologia non è tutto. A volte il rimedio può essere peggiore del male. E poi se la scuola è vita e preparazione alla vita futura, che senso ha dividere la scuola in tante scuole specifiche, una composta totalmente da non vedenti, una formata da soli non udenti, l’altra costituita da disabili mentali?

Che vita è quella in cui ognuno è costretto a guardare l’altro trovandolo uguale a se stesso? Che vita è quella in cui tutti sono uguali, uniformi, un unico corpo di malati della stessa malattia?

                La Costituzione dice che la scuola è aperta a tutti. Dice anche che non bisogna fare distinzione di sesso, di religione, di lingua, di condizione umana e sociale.

            Lo dice la Costituzione, agli articoli 3 e 34.

            E così quando la società si accorge che l’alunno disabile chiuso nel ghetto dorato delle scuole speciali diventa sempre più <<idiota>>, cioè un essere solo che si guarda nello specchio deformante dei suoi simili, senza la possibilità di incontrare modelli comportamentali diversi, gli apre le porte della scuola comune. Viene promulgata la legge 517/77.

            L’entrata dell’alunno disabile nella scuola comune fa pensare al cavallo di Troia: i pedagogisti di orientamento contrario sostengono che quest’ingresso darà il colpo finale a una scuola già in crisi. In Italia la legge 517/77, che impone la frequenza dell’alunno disabile nelle scuole comuni, è un pugno allo stomaco per l’insegnante capace di insegnare soltanto in un modo. Costringe a ripensare tutto: organizzazione, programmi, strategie didattiche, valutazione. L’alunno disabile destabilizza, rompe gli schemi, inquina la tranquillità dell’ambiente scolastico, spezza la routine, impone la ricerca di strade nuove, fa disperare tutti nella ricerca affannosa di una risposta all’inquietante  interrogativo: <<Perché la vita è così?>>, e alla domanda: <<Che gli insegno?>>. Si investe di nuove responsabilità l’insegnante stesso che si chiede: <<Che devo imparare?>>.

                L’alunno disabile è il Socrate della situazione, che fa emergere verità con la maieutica. Non fornisce risposte, solo domande.

            La presenza dell’alunno disabile sembra che faccia sentire l’eco delle parole del filosofo condannato a morte senza colpa: <<Io senza sosta vi sono vicino, per stimolarvi, per esortarvi, per rimproverarvi, a uno a uno, ogni giorno….>>. Socrate-disabile <<come un moscone alato sopra un cavallo alto e di buona razza, ma alquanto pigro per la sua stessa mole e bisognoso di essere stimolato>>.

            Quando guardi l’insegnante di sostegno che trascina con sé con manette invisibili quel povero ragazzo, pensa che quel ragazzo è come il grande Socrate.

            E non proverai solo compassione: la compassione serve a tacitare la coscienza,induce solo a preoccuparsi del problema.

            E questo è sbagliato. Giusto sarebbe invece non preoccuparsene, ma occuparsene.

            E anche tu, non docente o ausiliario, non puoi isolarti, non puoi dire: <<Non mi riguarda>>.

Scriveva John Donne che tutta l'umanità deriva dall'opera di un unico Autore e costituisce un unico volume; quando un uomo muore, non viene strappato via un capitolo dal libro, ma esso viene tradotto in una lingua più alta. L'Autore - il caso o la Provvidenza - si serve di diversi traduttori: alcuni pezzi sono tradotti dalla morte, altri dalla vecchiaia, altri dalla malattia. Ma la campana che suona la sentono anche coloro che non hanno fede, che considerano gli altri come diversi dal nostro essere uomini. Nessun uomo è completo nel suo isolamento, come un'isola; ciascuno è un pezzo del continente, una parte dell'oceano. Perciò docente o non docente che sia, comunque uomo, qualunque sia o sia stato il traduttore e qualunque pagina sia stata tradotta, non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te.

Non andare a chiedere aiuto, dallo tu, qui e ora.

Non chiederti se ti compete o no: è l'umanità che hai in te e che è nell'altro - in tutti gli altri - che deve sentirsi coinvolta.

Ti riguarda come lavoratore. Non puoi limitare le tue azioni al rispetto del mansionario in modo rigido, altrimenti qualcuno potrebbe chiederti come mai hai dei momenti di riposo e se davvero il tuo lavoro ha diritto ad una sedia, a un caffè con i colleghi, a una pausa pagata dallo Stato o dall'Amministrazione Pubblica.

Qui la Costituzione ti sarebbe contro: la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro.

Ti riguarda  come persona che non è impiegata in una catena di montaggio: hai rapporti con persone vive e non con bulloni e tondini di ferro. Parli con i tondini di ferro? No.  Ma con le persone, grandi o piccole, colleghi o professori, devi comunicare. Perché non dovresti farlo con gli alunni?   Perché non dovresti farlo con gli alunni disabili?

A questo potresti obiettare : <<con questi non so cosa fare, né ho le competenze necessarie e specifiche>>.

Un vecchio indimenticato programma del compianto Mario Riva, Il Musichiere, aveva uno slogan: chi sa parlare sa anche cantare.

Se sai parlare con il preside, saprai anche parlare con i ragazzi normali.  Se sai parlare con i ragazzi normali, saprai farlo anche con quelli disabili.

E' momento che cominci a parlare, a detenere un ruolo attivo anche tu. Perché tu fai parte del contesto, vale a dire dell'ambiente di vita in cui cresce il ragazzo disabile. Anche tu fai parte del suo progetto di vita.

Perché anche tu sei la sua vita.

Devi solo imparare a dare il suo tempo, il bene più raro dei nostri giorni.

E imparare a cantare.

 

1 Vito Piazza, Per chi suono la campanella? Erickson

2 Vito Piazza, Attè ti picchia Luigi?, Milano, Baldini & Castaldi, 1992.

3 John Donne, Devozioni per occasioni di emergenza, Roma, Editori Riuniti, 1994.


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