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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Parole con l'HI Progetti
"Parole con l'H"
Il progetto dell'Ufficio per l'abbattimento delle barriere linguistiche.
Estratti degli atti del convegno tenutosi a Roma il 31 marzo 2000.

"Io sono abituata a vedere, io conosco il mondo in una prospettiva che è la mia. Se fossi in piedi probabilmente non troverei normale, non essendovi abituata, guardare la gente negli occhi. Io so che, per guardarmi negli occhi, la gente si deve chinare: e che io devo alzare la testa. Se mi alzassi, il mio mondo perderebbe il suo senso, non sarebbe più il "mio", ma quello di altri che hanno deciso di farmelo vivere differentemente.
Sono molto felice, quindi, di essere quello che sono. Non per presunzione ma per la consapevolezza di aver conquistato quello che ho faticando, come tutti noi, senza però essere per questo assimilata a nessun altro". (Ileana Argentin)

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Il progetto dell'Ufficio per l'abbattimento delle barriere linguistiche.


Dalla convinzione che la discriminazione verso i disabili abbia inizio dalle parole con cui li si indica o ci si rivolge loro, è nata PAROLE CON L'H, un'idea che ha trovato forma in un convegno tenutosi a Roma il 31 marzo 2000 e che da oggi, in occasione della pubblicazione degli atti di quel convegno, è possibile apprezzare in questa area dedicata di Acca Comune.


Si ringrazia la Dott.ssa Francesca Dragotto per aver curato questa pagina.

     Con il nostro patrocinio     Torna all'inizio pagina

  Patrocinato dall'Ufficio, l'incontro, dopo i saluti degli ospiti dott. L.Amadio e prof. G.Bernardi, in rappresentanza, rispettivamente, della sede ospitante, la Fondazione Santa Lucia, e dell'Università di Roma 'Tor Vergata', alla quale afferisce buona parte degli studiosi intervenuti, ha preso concretamente avvio con l'intervento della stessa on. Ileana Argentin, assertrice convinta della necessità di superare la pietistica indulgenza ma anche la disinteressata compartecipazione che troppo spesso si percepiscono nei termini usati quotidianamente da chi ha necessità di riferirsi all'handicap: per l'appunto le PAROLE CON L'H.


Ileana Argentin"Questo era il nostro scopo: ricostruire un percorso culturale fatto di termini che ruotano intorno al mondo della disabilità, barriere culturali forse più problematiche delle stesse barriere architettoniche.
Naturalmente quando si parla di disabilità si parla sempre di barriere architettoniche, di problemi di accessibilità di trasporto, dei problemi di assistenza: problemi veri, reali, concreti, immediati, ai quali manca - e si deve dare - una risposta.

 
Si trascura, però, spesso, di fare sensibilizzazione, forse proprio perchè è più facile chiedere ulteriori spazi piuttosto che affrontare a viso aperto quel disagio che le famiglie, gli operatori, conoscono bene. E che tutti, comunque, a cominciare dai politici, dovremmo affrontare. E' per questo, allora, che abbiamo avuto la presunzione, ma anche l'umiltà, di fare un convegno in cui si facesse cultura su questo mondo. Un mondo che è visto da molti come una minoranza da rispettare, ma le cui possibilità di arricchimento per la società intera sono sottostimate quando non ignorate. Quindi qui non si rivendica assolutamente un principio di uguaglianza, ma un principio di pari opportunità. Non vogliamo dire, come al solito, laconicamente, siamo tutti uguali. Anzi, siamo profondamente contrari a questo. Quello che rivendichiamo è che le persone con disabilità, con handicap, o comunque potremmo dire - non ne usciremmo più se cominciassimo ad analizzare la varietà delle definizioni - non sono persone effettivamente uguali agli altri.
Ogni persona si differenzia dalle altre. Ci sono persone alte, persone basse, persone grasse, magre, belle, brutte, handicappate e non handicappate: il fatto, allora, che le persone dicano che invece siamo tutti uguali significa livellare, significa togliere quel minimo o quel massimo di capacità che una persona ha. Quindi non uguaglianza, ripeto, ma pari opportunità rispetto ai diritti".
Facendo nella vita il politico è chiaro che potrei sembrare fare demagogia fine a se stessa su questi argomenti, ma sostengo e credo fermamente in quel che dico: credo, quindi, nella necessità di parlare delle parole che concernono l'handicap per superare questa barriera culturale. Credetemi, la disabilità o il disagio non è poi così allucinante o lontano da ognuno di noi; è soltanto un mondo che non si conosce e che, senza voler fare psicologia spicciola, senz'altro ci terrorizza. O al quale necessariamente ci si avvicina per dare solidarietà. Quando invece, per come la vedo io, è soltanto un mondo come tanti altri in cui non à necessario svendere solidarietà ma neppure negatività. La terminologia - senza fare il lavoro di nessun altro qui - il problema delle parole, costituisce un ulteriore limite per la persona con limiti. Pensiamo alla parola disabile 'non abile' a cosa?

Handicappato. L'handicap lo portiamo noi o lo troviamo all'esterno? Se io esco per la strada sono handicappata perché trovo lo scalino ma ciò non significa che porto dietro a me un bagaglio di handicap. E' la società esterna che non riconosce i miei limiti: anche, in fondo, giustamente poichè, e questo va detto, è comunque nel rispetto di una maggioranza di persone che nascono le cose. E pur essendo vero che la civiltà è data dal rispetto delle minoranze, risulta lampante che il mondo gira intorno ai grandi e non ai piccoli numeri. Corro un rischio, ma sono pronta a farlo, allora, quando dico che, è vero, i disabili non sono l'intero mondo e che l'intero mondo non deve, non può girare intorno a questi. Ma sono ancor più pronta a difendere la legittimità del loro spazio, non nel senso di rivendicazione ostentata del disagio, ma in quello di una rivendicazione equilibrata, giustamente finalizzata alla richiesta di non essere ulteriormente penalizzati da una scorretta terminologia.

Una piena sintonia sussiste, poi, tra queste osservazioni di carattere culturale e le vicende, più specifiche, del lessico, dal quale proviene un calzante parallelismo del fatto che "a determinare la diversità non è tanto la condizione oggettiva, quanto piuttosto la considerazione soggettiva e le barriere, non solo architettoniche, ma soprattutto pregiudiziali degli altri".

Parole, queste, del moderatore dell'incontro, il linguista prof. P.Poccetti, che nell'intervento di apertura dei lavori spiega anche la scelta del titolo dell'incontro.



Paolo Poccetti, linguista"A differenza di altri segni alfabetici, alla lettera H non corrisponde nella lingua italiana alcun suono, Più tecnicamente l'acca in italiano - diversamente da altre lingue - non è che un grafema, il quale non solo non rappresenta nessun fonema, cioè un suono funzionale alla lingua, ma neppure una variante. In altre parole, l'acca è il segno che si scrive per convenzione, dovuta o a ragioni etimologiche (legata, cioè, all'origine delle parole che la recano) o a pura vezzosità, ma non si pronuncia: rappresenta, dunque, il silenzio.
Le parole inizianti con H, con la sola eccezione delle III persone dell'indicativo presente del verbo avere, tradiscono la loro origine straniera, per lo più da lingue dove il segno indica un suono che è fonologicamente pertinente e che, invece, una volta che la parola è trasposta in italiano, si ammutolisce nelle pronunce meno accurate.

Le parole con H iniziale, conservando la veste ortografica alloglotta, segnalano immediatamente la loro estraneità al lessico italiano e diventano fin dall'inizio una spia di ciò che è diverso. Ovviamente diverso significa solo differente, ma non "estraneo", perchè una parola non è diversa di per sè, ma sono gli utenti della lingua a sentirla "diversa" e a renderla uguale alle altre, facendone parte integrante della varietà delle componenti del lessico. Per queste considerazioni il titolo Parole con l'acca è stato molto appropriatamente e, al tempo stesso, piacevolmente scelto dagli organizzatori di un convegno multidisciplinare sulla tematica dell'handicap, parola anch'essa appunto iniziante con l'acca.
Nel suo campo semantico, handicap è la parola con l'acca per eccellenza, è l'arcilessema con cui si designano le molteplici condizioni di disagio nelle quali una persona può, per infiniti motivi e circostanze, trovarsi nella vita e che lo rendono ad un certo punto diverso dagli altri. Tuttavia - e qui viene il calzante parallelo con le vicende del lessico - a determinare la diversità non è tanto la condizione oggettiva, quanto piuttosto la considerazione soggettiva e le barriere, non solo architettoniche, ma soprattutto pregiudiziali degli altri. Handicap è una parola ormai acclimatata ed integrata nel lessico italiano a tal punto che il suo derivato andicappato si può scrivere anche senza l'acca, come sanciscono illustri dizionari, creando così una dissolvenza attraverso la lettera iniziale tra ciò che c'è e ciò che non c'è. D'altra parte, come handicap è un eufemismo per indicare una condizione disabilitante e dolorosa (talvolta meno sul piano fisico che su quello psichico), anche l'espressione parole con l'H per trattare la tematica che vi è sottesa è a sua volta un eufemismo. Insomma un eufemismo dietro un altro eufemismo...Se vi può essere una vera rivoluzione nel trattare la tematica dell'handicap, questa non può che partire dalla lingua, perchè - per riformulare il detto di Protagora - "la lingua è la misura di tutte le cose, di quelle che sono, in quanto sono, e di quelle che non sono, in quanto non sono".


Quello della lingua è, pertanto, il terreno sul quale si consuma l'incontro tra le esperienze provenienti da molteplici discipline, accomunate, tutte - dall'etimologia, all'onomasiologia, all'onomastica, ai rapporti interlinguistici, ai testi letterari - dalla convinzione che si possa parlare di handicap senza falsi pudori, purchè si faccia un uso più consapevole dei termini.


"Tale taglio, oltre a rappresentare una novità nell'affrontare un argomento di questo tenore, che non di rado tocca la lingua solo per far vibrare le corde della retorica, è forse proprio l'approccio più corretto. Se vi può essere una vera rivoluzione nel trattare la tematica dell'handicap, questa non può che partire dalla lingua" (P. Poccetti).

     I relatori e gli argomenti degli interventi.      Torna all'inizio pagina

  E' il sottotitolo stesso proposto per l'incontro a chiarire le modalità che hanno guidato la scelta degli studiosi convenuti per discutere, ciascuno ricco dell'esperienza del proprio ambito: un modo nuovo per parlare di disabilità non è, infatti, il solo sottotitolo dell'odierno incontro. E', innanzi tutto, l'intento che ha animato i partecipanti.


L'idea di parlare delle parole con l'H, quelle con cui in genere si designano individui colpiti da deficit psichici, fisici o sensoriali è il leit motiv sotteso alla discussione. Disarticolatasi in primis come analisi contrastiva tra la linguistica, che fa della parola il proprio vessillo, e tutte le altre discipline (qui rappresentate da diritto, musica, psicologia, letteratura) e, contemporaneamente, come confronto tra i possibili approcci che la linguistica già da sola può fornire.


E' in quest'ottica che si sono succedute etimologia, onomastica e paremiologia. Ovvero il significato originale unitamente alla storia della parola; lo studio dei nomi propri e del loro processo di formazione; i proverbi, stilla di presunta saggezza popolare o più semplicisticamente cristallizzazione della vox populi. Il taglio degli interventi - possibilmente così accattivante da stimolare la curiosità dell'uditorio - è stato calibrato in modo da consentire la fruizione a qualsiasi livello. Il numero dei relatori, quindi delle discipline presenti, contenuto per poter alimentare il dibattito tra gli studiosi e il pubblico in sala, pur nel rispetto della pluralità dei punti di vista.


Trasmettere la convinzione che senza falsi pudori si possa parlare di handicap, usandone i termini in modo più consapevole, è stata la speranza degli organizzatori.

     Nomi propri con l'acca: l'onomastica specchio della diversità     Torna all'inizio pagina

Enzo Caffarelli, onomasta  I nomi non sono semplici etichette. Tutti noi possediamo almeno un nome e un cognome, talvolta un doppio nome e un doppio cognome e uno o più soprannomi che ci sono stati imposti in tempi diversi... Tutti questi nomi sono pieni di informazioni storiche, culturali, linguistiche, sociali che forse neppure immaginiamo. Il nome di battesimo ci dice...l'età che grosso modo ha quella persona nata in un dato luogo e proveniente da un determinato ceto sociale... Il cognome ci parla invece di un avo che portava un nome o un soprannome o praticava un mestiere o rivestiva una carica pubblica o proveniva da una certa località: e quel nome o soprannome, attraverso processi complicati e differenti secondo il tempo e il luogo, si è poi fissato, cristallizzato, in un cognome.


Nel nostro nome non c'è il futuro, non c'è il destino come vorrebbero i cartomanti dell'onomanzia (che sta all'onomastica come l'astrologia sta all'astronomia); c'è invece un po' di presente: come conviviamo con il nostro nome e cognome, specie se sono troppo comuni o troppo rari, o se corrispondono a parole della lingua italiana imbarazzanti, ridicole, vergognose. E c'è soprattutto il nostro passato. Molti cognomi derivano da soprannomi e come i soprannomi riferiti all'aspetto fisico, al comportamento abituale o ad un'azione particolare del soprannominato, tendono a coglierne l'aspetto più appariscente, dunque il più originale. Non raccontano la normalità, come avviene al contrario per i nomi derivanti da mestieri e professioni, ma fissano la diversità. Una diversità che acquista moltissime forme, talvolta impensabili, e non riconoscibili se tramite un'intervista diretta.
Diversità, dunque, in opposizione a una presunta normalità, o per meglio, dire, la denominazione attiva della minoranza a fronte di una maggioranza onomasticamente silenziosa. Ed è proprio per questo motivo che l'onomastica italiana è piena di signori Grassi, Grossi, Bassi, Corti, Lunghi, Sordi, Muti, Nani, Brutti, Guerci, Malfatti, Piccoli, Gobbi, Zoppi, Malvestiti, e presenta, con frequenze molto basse anche i cognomi Deboli, Viscidi, Sciancati, Minorati, Dementi, Invalidi, Storpi, Curvi, Malati, Pesanti, nonché Gambarotta, Brazzorotto, Testasecca, Testaverde e la lista potrebbe a lungo continuare.
Forme di questo genere non sono tipiche o esclusive solo di alcune zone d'Italia. Vediamo a mo' di esempio i cognomi che risalgono a un soprannome allusivo alla cecità (di uno o entrambi gli occhi, o allo strabismo): Borgna e derivati (dal francese borgne 'orbo') sono cognomi soprattutto piemontesi e liguri; Cecati e Cecato risultano l'uno romano e marchigiano, l'altro agrigentino, con Cecatiello casertano e napoletano; Orbi è cognome di Assisi; Occhiochiuso è foggiano, Occhionero di tutta l'Italia meridionale peninsulare; ma la serie più prolifica è quella con base guercio: ecco il cognome Guerci in tutto il Nord, Guercia solo alle falde del Vesuvio, Guercetti a Zelo Buon Persico, comune del Lodigiano, Guercini in Toscana, Guercio nel Siracusano e nel Palermitano, Gerciolini nel Grossetano, Guercioni in provincia di Teramo, Guerciotti nel Pavese, Guercitelli a Poggiomarino (Napoli), Del Guercio in Irpinia; e poi Guerzi a Ferrara, Guerzo nel Piemonte settentrionale, Guerzoni a Modena e a Bologna; Sguerzi in provincia di Venezia, Sguerzo nel Bresciano, Sguerzoni intorno a Verona. Un altro esempio può riguardare quella deformazione che in genere chiamiamo gobba. Ecco il diffusissimo cognome Gobbi nel Nord ma anche in Toscana e nelle Marche; Gobbo è invece forma veneta e lombarda, e Gobbis soprattutto triestina; Gobbetti si trova nel Veronese e in Alto Adige; Gobbetto soprattutto nel Trevigiano; Gobbin invece nel Padovano; Gobbini tanto in Lombardia quanto a Foligno, nel Perugino, mentre Gobbino è piuttosto ternano; Gobello è di Sezzadìo nell'Alessandrino, Gobet dela Venezia Giulia, Gobetti soprattutto lombardo....


La lista di questo tipo di soprannomi potrebbe allungarsi a dismisura.

     Disabilità riflessa: la letteraratura     Torna all'inizio pagina

Andrea Gareffi,storico della letteratura italiana  Di fronte al dolore del mondo che cosa fare se non condividerlo? Mi è sembrato così di dover andare a cercare dentro qualche libro una via d'accesso, sperando di trovare aiuto per radicalizzare la tensione, per cercare il rispecchiamento di un contagio che già c'è comunque. Perchè siamo tutti malati, e lo siamo ancor di più quando non lo sappiamo...Ed è allora che ritornano utili i libri con il loro corteggio di immagini, specialmente i libri dove regna la sofferenza.


John Baely ha scritto uno di questi libri, dedicato agli ultimi anni di vita di sua moglie. Una donna che è un personaggio straordinario: Iris Murdock...una delle più illustri allieve di Ludwig Wittgenstein. Ha insegnato filosofia per quindici anni, poi si è allontanata dall'insegnamento per proseguire nella sua ricerca di studio, ma anche di scrittura. Ed è diventata quella scrittrice che tutti conoscono. Questo è quello che è facile dire di lei. Quello che è molto meno facile è seguirla nei suoi ultimi anni, quando era ormai irraggiungibile, completamente ghermita dalle ombre, eppure ancora viva. La splendida e così luminosa mente di Iris è stata incenerita dal morbo di Alzheimer. Una malattia crudele e beffarda che a un certo punto costringe quasi a dubitare che aldilà di una labile, ma ostinata, parvenza di vita non ci sia più nessuna fiammella, che non ci sia più nessuna possibilità, nè di parlare nè di ricevere una qualsiasi risposta. Ed ecco il problema toccante di questo libro, biografia diario ricordo, disperato tentativo di capire come mai e per che vie l'intelligenza più luminosa si vada scialbando inarrestabilmente. La questione fondamentale di questo libro? Cercare di capire se c'è ancora una comunicazione possibile aldilà di quelle nebbie. Se c'è ancora una storia che raccolga in qualche modo quella persona che è ancora viva, ma che non ha più nessuna possibilità di comunicare. E mi pareva giusto, per entrare dentro l'orrore, incominciare da qui, dalla fine. Incominciare un ragionamento proprio da dove la ragione si spegne. Un monito, una professione di smarrita umiltà. E la pretesa che la pietà possa parlare, almeno lei. Pensavo anche a un libro del 1996, che ebbe una sua breve fortuna. Un romanzo di un giovane scrittore alla sua seconda prova...E' il libro di Rocco Carbone che s'intitola Il comando. Qui diverse storie s'intersecano, ma una è quella che ancora una volta tocca la punta. Ora non è più una biografia di qualcuno che attraversa lentamente il varco, non è una conoscenza diretta: è un tentativo dell'immaginazione di spingersi verso ciò che gli uomini non si aspettano nè immaginano. Il tentativo di condividere l'incenerimento, di rappresentarlo: un modo insomma di prepararsi. E la punta è questa: un professore, il cui nome per un rovesciamento della nemesi è Logoteta. sta per venire incenerito dall'Alzheimer. E il problema è ancora una volta, che cosa succede quando una mente brillante e raffinata conosce e patisce il proprio sbriciolamento? Il professore, maestro di logos, adesso sta per perderlo, il logos. Anzi, è già partito verso uno sprofondamento da cui non ci sarà presto più nessuna possibilità di mandare notizie. Un viaggio verso questo buio, questo buio feroce. La solitudine di chi muore, di chi soffre. La difficoltà, e poi l'impossibilità, di trovare un senso e di condividerlo...

 

Per capire le cose difficili che ci fanno orrore non è forse necessario uno straordinario esercizio intellettuale, serve piuttosto il coraggio di saper resistere alla paura. Il coraggio di non risolvere ciò che non si risolve in una parafrasi ottimistica di qualcuna delle molte formule rasserenanti. In fondo il buon uso della vita sta proprio in quella coscienza della differenza tra il bene e il male: saperli distinguere mentre continuano intransigentemente a confondersi. L'importante è dunque non credere di stare bene, perchè questo significa dimenticarsi del male. E dimenticarsi del male non è l'agognato privilegio a cui aspira nobilmente ciascuno, è semmai prolungare una vita senza significato. Orgoglio e stupidità, una lapide sontuosa che ricopre l'euforia dello spreco, un'occasione perduta. Se la malattia si può e si deve inscrivere in un contesto più ampio, non saranno inutili e soltanto perfidi quei sintomi, quei limiti, quegli insulti che caratterizzano la malattia. Anche i martiri cristiani muoiono ciascuno con la sua propria morte...


Morenti, malati, martiri, mistici. Parole con la M, eppure non tanto lontane da quella con l'H che ci ha riuniti oggi. Se solo potessimo riunirci ancor di più, spinti in questo dallo sforzo di resistere ad un'altra parola con la M, quella di male, non sbagleremmo di certo. I saggi hanno sempre insegnato che il male divide, che la civiltà organizza le sue sacche di resistenza quando gli uomini si uniscono. Rovesciare la forza del male non è forse soltanto sperare di guarire, ma restare insieme. E sentire il male in noi, e sentire che la sua violenza è proiettata verso la divisione. E nonostante tutto, riunirci gli uni accanto agli altri. Riunire gli animi e scoprire le divisioni che oppongono il bene al male, invece di dividerci e lasciare che il bene e il male, la salute e la malattia, la vita e la morte, continuino a confondere il loro profilo. Distinguere il genere e riunire la specie. Proclamare l'unità sulla divisione. Che è poi quello che sanno fare i buoni libri quando raccontano la storia che ci racconta. Dentro questa nostra storia non siamo più soli, perchè lì finalmente la nostra anima entra nell'anima del mondo. Là dove Iris e Harold incontrano il grande Simeone e ciascuno di loro, come i martiri e i mistici, si affida alla memoria che custodisce misteriosamente oltre la soglia della vita. E' la grande lezione della letteratura. E ancor di più di quella letteratura che non volle legarsi a nessuna confessione di fede: La ginestra di Leopardi, I sepolcri di Foscolo. Perchè la letteratura è il luogo dove il dolore diventa il dolore del mondo, ossia dove il mondo di là approda in quello di qua.

     Curiosità etimologiche     Torna all'inizio pagina

Francesca Dragotto, glottologa  Esistono due distinti, ma interrelati, modelli di ricerca etimologica che, rispettivamente, muovono verso la ricostruzione della radice, del suo significato originario, (sorta di iniziale stato di purezza prima della contaminazione inevitabile laddove un segno venga immesso in una storia linguistica) oppure verso il susseguirsi delle testimonianze, delle manifestazioni fenomeniche della parola nel corso del tempo.


Esemplificativo è il lemma deficiente, proveniente nel senso dell'histoire de la racine proviene da una radice lat. deficio composto di facio dal valore di 'venir meno, mancare', ma, dopo una trafila semantica incentrata sul non completo possesso di facoltà intellettuali, diventato a tutti gli effetti sinonimo di scemo, cretino.


La sorte di deficiente è però esemplificativa del destino che sembra accomunare tra loro non solo tutte le parole di questo lessico, ma anche il lessico, inteso nella sua globalità, con tutti gli altri repertori terminologici usualmente colpiti da interdizione. Un repentino tramutarsi in termini ingiuriosi, comunemente usati per offendere. Oggetto di studio non dei soli linguisti, ma anche degli antropologi, l'interdizione, può essere definita come "la coazione a non parlare di una data cosa o ad accennarvi con termini che ne suggeriscano l'idea pur senza indicarla direttamente" (N. Galli de' Paratesi). Evitare, per lo più mediante sostituzione, l'uso di certe parole è quanto costituisce un tabu linguistico, insieme di manifestazioni linguistiche di cui l'interdizione è la causa psicologica. Termini di sostituzione sono le espressioni cui si ricorre per sfuggire alle espressioni tabuizzate: correlati alla competenza del parlante, sono termini utilizzati in base ad un grado di complessità crescente, proporzionata alla forza dell'interdizione.


All'interno del lessico eufemistico, tutto caratterizzato da un'abbondante sinonimia determinata dalla ricerca di sempre nuove coperture, quella dei difetti fisici è da ritenersi una categoria piuttosto eterogenea. Spesso sfuggono i motivi per cui è scattata l'interdizione, collegata in parte ad una sorta di timore superstizioso (simile a quello provocato dalle malattie), in parte alla stessa forma di ripugnanza ingenerata dai vizi morali. Rispetto a difetti morali, i termini che indicano la non integrità delle facoltà psico- intellettuali sono soggetti ad un ricambio continuo, non sembrando sussistere una via d'uscita al loro degenerare in insulti. E' evidente che essendo lo studio della disabilità di pertinenza preminente della medicina, un cospicuo filone di parole con l'H sia costituito da termini scientifici. Ma l'azione esercitata dall'uso scommatico è stata così incisiva da impedire, a volte, perfino il riconoscimento dell'origine medica di alcuni elementi lessicali.


Basti pensare alla parola cretino, legata fin dalla sua origine ad una patologia diffusa presso alcune vallate alpine dove frequenti erano "gravi disturbi della tiroide dovuti a carenze alimentari, per i quali i pazienti assumevano l'aspetto di poveri cristi". L'etimologia rimanda al francese crétin (1750) cristiano ma anche, al di là del significato religioso, essere umano, proprio come il termine italiano corrispondente. Cretino era insomma un individuo affetto da cretinismo (dal fr. Crétinisme, 1748), il cui aspetto era quello di 'persone mutole, insensate, e con gran gozzo'. Insomma, cretino è sinonimo di gozzuto aggettivo e sostantivo denotante "chi è afflitto dal gozzo. E anche, per l'aspetto che deriva dal male, sciocco". Povero cristo o povero cristiano ovvero povero cretino erano probabilmente le esclamazioni compassionevoli alludenti ad un malato di tiroide.


E del destino di cretino non doveva certo sospettare il detto del Vallese "fortunata quella casa che ha un cretino" (forse per assimilazione del gozzo ad una gobba, ritenuta portatrice di fortuna, elemento su cui varrebbe la pena di indagare).

     I proverbi con l'acca     Torna all'inizio pagina

Antonio Filippin, linguista  Di fronte alla sconfinata messe di dati che sono forniti dai sempre più ampi repertori, il presente contributo non può neppur lontanamente ambire ad una esaustività dell'argomento proposto; tuttavia, si è cercato, attraverso l'esemplificazione proposta, di rilevare come anche all'interno del corpus di proverbi relativi a quanto viene percepito come imperfezione fisica, ed in particolare alla cecità, si attui una dinamica piuttosto articolata tra la loro pretesa universalità da un lato ed i singoli contesti storico-culturali di formazione e produzione dall'altro.
I proverbi che, al fine di realizzare attraverso metafora ed analogia una nuova conoscenza o consapevolezza del reale, si servono del mitema del cieco, del sordo ecc. paiono essere caratterizzati da marcata coesione tematica e ripetitività situazionale in aree tra loro assai distanti. Al tipo dell'italiano Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere corrispondono l'inglese There's none so blind as those who will not see, il romeno Nu e mai orb decât cel ce nu vrea sa vada e altre 26 attestazioni che presentano identica struttura tra Europa (specialmente orientale), Asia ed Africa. Analogamente, l'italiano non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire è lo stesso di ingl.
There's none so deaf as those who will not hear, rom. Nu e mai surd decât cel care nu vrea sa auda (anche - ca surdul ce se face ca nun aude) e di altri 37 proverbi, più o meno identici, diffusi, con maggior o minore densità, nelle stesse aree. Di fronte a ciò, non può non presentarsi la tentazione di considerare la ricorsività diffusa e formalmente piuttosto coerente di questi proverbi come segno dell'universalità del loro messaggio, e dunque della percezione del materiale culturale che sta alla base dell'analogia che vi conduce. In effetti, la corrispondenza tra un proverbio cinese ed uno latino non può facilmente essere spiegata ricorrendo a contatti diretti o mediati tra le due culture - ciò che potrebbe valere per un nucleo di diffusione limitata all'Europa...Ma anche quando le attestazioni di un proverbio si articolano in un'area geo-culturale chiaramente limitata, le cose non sono così semplici...Gli archetipi antropologici, per quanto universali possano essere, si articolano secondo figure caratteristiche di singole culture, nel cui ambito giocano fattori particolari ad esse esclusivamente correlati, prescindendo dalla considerazione dei quali si finisce per isolare ed affiancare elementi simili, operazione il cui significato è però limitato al livello descrittivo, dunque scarsamente significativo per l'interpretazione del/i fatto/i culturale/i cui essi appartengono.

     L'handicap dal punto i vista psicologico     Torna all'inizio pagina

Lina Di Lucente, psicologa  L'Organizzazione mondiale della Sanità definisce "l'handicap condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione, che limita la possibilità di ricoprire un ruolo considerato normale in base all'età, al sesso, ai fattori culturali e sociali tipici di una determinata persona Tenendo conto che il disabile è persona, in quanto tale è portatore di una dignità e di una sua originaltà, va valorizzata la sua individualità, e la sua diversità. I disabili non negano di aver problemi e difficoltà particolari in molti settori, rispetto ai normodotati, e neppure hanno la pretesa di conseguire un'uguaglianza che sarebbe a prescindere da ogni altra considerazione materialmente impossibile. Il problema è che diversità non deve significare inferiorità o peggio giustificare la negazione della pari dignità della parità dei diritti, della possibilità di contare sulle stesse opportunità personali e sociali che sono di tutti.


L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato, il 09/12/1975, la "Dichiarazione dei Diritti delle Persone Handicappate", proclamando con l'articolo 4 il diritto "ai trattamenti medico-psicologici e funzionali, ivi compresi gli apparecchi di protesi e ortesi; al riadattamento professionale, agli aiuti, ai consigli e agli altri servizi intesi a garantire la valorizzazione ottimale delle sue capacità e attitudini, ad accellerare il processo della sua integrazione o della sua reintegrazione sociale".
Gli obiettivi della riabilitazione possono essere anche indicati in accordo con quelli degli studi sugli invalidi sviluppati dalla Classificazione Internazionale di Deficit, Invalidità, Handicap, (ICDH) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, 1980, e dai modelli delle limitazioni funzionali di Nagi ( 1965). Il primo studio classifica invalidità nei termini di malattia, deficit, invalidità, e handicap, in cui la malattia è lo studio precedente la diagnosi e il processo patologico, il deficit è la perdita o l'anormalità di capacità fisiche o psicologiche, l'invalidità è una restrizione o la mancanza dell'abilità di una persona di svolgere un'attività nella vita quotidiana, e l'handicap è una conseguenza derivata dalla menomazione o dall'invalidità, che limitano o impediscono l'adempimento di un ruolo che è normale per quella persona. Nagi esalta la patologia, la menomazione, la limitazione funzionale e l'invalidità, dove la patologia è l'interruzione o l'interferenza dei normali processi o strutture fisiche; il deficit è la perdita o la anormalità delle funzioni anatomiche; la limitazione funzionale è la restrizione o la perdita della capacità di compiere un'azione o un'attività nella vita domestica o all'interno di un'autonomia considerata normale, e l'invalidità è l'inabilità o la limitazione nello svolgimento di attività socialmente definite e dei ruoli previsti in un contesto fisico o sociale.
TECNICHE D'INTERVENTO PSICOLOGICO NELLA TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE: ASSERTIVE TRAINING


L'assertività è uno stato di equilibrio e armonia interiori tra abilità sociali, emozioni e razionalità. E' un comportamento, uno stile di vita che non richiede cambiamenti di personalità, ma la scoperta del significato e del piacere di essere spontanei e naturali, attraverso il mutamento delle abitudini. Per il paziente paraplegico è utile apprendere la suddetta tecnica di intervento per facilitare la sua accettazione sociale. Egli, attraverso il training assertivo, impara a:


- riconoscere le emozioni (ansia, timore, irritazione, gioia e commozione). L'obiettivo è l'autonomia emotiva, il percepire e mozioni come un arricchimento della situazione senza quel coinvolgimento negativo, legato alla presenza di altre persone, che genera vergogna, imbarazzo, disagio, per timore di essere commiserati


- trasmettere emozioni e sentimenti attraverso molteplici strumenti comunicativi. Obiettivo è la libertà espressiva, padroneggiare le reazioni gestuali e mimiche, perché non siano alterate dall'ansia o dalla tensione.
- essere consapevole dei propri diritti. Obiettivo è il rispetto di se degli altri. Ciò richiede di identificare e valutare i propri diritti secondo il principio di reciprocità.


- apprezzare gli altri e se stessi anche nella propria condizione di disabile. Obiettivo è la stima di sè, la capacità di valorizzare gli aspetti positivi dell'esperienza traumatica, con una visione funzionale costruttiva del proprio ruolo sociale.

 
- autorealizzarsi con la consapevolezza di poter decidere della propria vita. Obiettivo è avere un'immagine positiva di se. Un'immagine positiva comporta maggiori capacità di autocontrollo e di intervento sulle situazioni, e, quindi, capacità di soluzione dei problemi. Questo consente di affrontare in modo positivo ansia e stress e di percepire le difficoltà non come occasioni negative e frustranti, ma come ostacoli da superare, nonostante il cambiamento dell'aspetto fisico.


(della versione scritta dell'intervento è, integralmente consultabile negli atti del Convegno, coautore il dott. Antonio Cerasa, Psicologo presso l'I.R.C.S.S S.Lucia- Roma)


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