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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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La separazione dal genitore: i diritti del figlio

Studi Zancan, n.1 - 2004

 

Alfredo Carlo Moro

 

1. Non infrequentemente accade che particolari situa­zioni di vita impongano l'interruzione del quotidiano rapporto di convivenza tra uno o entrambi i genitori e il figlio. Spesso l'allontanamento non pone problemi: si pensi al caso di un genitore che deve lasciare tempo­raneamente un figlio per recarsi in una sede lontana a causa del suo lavoro. Altre volte, invece, l'allontana­mento è conseguenza di una situazione di crisi fami­liare; in questo caso, sono indispensabili alcune regole per disciplinare i rapporti del figlio con il genitore da cui è stato allontanato.

Il caso più frequente è sicuramente quello della dissoluzione della comunità familiare conseguente alla crisi di coppia.

 

Una situazione sempre più diffusa

 

      Una situazione che diviene sempre più consueta: nel 2000 la percentuale di separazioni per ogni 100 matrimoni è salita al 25,7 per cento, ma con profonde e preoccupanti differenze regionali che rendono poco significativa la media: nelle regioni dell'Italia nord oc­cidentale, per esempio, la percentuale è del 37,5 per cento (e nella Valle d'Aosta del 49,3 per cento), men­tre la percentuale scende nell'Italia meridionale al 13,2 per cento Ce in Calabria all'8,5 per cento). Se attual­mente nel meridione la famiglia regge, c'è da doman­darsi, preoccupati, se la progressiva omogeneizzazione della cultura e la cosiddetta «estensione» della cosid­detta «modernità» non porterà a un incremento delle fratture familiari anche in zone in cui oggi la famiglia sembra più salda.

Certo non sempre e inevitabilmente questa situa­zione comporta difficoltà di rapporti interpersonali, e quindi la necessità di una regolamentazione precisa di questi rapporti conseguenti al fallimento dell'espe­rienza familiare: la grande maggioranza delle separa­zioni tra coniugi sono separazioni consensuali e non giudiziarie (nell'anno 2000 vi sono state per esempio 62.205 separazioni consensuali contro solo 9.763 sepa­razioni giudiziali), il che dovrebbe eliminare i più vistosi contrasti, dato che le parti sono giunte a una comune e accettata regolamentazione dei rapporti non solo tra gli ex coniugi ma anche di loro con i figli.

 

Non tutte le separazioni consensuali sono prive di conflitti

 

Devo sottolineare l'uso - voluto e non accidentale - del condizionale, perché in realtà anche nel corso dell'esecuzione delle separazioni consensuali insorgo­no spesso contrasti, alcune volte feroci, come possono testimoniare i giudici tutelari chiamati molto spesso a dirimere le questioni relative all'interpretazione delle modalità esecutive delle regole liberamente fissate con­sensualmente tra le parti: evidentemente o gli accordi originali sono stati in qualche modo imperfetti ed e­storti, oppure dopo una separazione civile riesplodono contrasti sopiti.

 

Un trofeo da conquistare nella guerra coniugale

 

Ma nella maggior parte delle separazioni giudizia­rie il conflitto tra i coniugi a seguito della disgregazio­ne del rapporto di coppia tende a trasferirsi sul posses­so del figlio, trofeo da conquistare nella guerra coniu­gale e strumento da usare per la vendetta verso il com­pagno/ compagna che ha tradito l'alleanza siglata con il matrimonio o con la decisione di affrontare insieme la vita.

La lotta per vedersi affidate le «spoglie del figlio» diviene così funzionale a far emergere - sulla base dello stereotipo culturale che il cattivo coniuge è anche un cattivo genitore - una responsabilità morale nel falli­mento di coppia, nonché all'esigenza di non essere perdenti su tutti i fronti e di poter ricostruire con il fi­glio, o i figli, un rapporto che abbia valore compensativo di quello perduto.

Inoltre, la vittoria attraverso l'affidamento è fun­zionale anche a realizzare una vendetta e a irrogare una punizione nei confronti del partner, su cui si tende a far ricadere in via esclusiva la colpa del fallimento, rassicurandosi e autoassolvendosi.

Ma se la posta in gioco è percepita così, nella con­troversia giudiziale gli interessi del figlio, i suoi reali bi­sogni, le sue aspettative, il rispetto della sua personalitàdivengono per i genitori contendenti del tutto sfuocati e in realtà inesistenti: nella contesa in questione resta­no solo le esigenze degli adulti. E non ci si può allora meravigliare se i mezzi adoperati nella lite divengono funzionali solo ad appropriarsi del figlio anche se col rischio di distruggerlo: del tutto assente o comunque secondaria è la preoccupazione di cercare di aiutare il figlio a superare felicemente quella crisi personale che lo ha già pesantemente segnato.

Avviene così frequentemente, nelle procedure giu­diziarie di separazione, che l'aggressività scatenata nella coppia in crisi porti a rappresentare il partner non solo come colpevole della rottura ma anche come persona equivoca, disturbata, «cattiva». E questo non solo di fronte al giudice ma anche di fronte al bambino, chia­mato ad assumere un ruolo di alleato e testimone delle incapacità dell'altro genitore, sottilmente influenzato perché esprima giudizi pesanti su di esso, rendendo così impossibile l'affidamento (non sono infrequenti i casi di bambini spinti da un genitore a dichiarare fal­samente di aver subito abusi di ogni genere da parte dell'altro genitore). La conseguenza è che il rapporto con il genitore, così pesantemente contestato, sarà ir­reversibilmente distrutto, perché il bambino assimilerà le valutazioni negative che gli sono state suggerite e sa­rà indotto a nutrire sentimenti di rancore nei confronti di chi gli viene rappresentato come colui o colei che lo ha abbandonato e tradito.

 

..Orfani di vivi

 

Ma la distruzione di un rapporto genitoriale di cui il ragazzo si sente in qualche modo responsabile pro­prio per i giudizi negativi espressi priverà il ragazzo di un apporto necessario, lo renderà orfano di un vivo, con un'accentuazione di risentimenti non facilmente superabili, lo farà sentire corresponsabile nel fallimen­to della sua comunità di vita.

Né la conflittualità sorta nell'ambito giurisdiziona­le termina con la decisione del giudice relativa all'affi­damento dei figli minori: l'aggressività - e l'equivocità dei rapporti tra tutti i soggetti del dramma - può per­manere anche dopo la chiusura della lite giudiziaria. Anzi, in molti casi essa si accentua, sia da parte del genitore che «ha vinto», avendo ottenuto l'affidamen­to, sia da parte del genitore che «ha perso» e vuole in qualche modo rifarsi.

Così il genitore affidatario, che vuole stravincere, tenderà a ostacolare, anziché facilitare, i rapporti del figlio con l'altro genitore:

- inizierà non infrequentemente una sottile, assillante, continua opera di denigrazione dell'altro genitore per­ché i rapporti si rarefacciano o comunque non siano pienamente soddisfacenti per il ragazzo;

- cercherà un legame compensativo per la perdita del naturale partner e spingerà il ragazzo ad assumere un nuovo e assai equivoco ruolo di partner sostitutivo del genitore, il che inquina non solo i rapporti con il geni­tore non affidatario ma anche i rapporti con il genitore con cui il ragazzo vive;

- inventerà continue scuse per non ottemperare alle di­sposizioni relative alle visite dell'altro genitore e ai suoi rapporti col figlio, coinvolgendo il bambino.

Da ciò una continua microconflittualità che avve­lena i rapporti e rende estremamente precaria la vita del ragazzo.

Il genitore non affidatario, da parte sua, reagisce spesso in modo speculare:

- cercando di denigrare il genitore affidatario; approfit­tando dei necessari dinieghi che il genitore, con cui il ragazzo quotidianamente vive, deve di necessità e­sprimere alle troppe richieste, anche di natura com­pensativa, che il ragazzo avanza, rappresentando il ge­nitore affidatario come non liberale e tarpante;

- catturando l'attenzione e l'affetto del ragazzo attra­verso doni di rilevante valore e divertimenti a profu­sione che non compensano affatto il ragazzo di ciòche ha perduto, ma lo fanno vivere delle giornate ir­reali che si contrappongono alla grigia quotidianità del­l'esistenza presso il genitore affidatario;

- intravedendo in ogni difficoltà del ragazzo al rappor­to con lui, dovuto solo all'insufficiente comunicazione che si instaura e all'imbarazzo per incontri fugaci e trop­po programmati, un'azione di «plagio» da parte del­l'altro genitore, con conseguente esplosione di nuove aggressività nei suoi confronti.

Da una simile guerra continua il ragazzo esce spes­so sostanzialmente distrutto.

 

2. L'allontanamento di un figlio da un genitore non è conseguente solo al caso di disgregazione dell'unità fa­miliare a seguito della crisi di coppia: vi sono diversi al­tri casi in cui diviene necessario, per provvedimento giurisdizionale, disporre a tutela dei diritti del ragazzo una separazione del figlio da uno o da entrambi i geni­tori.

- Innanzitutto in quei casi in cui il ragazzo è stato vitti­ma di abusi sessuali in famiglia: la separazione tra vitti­ma e persecutore diviene quasi sempre necessaria per lo meno finché non si sia potuto ricostituire un corret­to rapporto genitoriale.

- Poi in tutti i casi in cui si riscontrino maltrattamenti in famiglia che rendono impossibile la permanenza della convIvenza.

- Infine in alcuni casi in cui gravi malattie mentali o l'uso continuativo di droga mettano seriamente in peri­colo l'armonico sviluppo della personalità infantile e quindi impongano un allontanamento.

In tutti questi casi occorre decidere se e in che modo possono permanere rapporti tra il genitore in­capace di svolgere la sua funzione genitoriale e il figlio.

 

3. Prima di affrontare il tema del diritto del minore al mantenimento della genitorialità in tutte queste situa­zioni di profonda crisi del rapporto genitoriale, mi sembra opportuno spendere qualche considerazione su un assioma che viene continuamente propagandato anche dai mezzi di comunicazione: il conflitto tra i ge­nitori separati sul figlio si stempererebbe d'incanto se il legislatore introducesse nel nostro ordinamento il prin­cipio dell'obbligatorietà del regime dell'affidamento con­giunto. Persino nel caso della truce uccisione di un fi­glio da parte di un genitore non affidatario i commenti della stampa, e di qualche sedicente esperto, sono stati che ciò non sarebbe avvenuto se fosse stato in atto il regime dell'affidamento congiunto.

Ed è attualmente all' esame del Parlamento una legge in tal senso. Ora, è innegabile che si deve ritene­re ottimale un regime dell'affidamento conseguente alla separazione che:

- riesca a mantenere la comune responsabilità genito­riale non deresponsabilizzando né il padre né la madre; - assicuri un comune accordo dei genitori nella gestio­ne del figlio;

- eviti le troppe meticolose regolamentazioni dei poteri e dei doveri di entrambi i genitori;

- escluda la vittoria giudiziaria di un coniuge sull'altro e quindi eviti che si inneschi una guerra senza fine.

Ma è anche vero che l'esasperata conflittualità tra i coniugi non sempre scaturisce a seguito e a causa dell'insorgenza di una procedura giudiziaria: per lo più è preesistente ad essa ed è la ragione per cui non si giunge a una separazione consensuale ma si apre un'aspra contesa. Una contesa che solo apparentemen­te è sul figlio, ma che in realtà è essenzialmente fun­zionaIe a colpire attraverso il figlio il coniuge che si ri­tiene abbia tradito il patto e rotto l'alleanza.

Credere che in questi casi l'adozione della formula giuridica dell'affidamento congiunto risolva per incan­to il latente o esploso spirito di conflittualità e porti magicamente serenità e collaborazione costituisce una pia illusione.

Potrebbe anzi costituire un drammatico boome­rang:

- perché comunque si dovrebbe stabilire con chi il ra­gazzo deve prevalentemente stare - essenziale per assi­ curare a chi si affaccia alla vita un minimo di stabilità e di radici -, e questo solo costituirebbe per coniugi in forte contrasto una vittoria o una sconfitta personale;

- perché si moltiplicheranno le occasioni di discussione e di contrasto, essendo di necessità affidata a ex co­niugi in continua forte polemica la gestione quotidiana del bambino e dei suoi problemi;

- perché non infrequentemente alla base della disgre­gazione familiare vi sono anche insufficienze caratte­riali e mentali che non scompaiono certo solo perchél'affidamento diventa congiunto.

 

4. Negli ultimi decenni - nell'ambito del riconoscimen­to che il cittadino di età minore è non solo oggetto ma anche soggetto di diritto e quindi titolare di fondamen­tali diritti di personalità - è stato riconosciuto un diritto del minore alla propria famiglia.

La recente legge di riforma dell'adozione e del­l'affido viene sintomaticamente intitolata come la legge sul diritto alla famiglia; la Convenzione sui diritti del­l'infanzia dell'Onu - divenuta legge dello stato attra­verso lo strumento di ratifica del 27 maggio 1991, n. 179 - prevede all'articolo 8/1 il diritto del bambino a conservare le sue relazioni familiari con entrambi i ge­nitori.

È stato così affermato che esiste un diritto del bambino alla genitorialità che l'ordinamento ricono­scerebbe, e che in virtù di questo diritto dovrebbe es­sere sempre favorito al massimo il mantenimento di un continuo rapporto tra il bambino e il genitore da cui vive separato.

Mi sembra importante rilevare subito che, in or­dine a questo diritto riconosciuto, l'ordinamento pecca talvolta per difetto e talvolta per eccesso.

a) Innanzitutto, se vi è questo diritto, l'ordinamento dovrebbe espressamente prevedere l'obbligo per i ge­nitori separati di mantenere e anzi incrementare la re­lazione genitoriale: in particolare, il genitore affidatario dovrebbe vedere sanzionata la violazione del suo ob­bligo di favorire e non ostacolare i rapporti del figlio con l'altro genitore, e il genitore non affidatario dovrebbe vedere sanzionata la violazione dell'obbligo di partecipare attivamente e di collaborare lealmente ed efficacemente al processo evolutivo del ragazzo/a.

Invece l'ordinamento prevede solo una sanzione per il caso del genitore che si sottragga ai suoi doveri sul piano economico (art. 570 del codice penale), e la stessa legge sul divorzio ha sentito il bisogno di preve­dere l'applicazione della pena di cui all'art. 570 del co­dice penale al divorziato che non versi l'assegno di di­vorzio e quello di mantenimento, mentre nulla preve­de per il caso del genitore non affidatario che non visi­ti mai i figli, che non scriva, non telefoni, non dia in alcun modo notizia di sé. Si potrebbe in realtà ritenere ipotizzabile in questi casi il ricorso alla prima ipotesi contemplata dal reato di cui all'art. 570 - il fatto di co­lui che, abbandonando il domicilio domestico o co­munque serbando una condotta contraria all'ordine e alla morale della famiglia, si sottrae agli obblighi di as­sistenza inerenti alla potestà dei genitori -, ma non si rinvengono nella giurisprudenza casi di ricorso a tale norma per il disinteresse non economico del genitore non affidatario. Ed è comunque assai significativo - e ostativo a interpretazioni estensive - il fatto che il legi­slatore del divorzio abbia limitato l'applicazione del reato in questione solo all'ipotesi del mancato versa­mento di quanto dovuto sul piano economico.

Inoltre, potrebbero essere previste alcune sanzioni civili per la violazione del diritto del bambino alla pie­na genitorialità con entrambi i genitori: per esempio, potrebbe essere prevista una dichiarazione di abban­dono unilaterale per il genitore non affidatario sostan­zialmente assente (il che renderebbe possibile e agevo­le un'adozione ex art. 44 da parte del partner del geni­tore affidatario che svolge di fatto le funzioni genito­riali dimesse dal genitore biologico); si potrebbe pre­vedere, per il genitore affidatario che ingiustificata­mente sabota e rende difficili i rapporti del figlio con il genitore non affidatario, la revoca dell'affidamento. E dovrebbe essere riscritto il secondo comma dell'art. 388 del codice penale (sull'inottemperanza ai provvedimenti giudiziari in materia di affidamento) per ricomprendere anche i casi in cui il coniuge affidatario eluda il provvedimento del giudice in merito al mante­nimento dei rapporti del figlio con l'altro genitore, isti­gando - come spesso succede - il ragazzo a rifiutare lui i rapporti con il genitore non affidatario: il che costi­tuisce il modo più subdolo di elusione del provvedi­mento del giudice.

Tutto questo però è solo ipotizzabile per l'av­venire: allo stato delle cose sembra che l'ordinamento declami il diritto alla genitorialità, ma eviti accurata­mente di predisporre strumenti opportuni perché tale diritto sia attuato.

b) Il diritto, inoltre, è troppo assolutizzato dall'ordina­mento, non riconoscendo che esso possa essere anche vanificato quando non diviene più funzionale agli inte­ressi della persona. Eppure da tempo il nostro ordi­namento giuridico ha riconosciuto che il diritto alla propria famiglia, per secoli ritenuto incomprimibile e irreversibile, poteva essere posto nel nulla nell'interes­se dello sviluppo umano del minore attraverso la di­chiarazione di adottabilità e il conseguente inserimento in una famiglia degli affetti 'che diviene anche giuridi­camente non una nuova famiglia ma la sua unica fami­glia.

La nozione assoluta di diritto alla famiglia e alla genitorialità non può non essere condizionata dalla va­lutazione se l'esercizio di tale diritto sia o no funziona­le allo sviluppo umano della persona.

Da tempo mi sono convinto che nel diritto mino­rile il concetto di interesse, richiamato dalla Conven­zione di New York sui diritti del fanciullo, non si po­ne, come qualcuno ha affermato criticandone feroce­mente la nozione, in contrapposizione al concetto di diritto, ma è un elemento essenziale per integrarlo e chiarirlo.

A questa nozione l'ordinamento ha dovuto sem­pre più frequentemente fare ricorso (nella legislazione e nelle sentenze della Corte Costituzionale) non per sostituire la nozione di interesse a quella di diritto sog­gettivo, che ha costituito per il minore una conquista di civiltà, ma per valutare, nella concretezza dei casi di vita, se il diritto astrattamente riconosciuto sia oppor­tuno o no che sia utilizzato. Il minore, infatti, al con­trario dell'adulto non è in grado di valutare liberamen­te se l'esercizio del diritto astrattamente riconosciutogli sia conveniente o no per i suoi specifici interessi, e conseguentemente non può optare per la sua concreta attuazione o per il suo accantonamento.

Certo nessuno può seriamente contestare che la nozione di «interesse del minore» sia una nozione sfumata, dai contorni non ben delineati. Ma è questo il prezzo che si deve pagare se si vuole dare risposte non formali e stereotipe al bisogno espresso dal ragazzo e se si vuole tenere presente non un ragazzo tipicizzato ma il ragazzo del caso concreto, con le sue specifiche peculiarità, con un suo particolare vissuto, con le sue specifiche esigenze.

Del resto, tutto il diritto minorile ha continua­mente bisogno di ricorrere a clausole generali proprio per essere un diritto attento alle diversità profonde dei vari soggetti e alle diverse situazioni (basta pensare al termine di «abbandono», o al termine «maturità», o alla nozione di «pregiudizio»). Né, per la verità, i feroci cri­tici della nozione di interesse sono in grado di indivi­duare altre strade per radicare il giudizio sulla peculia­rità della situazione in esame e per assicurare altrimenti che i bisogni del soggetto in formazione non siano sa­crificati alle esigenze di un adulto che ha mezzi per rappresentare e difendere i propri interessi.

Se fosse espunta dall'ordinamento - come qualcu­no richiede - la nozione di interesse, per sostituirla so­lo con quella giuridicamente più consueta di diritto, non ne deriverebbe una tutela più accentuata del biso­gno (spesso sfumato) che è sottostante al diritto. Due esempi tra i tanti che si potrebbero fare.

 

Situazioni in cui è evidente l’importanza della nozione di interesse del minore

 

- Se per esempio si verificasse una situazione - peraltro necessariamente delineata sulla base di precisi canoni in­terpretativi dal legislatore - di abbandono, bisognerebbe sempre automaticamente inserire il minore in una fa­miglia sostitutiva in attuazione del suo diritto a una famiglia: ma l'esperienza della vita insegna che in alcu­ni casi rapporti che oggettivamente appaiono grave­ mente insoddisfacenti sono invece per il ragazzo sog­gettivamente importanti e comunque insuperabili. E se il ragazzo ha instaurato nuovi rapporti, anche se non pienamente soddisfacenti, con figure sostitutive delle figure genitoriali, può risultare non opportuno tronca­re questi rapporti per inserire il ragazzo in una famiglia astrattamente migliore.

- Se giustamente l'ordinamento riconosce un diritto del ragazzo ad avere un rapporto stabile e significativo con chi lo ha generato, bisognerebbe riconoscere un 'auto­maticità di effetti del riconoscimento anche tardivo del figlio da parte del genitore biologico o un 'automatica ricerca della paternità ove essa sia appena possibile: ma assai oppor­tunamente l'ordinamento, proprio per salvaguardare le esigenze più profonde del ragazzo, ha previsto che non sempre la ricomparsa, dal buio del passato, di un genitore sconosciuto aiuta il ragazzo nel suo itinerario formativo, poiché talvolta può distruggere invece to­talmente le sue già scarse sicurezze, sconvolgendogli la vita. E per questo ha consentito al figlio sedicenne di rifiutare, e quindi mettere nel nulla, il riconoscimento tardivo e ha imposto al giudice - quando il ragazzo sia infrasedicenne e non vi sia il consenso del genitore che per primo ha riconosciuto il figlio - di valutare se dare valore giuridico al riconoscimento, se esso sia o no nell'interesse del ragazzo. E sempre per questo ha af­fermato che la ricerca della paternità sia possibile solo ove ciò corrisponda all'interesse, non meramente eco­nomico, del ragazzo.

 

5. Anche per il diritto al mantenimento della genitoria­lità diviene essenziale ricorrere al canone interpretativo dell'interesse del minore per valutare se il manteni­mento del rapporto sia utile o no allo sviluppo umano del soggetto in formazione. Il che vale ovviamente nel caso della separazione nei confronti del genitore non affidatario e, a maggior ragione, nel caso del genitore abusante sessualmente o gravemente maltrattante.

Non possiamo non riconoscere che vi sono casi della vita in cui il mantenimento di un rapporto tra il figlio e un genitore può essere, anziché positivo, di­sturbante e talvolta fortemente disturbante; in cui l'obbligo di mantenere rapporti puramente formali se­gna solo negativamente la vita del ragazzo; in cui la ri­presa di rapporti con genitori lungamente assenti e di­sinteressati e affettivamente aridi può suscitare solo aspettative presto deluse o imposizioni che divengono per il ragazzo inaccettabili.

Basta pensare ai casi, che la dottrina ha espressa­mente enucleati, della fobia di un figlio verso un geni­tore che si rifiuta e nei cui confronti scatta un atteggia­mento repulsivo conseguente spesso a un'«elaborazio­ne di un'angoscia abbandonica o per l'associazione di un genitore a situazioni ansiogene o spiacevoli»1; alla sindrome di alienazione genitoriale che si riscontra quando il comportamento di uno o più figli nel con­testo del conflitto intergenerazionale diviene ipercriti­co e denigratore nei confronti di uno dei genitori per­ché l'altro lo ha influenzato in questo senso, indottri­nandolo adeguatamente 2; al caso, nei maltrattanti e ne­gli abusi sessuali in famiglia, del terrore della vittima nei confronti del suo carnefice; al caso del ritorno im­provviso di un genitore a lungo assente e disinteressa­to del figlio che voglia riprendere i rapporti.

In molte di queste situazioni la giurisprudenza in­comincia ad affermare il principio che - nel caso di un eventuale conflitto tra diritto di visita dei genitori e in­teresse del minore a non mantenere rapporti per lui soggettivamente sgradevoli - debba prevalere il deside­rio del minore a non vedersi imporre coattivamente rapporti non solo per lui dolorosi ma sostanzialmente solo formali.

La giurisprudenza aveva da tempo riconosciuto la possibilità per il giudice di limitare, fino a sospendere totalmente, gli incontri con il genitore non affidatario nell'interesse del minore (Cass. 17 gennaio 1996, n. 364, in Fam edir, 1996, 227; Cass. 12 luglio 1994, n. 6548, in Dir. Fam e perso 1995, 129; Cass. 22 marzo 1993, n. 3363, in Dir. Fam e pers., 1994, 839). Aveva però anche affermato che la possibilità di intrattenere rapporti con il figlio potesse essere del tutto esclusa solo in presenza di gravi motivi «non strettamente de­sumibili e connessi ai pregressi comportamenti del ge­nitore stesso, ma riscontrabili ad esito di un'appro­fondita analisi dell'impatto psicologico esercitato sul minore dai singoli fatti che sono all' origine di gravi e comprovate ragioni d'incompatibilità dell'esercizio del diritto di visita con la salute psicofisica del minore» (Cass. 12 luglio 1984, n. 6548, in Dir. Fam e pers., 10995, 129).

Con la sentenza 15 gennaio 1998, n. 317, la possi­bilità di sospendere il diritto di visita (rectius il diritto di relazione significativa col figlio) viene a radicarsi es­senzialmente sulla volontà dal minore. La massima af­ferma: «Qualora un figlio, ormai adolescente, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione e di ripulsa e dia del proprio distacco affet­tivo e psicologico una motivazione seria e consapevo­le, può il giudice, nell'interesse poziore del figlio e allo scopo di evitargli seri e forse irreversibili pregiudizi, sospendere totalmente o a tempo indeterminato il di­ritto di visita del genitore dal figlio rifiutato, tanto più che l'imposizione coattiva di rapporti con il genitore stesso potrebbe sortire effetti controproducenti per entrambi dannosi (in Dir. Fam. Pers., 1998, p. 561).

 

1 Scanziani (1998), Il divorzio e /a fobia dei genitori, in <<MinoriGiuscizia», n. 1.

 

2 Gullotta, La Jindrome di alienazione genitoria/e, in «Pianeta Infanzia», n. 4.

 

Il parere della Commissione europea dei diritti dell’uomo

 

È questo un indirizzo giurisprudenziale che si va estendendo: la Commissione europea dei diritti del­l'uomo di Strasburgo (21 ottobre 1998) ha espressa­mente sancito che «anche se il genitore separato, di­vorziato o comunque non convivente più con il par­tner e non affidatario della prole ha il diritto / dovere di visitarla, di permanere con essa, di mantenere costanti rapporti parentali, l'esercizio di tale diritto/dovere può essere, anche a tempo indeterminato, sospeso qualora la prole, a prescindere dai meriti o dai demeriti del genitore non affidatario, manifesti nei confronti di quest'ultimo, anche in virtù dell'influenza esercitata da persone che la circondano, radicati, costanti sentimenti di rifiuto e di ripulsa, dovendo si riconoscere al diritto del minore alla serenità personale e familiare e all'inte­grale suo benessere psicologico poziorità assoluta (in Dir. Fam. Pers., 1999, p. 1003). E il Tribunale di Cata­nia, con la sentenza 6 dicembre 1995, ha affermato che il giudice non può prescindere dalla particolare si­tuazione psicologica del minore il cui rapporto con la genitrice sia talmente difficile e conflittuale, fino all' e­sasperazione, «da indurre il minore a rifiutare gli in­contri con la madre secondo modalità preordinate dal giudice e controllate dagli operatori sociali; allo scopo pertanto di evitare la radicalizzazione, forse irreversibi­le, di tale stato d'animo e di favorire anzi il recupero del rapporto parentale, nel rispetto della volontà del minore, va disposto che i suoi incontri con la madre avvengano, ma con le modalità prescelte solo dallo stesso minore» (in Dir. Fam e pers., 1998, p. 98). Lo stesso tribunale nel decreto del 17 aprile afferma che «il giudice deve tener conto della volontà della prole adolescente, per cui, qualora essa abbia dimostrato il rifiuto di incontrare il padre in giorni e in orari presta­biliti, allegando di non voler subire l'ossessionante, continuo recriminare paterno contro la madre, il giudi­ce non deve coartare la volontà della prole, ma deve disporre che gli incontri con il genitore non affidatario avvengano una volta al mese ma nel giorno liberamen­te scelto dalla prole stessa» (in Dir. Fam e pers., p. 104).

Un richiamo alla volontà del figlio nella determi­nazione dell'avere o no una frequentazione con un ge­nitore a lungo assente è contenuto anche in una sen­tenza della Corte d'appello di Roma del 27 febbraio 1995 (in Dir. Fam e pers., 1995, p. 1450).

Il richiamo alla volontà del minore, quando esso dimostri sufficiente maturità per esprimere una valuta­zione in qualche modo meditata e radicata, mi sembra assai significativo sia per valorizzare la personalità del minore e le sue serie aspettative, sia per non imporre con un regime di visite non gradite e causative di ansie e di turbamenti una nuova violenza a un bambino già troppo provato. Del resto, un regime di incontri coatti e sgraditi assicurerebbe un diritto di «visita» del genito­re, ma non quel «diritto a una relazione genitoriale si­gnificativa e costruttiva» che è l'unico diritto che in questi casi può essere considerato.

Ma è anche vero che il richiamo alla volontà del ragazzo può essere un richiamo in realtà ambiguo, perché non sempre è facile identificare quello che, al di là della volontà meramente verbalizzata, costituisce il reale sentire e volere del ragazzo. Quello che il ra­gazzo esprime può essere il riflesso di ciò che gli è sta­to imposto con un serrato «lavaggio del cervello»; può essere soltanto il cedere al ricatto affettivo del genitore affidatario e quindi al terrore di essere abbandonato anche da questo; può essere l'istintivo desiderio di pu­nire chi viene percepito come colui che ha rotto l'alleanza familiare e ha cagionato sofferenze; e così via di seguito.

Inoltre, teorizzare troppo il fatto che la decisione sul mantenimento dei rapporti genitoriali e sulle moda­lità in cui essi devono essere tenuti spetta esclusiva­mente al ragazzo, anche se adolescente, significa gra­varIo spesso di un peso insostenibile, causa di succes­sivi pesanti sensi di colpa.

Né sembra del tutto opportuna un'espropriazione del diritto/dovere del genitore di mantenere i suoi rapporti con figlio solo sulla base di una mera sogget­tiva posizione di quest'ultimo legata alla sua «manifesta avversione o ripulsa». Anche per il ragazzo devono es­serci accanto ai diritti anche i doveri, e un dovere è an­che quello di mantenere rapporti con genitori forse non perfetti ma comunque non dannosi.

È anche da rilevare come non possa compensare il genitore espropriato dal suo diritto alla relazione ge­nitoriale per colpa del genitore affidatario il fatto che il diritto gli riconosca un risarcimento dei danni morali e biologici di permanente e non trascurabile rilevanza ex artt. 1226, 2043, 2059 e 2727 del codice civile. Una sentenza ha sancito il diritto ai danni, nel caso in cui il coniuge genitore separato e affidatario impedisca co­stantemente, continuativamente e per lungo tempo, senza alcun vero adeguato motivo, di visitare la prole e di permanere con essa per inst~urare e mantenere il necessario e doveroso rapporto parentale (Trib. Roma, 13 giugno 2000, in Dir. Fam. Pers., 2001, 209).

Inoltre, le situazioni non restano sempre statiche, i conflitti possono - come l'esperienza dimostra - esse­re anche appianati, le incomprensioni possono essere superate, ed è anche vero che più relazioni si riescono a coltivare, specie con i propri genitori, più si è uma­namente arricchiti e sostenuti.

Una sospensione totale dei rapporti deve essere giustificata, mi sembra, da elementi oggettivi che ren­dano non solo non utile ma anche dannosa la relazio­ne.

 

6. In questi casi sorge il problema - che l'ordinamento non ha preso in considerazione forse perché ancora legato al mito del sangue che non può essere cancella­to giammai - se non è possibile eliminare, a tutela del ragazzo e del suo sereno itinerario maturativo, una geni­torialità che anziché essere utile risulti solo dannosa.

Il principio che la genitorialità carente può essere messa nel nulla è un principio che ormai è entrato nel nostro ordinamento attraverso la legge sull'adozione legittimante. Perché dovrebbe valere solo nel caso in cui entrambi i genitori o l'unico genitore conosciuto appaia inadeguato a sviluppare la sua funzione e non anche nei casi in cui uno solo dei genitori è pesante­mente negativo nella vita del ragazzo pur se rimane va­lido l'altro genitore?

Basta riferirsi, in particolare, ai casi di abuso ses­suale sul figlio, o di gravissimi maltrattamenti fisici, o di assoluto abbandono, o di gravi insufficienze legate a malattie mentali. Mi sembra che non sia sufficiente, in questi casi, la previsione di ablazione o di riduzione della potestà genitoriale, poiché un provvedimento giudiziario di questo tipo comporta la perdita dei pote­ri sul minore e per il minore la non permanenza di re­lazioni che possono continuare ad essere traumatiche e pericolose (per esempio, la decadenza dalla potestà non comporta il venir meno della coabitazione, a me­no che non vi sia un provvedimento di allontanamen­to del minore, ovvero, oggi, anche un provvedimento di allontanamento del genitore).

Non possiamo non riconoscere che in alcuni casi la presenza, anche solo saltuaria, di un genitore inca­pace di costituire un rapporto sicurizzante e struttu­rante col proprio figlio diviene causa di gravi disfun­zioni nell'itinerario formativo del minore, cagione di ansietà e incubi per il ragazzo, un elemento di soffe­renza e di confusione del soggetto in età evolutiva.

Non vorrei che l'affermazione del diritto del ra­gazzo al suo genitore, molto assolutizzata, finisca col nascondere e contrabbandare solo un diritto dell'a­dulto ad avere in proprio potere il figlio per esercitare su lui le proprie onnipotenze.

 

7. Il problema dei rapporti tra genitore e figlio sicura­mente si complica quando si delinea l'ipotesi di fami­glie ricostituite, sia nel caso di ricostituzione di un nuovo nucleo familiare di fatto, sia nel caso di un nuo­vo matrimonio del genitore.

Se la famiglia ricostituita è quella del genitore non affidatario, può essere difficile il periodico inserimento in essa di un ragazzo che si percepisce come estraneo al nuovo nucleo e che può sviluppare sensi di rivalsa nei confronti di chi ha assunto il ruolo di partner del genitore; se la famiglia che si ricostituisce è la famiglia del genitore affidatario, può avvenire che si instauri un solido legame affettivo con il nuovo partner del geni­tore affidatario che, svolgendo un ruolo di aiuto e gui­da continuo, assume di fatto funzioni genitoriali sosti­tutive di quelle che dovrebbero essere svolte dal geni­tore non affidatario.

Vi è il rischio infine, in questi casi, che le saltuarie frequentazioni con quest'ultimo siano percepite come insignificanti o anche fastidiose per un ragazzo costret­to a rinunciare ai suoi ordinari ritmi di vita e alle sue usuali frequentazioni amicali per incontri che spesso  gli appaiono un po' artefatti e comunque troppo ritua­li.

 

8. Particolarmente difficile è la situazione del bambino quando la comunità familiare che si disgrega è compo­sta da genitori appartenenti a nazioni diverse.

 

Genitori di diversa nazionalità

 

Un fenomeno che in Italia è in aumento per la massima mobilità delle persone e per l'ormai rilevante presenza di stranieri in modo quasi stabile sul nostro territorio. Se a seguito della disgregazione familiare uno dei genitori torna nel paese di origine, diviene e­stremamente complessa sul piano umano e sul piano giuridico la posizione dei figli. Il mantenimento della genitorialità è in questi casi piuttosto difficile, date le distanze, e non sono infrequenti i casi in cui il bambi­no che va a trovare all'estero il suo genitore viene poi trattenuto in quel paese, non venendo restituito al ge­nitore che risiede in Italia.

Né sono mancati casi non solo di trattenimento all'estero del bambino in visita - anche attraverso compiacenti forme di affidamento da parte dei giudici del paese in cui momentaneamente il bambino si tro­vava -, ma anche di veri e propri rapimenti coattivi dal nostro paese (anche con celamento dei figli in bauli per passare impunemente la dogana).

In questi casi non solo si viola il diritto del bam­bino ai suoi genitori (e il diritto dei genitori al figlio), ma si perpetra anche una grave violenza sul ragazzo segnandone l'esistenza: il bambino perde non solo il genitore affidatario cui è particolarmente legato, ma anche il suo ambiente di vita, la sua abituale cultura, i suoi amici, i suoi legami affettivi.

Ancora più difficili sono le situazioni in cui il pa­dre appartiene a un paese a religione mussulmana, do­ve è profondamente diverso dal nostro il modo di concepire il sistema familiare, perché né la donna né il figlio si vedono riconosciuti diritti di fronte all'assoluto predominio accordato all'uomo e al padre.

Sono stati attivati sul piano giuridico degli stru­menti per recuperare i minori illecitamente sottratti o illecitamente trattenuti: la Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 e la Convenzione del Lussemburgo del 20 maggio 1980 hanno cercato di porre un freno al­l'inconveniente.

Si deve però rilevare innanzi tutto che tali convenzioni non sono state ratificate da tutti i paesi (per e­sempio, mancano del tutto i paesi a legislazione mus­sulmana); poi, che nei paesi stranieri vi è stata spesso una difesa a oltranza del proprio connazionale da parte delle autorità straniere; infine, che non infrequente­mente l'avvio delle procedure può avvenire solo attra­verso un'obbligatoria assistenza legale dai costi spesso inavvicinabili.

Manca inoltre nelle Convenzioni la possibilità di intervento di un organismo supernazionale allo scopo di far rispettare i principi e le finalità della Convenzio­ne stessa nel caso in cui uno stato per difendere il suo cittadino non ottemperi alle prescrizioni patrizie. È ve­ro che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha cercato di superare questa grave carenza affermando, in una decisione di Strasburgo del 25 gennaio 2000, che l'omissione di uno stato di far rispettare un ordine di ritorno potrebbe costituire una violazione dell'art. 8 della Convenzione europea che contempla il diritto di ciascuno al rispetto della propria vita familiare: per la Corte, dunque, l'art. 8 contempla da un lato il diritto per i genitori di avere contatti con i propri figli, dal­l'altro l'obbligo per le autorità statali di assumere posi­tivi provvedimenti a tal fine.

È un passo avanti, ma solo un piccolo passo, per­ché l'unica sanzione ipotizzabile per lo stato inadem­piente è quella della condanna al risarcimento dei dan­ni morali per il genitore ricorrente: la tutela del minore è così del tutto vanificata.

È anche da aggiungere che, secondo la responsa­bile dell'autorità italiana prevista per le Convenzioni (Ufficio minori del Ministero della Giustizia) le princi­pali cause di non attuazione piena della Convenzione sono nella difficoltà di localizzare i minori per carenza di risorse e infrastrutture; nell'eccessiva durata dei casi; nella non coercibilità degli ordini di rientro; nell'ampio riconoscimento dell'eccezione al rientro consistente nel rifiuto del minore, ovvero nella richiesta per il ge­nitore di condizioni per il rientro (spese di viaggio, per esempio).

 

9. Un ultimo problema riguarda i rapporti di un bam­bino con i suoi ,parenti, e in particolare con la famiglia del genitore a cui il bambino non è affidato. Questo tanto nel caso di separazione tra coniugi, quanto nel caso di allontanamento da un genitore per altri motivi (abuso, maltrattamento, malattia mentale ecc.).

È innanzitutto da sottolineare come il nostro or­dinamento - recependo la distinzione sociologica tra famiglia allargata e famiglia nucleare e l'attuale prefe­renza espressa dal costume a quest'ultimo modello familiare - sembra effettuare una netta distinzione tra «famiglia coniugale», su cui gravano non solo meri ob­blighi di tipo patrimoniale ma anche significativi ob­blighi relazionali e di solidarietà integrativa, e «famiglia parentale», o meglio «parentela», da cui discendono so­lo eventualmente, e in via sostanzialmente indiretta, si­gnificativi obblighi giuridici anche di natura personale.

Non è senza significato, per esempio, che la Corte Costituzionale abbia ripetutamente affermato, mutan­do la sua precedente giurisprudenza (Cort. Costo 5 lu­glio 1960, n. 54), che la famiglia legittima alla quale fa riferimento l'art. 30, comma 3, della Costituzione non è quella estesa, comprensiva degli ascendenti e dei col­laterali, ma solo quella nucleare composta dal coniuge e dai figli legittimi (Cort. Costo 14 aprile 1969, n. 79; 30 aprile 1973, n. 50; 27 marzo 1974, n. 82; 4 luglio 1979, I n.55).

Di conseguenza, l'ordinamento relega le figure pa- ! rentali, nell'ambito dei rapporti intergenerazionali, in i ruoli e funzioni di mera supplenza, non privilegiando in alcun modo la relazione personale: è significativo notare come, anche nell'ambito della famiglia legittima, l'ascendente è tenuto esclusivamente a corrispondere gli alimenti, e non incombe su lui alcun obbligo di mantenere e istruire i nipoti, ma solo quello di fornire ai genitori i mezzi necessari perché essi possano prov­vedere all'espletamento dei compiti che sono solo loro(art. 148 del codice civile). Come è assai significativo che l'ordinamento non preveda in alcun modo un di­ritto degli ascendenti a mantenere significativi rapporti relazionali con i propri nipoti.

È anche da segnalare che la giurisprudenza ha e­spressamente affermato che non incombe ai nonni l'obbligo di mantenere, istruire ed educare il nipote, ma solo un obbligo di alimentare e di fornire ai figli i mezzi necessari per l'allevo dei nipoti (C.A. Sez. Min. Bologna, 27 febbraio 1985, in Giur. it., 1986, I, 282).

Ed è significativo che, nell'ambito della filiazione naturale, si considerino estranei a ogni rapporto gli a­scendenti naturali prossimi - e i discendenti -, pur fa­cendo derivare dal fatto naturalistico obblighi e diritti sul piano patrimoniale.

Del tutto contraddittoria - nei confronti di questo preciso orientamento - appare invece la posizione dell'ordinamento nel campo dell'adozione, in cui, non si comprende perché, il diritto improvvisamente risco­pre e valorizza la famiglia allargata. È del tutto anacro­nistico che l'ordinamento - dopo aver ritenuto giuridi­camente non rilevanti le relazioni parentali nell'ambito dell'ordinaria vita familiare (con l'unica eccezione del piano patrimoniale) - riscopra la famiglia allargata non tanto per garantire maggiormente i diritti del minore, quanto piuttosto per tutelare fino allo stremo i vincoli

di sangue ed evitare la definitiva fuoriuscita di un

membro dalla rivalorizzata «grande famiglia». La legge sull'adozione, infatti, finisce con l'essere fortemente radicata sul riconoscimento e sulla tutela delle più am­pie relazioni parentali che in tutti gli altri campi del di­ritto sono considerate per lo più irrilevanti, e su un ri­scoperto spirito di solidarietà familiare, anche tra pa­renti, che, al di fuori della situazione abbandonica, non trova alcun giuridico riconoscimento.

Questa posizione francamente schizofrenica del­l'ordinamento si riverbera anche nella posizione che il diritto assume nel caso di disfacimento dell'unità fami­liare e conseguentemente di allontanamento del figlio da un genitore, che comporta spesso anche l'allonta­ namento del bambinola dall'ambiente familiare del ge­nitore non affidatario.

Se esplode la conflittualità genitoriale sul figlio, non è infrequente che i parenti dell'uno o dell'altro coniuge si schierino a difesa del loro congiunto, e che questo determini una forte difficoltà di mantenimento di sereni e continuativi rapporti; e non è neppure in­frequente che il genitore affidatario tenda a rarefare i rapporti del proprio figlio con i parenti del proprio ex partner per punire in qualche modo il coniuge percepi­to come traditore: se non si possono impedire gli in­contri con lui, che almeno si impediscano gli incontri con la sua sfera familiare.

Ancora una volta chi è colpito da questa difficile situazione è il bambino, che vede svanire figure di rife­rimento a cui nella sua breve vita si era affezionato e che si vede invischiato in una faida tra due gruppi fa­miliari in forte contrapposizione.

Nell'assoluto silenzio dell'ordinamento, sul punto la giurisprudenza ha fatto qualche timido passo per re­golamentare la situazione.

Si è così innanzitutto riconosciuto, con qualche difficoltà e comunque solo partendo dall'interesse del minore, un diritto al mantenimento dei rapporti per­sonali tra nonni e nipoti. Pur riconoscendo che «l'ordinamento non attribuisce ai nonni alcun diritto da far valere in contrasto con i poteri spettanti ex pote­state ai genitori e alcun potere che non si esaurisca nel­la mera facoltà di far controllare giudizialmente il com­portamento genitoriale verso il nipote, al fine di evitare che i genitori arrechino pregiudizio, anche economico, al figlio» (Trib. Min. Roma, 8 settembre 1986, in Dir. Fam., 1987, 247), e che «non spetta ai nonni Ce agli altri parenti) un vero e proprio diritto soggettivo di visita nei riguardi del nipote, mancando nel sistema una norma esplicita che tale diritto direttamente preveda» (Trib. Min. Roma, 7 febbraio 1987, in Dir. Fam., 1987, 739), si è comunque affermato che il genitore non può, senza plausibili ragioni in relazione al preminente interesse del minore, vietargli ogni rapporto con i parenti più stretti, quali i nonni, «tenuto conto del po­tenziale danno a lui derivante dall' ostacolo a relazioru affettive che sono conformi ai principi etici del nostro ordinamento» (Cass., 24 febbraio 1981, n. 1115, in Dir. Fam., 1981, 697).

Credo che in sede interpretativa sarebbe necessa­rio riequilibrare le due posizioni e rovesciare una giuri­sprudenza che consente rapporti nonni-nipoti solo se la privazione produce danno, mentre bisognerebbe partire dall'ipotesi contraria: che il mantenimento di significative relazioni affettive anche con i nonni costi­tuisce sempre una positività per il ragazzo, e che per­tanto tali relazioni possano essere escluse solo quando effettivamente si risolvano in un danno per il minore.


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