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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Personalizzare l'integrazione. Un progetto educativo per l'handicap*
di Marisa Pavone
, Docente di pedagogia speciale, Università di Torino

 

Nessuna persona dovrebbe essere definita esclusivamente per sottrazione: non sa, non è in grado di fare, non può essere…; non è la carenza che dovrebbe contraddistinguere un profilo individuale; piuttosto, la capacità di sentire, di comunicare, di agire, di pensare, secondo la peculiare modalità personale

Dall'individuo alla persona

Nell'impianto culturale del progetto di riforma del sistema di educazione e di istruzione il riferimento alla "personalizzazione" è ricorrente e significativo. (..). Alla base del principio di personalizzazione sta la scommessa che la previsione di itinerari diversificati possa elevare la qualità della formazione  per tutti e per ciascuno, e possa contribuire a ridurre gli insuccessi, adeguando la proposta ai bisogni educativi dei singoli. Il modello paradigmatico che colloca il soggetto al centro dell'attenzione educativa – nel caso degli allievi disabili anche riabilitativa – trae ispirazione dall'attivismo pedagogico, sviluppatosi nei primi decenni del Novecento (…). Sono quanto mai rivelatrici, in proposito, alcune pagine scritte da Claparède nel 1920, nelle quali rivolge aspre critiche alla scuola tradizionale, e auspica una "scuola su misura" degli allievi:

Quando un sarto fa un vestito […] lo adatta alla corporatura del cliente e se questo è grosso e piccolo, non gli fa indossare un abito troppo stretto, col pretesto che ha la larghezza corrispondente, di regola, alla sua altezza. Il calzolaio che fa una scarpa comincia col tracciare su un foglio di carta il contorno

del piede che deve calzarla, e ne segna la particolarità ossia le deformazioni. Il cappellaio adatta i suoi copricapo ad un tempo alla forma e alle dimensioni dei crani… Al contrario l'insegnante veste, calza, incappella tutte le menti nello stesso modo. Egli ha solo roba fatta in serie, e i suoi scaffali non consentono la minima scelta: qualche numero di grandezza, è vero, ma sempre lo stesso modello! Così, fra gli alunni delle nostre scuole ne vediamo alcuni che annegano negli anfratti di un programma troppo immenso per le loro deboli aspirazioni e le loro capacità problematiche, ed incespicano ad ogni passo nelle falde sovrabbondanti di quella uniforme che essi non riescono a riempire, né fino alla cima, né fino al fondo – mentre altri sono soffocati da una disciplina troppo stringata che impedisce lo sviluppo normale della loro personalità intellettuale e morale, tanto che non possono permettersi un movimento senza fare saltare qualche bottone. Perché non si avrebbero per le menti i riguardi di cui si circondano il corpo, la testa, i piedi? […] Che fare perché le attitudini vengano rispettate e valorizzate per il maggior bene di chi le possiede? […] Come fare affinché ogni tipo individuale di intelligenza tragga dalla scuola il massimo di beneficio che si ha il diritto di pretendere? […] La scuola, fatta per la media, potrà mai tenere conto dei casi individuali? Non si può tuttavia avere una scuola per ciascun fanciullo! Eppure bisogna risolvere questo problema, ché, in definitiva, nelle nostre società, l'individuo è tutto. Nello stesso interesse della collettività, bisogna che l'individuo sia capace del maggior rendimento possibile (1)

 

(..) Ancora oggi, dopo oltre mezzo secolo - e soprattutto dopo che le istanze piuttosto elitarie dell'attivismo hanno ceduto il passo a teorizzazioni pedagogico-didattiche che hanno cercato nella razionalizzazione/sistematizzazione dei processi di istruzione la formula per qualificare i risultati scolastici per la generalità degli alunni - il concetto di istruzione individualizzata non è sostanzialmente cambiato. Gli esperti affermano che "l'istruzione individualizzata consiste essenzialmente nell'adattare i codici linguistici, i ritmi, le modalità di trasmissione culturale e la sequenza dei compiti dell'insegnamento alle capacità linguistiche, ai ritmi, alle modalità di apprendimento e ai prerequisiti cognitivi specifici dei diversi allievi" (2).

Il concetto di individualizzazione dell'insegnamento guarda al minore considerandolo sotto gli aspetti della singolarità e originalità: caratteristiche particolarmente accentuate nei soggetti portatori di minorazione, tanto da indurre i ricercatori a ipotizzare per loro un peculiare sviluppo eterocronico (3), che manifesta la coesistenza di aree ad alto e basso funzionamento, e pertanto è suscettibile di scarsi e saltuari riferimenti all'evoluzione normale. Fin dalle prime esperienze di inserimento nelle classi comuni, la specificità unica del profilo personale degli alunni disabili – al di là delle tipologie di deficit - ha richiamato istanze di differenziazione didattica, che si sono concretizzate nell'elaborazione del progetto educativo individualizzato integrato. Tuttavia, sulla base di una prassi inclusiva consolidata e illuminata da un considerevole e articolato rispecchiamento teorico, ci si è resi consapevoli che i percorsi di individualizzazione possono tramutarsi in itinerari di separazione. Anche entro un contesto di normalità, il piano educativo individualizzato può rappresentare un sofisticato dispositivo di isolamento, soprattutto se supportato da una serie di opzioni di sfondo a carattere segregazionista: ad esempio, un rapporto uno-uno stretto tra l'allievo e l'insegnante di sostegno, la rarefazione delle interazioni con i compagni e con gli insegnanti curricolari, l'utilizzo esclusivo di laboratori o locali "dedicati". Con il tempo e l'esperienza è maturata la consapevolezza che l'evolvere della personalità del soggetto in difficoltà non può essere ripiegata sul deficit, né può essere appagata da interventi tecnico-riabilitativi totalizzanti. La categoria dell'individualità e il conseguente processo di individualizzazione educativa vanno declinati con un respiro più ampio, e ricompresi nella dimensione della persona e della personalizzazione. Il filosofo di ispirazione cristiana Maritain ricorda giustamente che la persona umana è un tutto, un universo a se stessa, ma è anche una parte del divenire della natura e della società; è una "essenza mista" (4). (..) L'individuale che ci distingue dagli altri e ci rivela al mondo con la nostra identità può anche presentarsi con il peso di un danno organico, psichico o intellettivo (..) Spiega Vico che "l'accostamento educativo della persona handicappata deve fondarsi e trovare le sue giustificazioni filosofiche ed educative in una antropologia che, pur prendendo nella dovuta considerazione l'esistenza (il fatto, l'hic et nunc, l'uomo in situazione) e la relazione (i rapporti, il problema-primato del Tu, le dinamiche relazionali), privilegi pur sempre un orientamento essenzialistco che […] comprenda e proceda oltre quel che soggiace al mero fenomeno per orientare la persona alla massima realizzazione di sé". L'handicappato accentua l'aspetto della diversità, in quanto la minorazione fisica, psicobiologica, sensoriale lo espone a presentarsi come soggetto diverso su questi piani; tuttavia questa diversità non intacca la sua dignità originaria e originale. Nel valore-persona si smorza la separazione tra normale e patologico e prende sempre più consistenza il significato della personalità individuale come manifestazione della persona nello spazio e nel tempo (5).

 

Modelli nella prassi educativa

 

Cominciamo con il riferimento classico alle origini della pedagogia speciale: la presa in carico educativa da parte del dottor Itard nei confronti del Selvaggio dell'Aveyron, negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento. Riprendiamo quanto ha scritto Moravia, circa il diverso atteggiamento che assunsero il famoso luminare Pinel – ancora oggi considerato padre della psicopatologia e della psichiatria moderna – e l'allora oscuro medico e suo allievo, nei confronti del ragazzo trovato nei boschi tra i lupi, che camminava a quattro zampe ed emetteva suoni gutturali ed inarticolati, più vicini al linguaggio animalesco che a quello degli uomini. Per lo scienziato materialista, il ragazzo era "oggetto" di scienza, una "cavia" da osservare, classificare e studiare da parte del ricercatore, che deve stendere la sua relazione scientifica; dopo di che si esaurisce l'interesse nei suoi confronti. Per Itard, il ragazzo era innanzitutto una persona con cui cercare di relazionarsi. Si sforzò in ogni modo di interpretare la sua vicenda concreta, cogliendone le caratteristiche proprie, e soprattutto le possibilità di sviluppo; diede un nome al selvaggio "Victor", riconoscendolo come appartenente alla specie umana; si impegnò a promuoverne l'educazione, per restituirlo alla società (6).

 

L'altro esempio appartiene alla esperienza scolastica dei giorni nostri, realizzata in una scuola dell'infanzia della provincia di Cuneo, da una insegnante di sostegno. Il caso descritto ha come protagonista un bambino di sette anni, ancora inserito nella scuola dell'infanzia perché considerato "gravissimo", affetto da una rara sindrome genetica (Trisomia 13), associata a ritardo intellettivo severo e a crisi epilettiche. Dice di lui la maestra: Quando ho conosciuto A. [indichiamo solo l'iniziale del nome, per evidenti ragioni di privacy, ndr.], dopo due anni di frequenza scolastica, trascorreva ancora il tempo prevalentemente dormendo; da sveglio, stava sul passeggino o a terra, ripiegato su se stesso, potendo vedere soltanto le sue ginocchia; si leccava di continuo la mano, procurandosi ferite al volto e alle dita per l'irritazione; la sua conoscenza del mondo sembrava passasse solo attraverso la lingua. Non comunicava. Aveva capacità di controllare unicamente parti del corpo e la testa. Quando era sulla carrozzina, riusciva a comandarla, facendola spostare per piccoli tratti. Mangiava in solitudine, in mezzo alla confusione di altre attività; lo imboccavano con un cucchiaino, dandogli solo cibi liquidi o frullati. La fisioterapista diceva che non aveva bisogno di terapie specifiche, bastava fargli dei massaggi per mantenere il tono muscolare. Mi dicevano che purtroppo non sarebbe vissuto a lungo. Nei primi tempi ero piuttosto preoccupata… tra l'altro era la mia prima esperienza di insegnamento. Ho cominciato ad osservare attentamente il suo comportamento: le diverse espressioni del viso - rabbia, soddisfazione, stupore - i suoi movimenti volontari; ho cercato di fargli capire che ero disponibile ad assecondarlo. Ho realizzato che lui mi comprendeva; ho iniziato a poco a poco a offrirgli cibi tritati, e ho scoperto che li gradiva. Ho ottenuto da lui che imparasse ad usare altre parti del corpo per esplorare l'ambiente, e non solo la lingua; sono riuscita a fargli togliere la mano di bocca. Abbiamo cominciato ad entrare in comunicazione: io capivo i suoi messaggi. Ci sono – gli dicevo – dobbiamo lavorare insieme; gli proponevo una molteplicità di esperienze sensoriali. Nel frattempo, ho cercato di trovare aiuti e collaborazioni nell'ambiente intorno a me. Ho ottenuto che la mamma mi aiutasse riproponendo a casa le cose che facevamo a scuola; ho cercato di farle capire che lei era una preziosa risorsa, e che la scuola era un luogo di cui fidarsi; che potevamo collaborare per suscitare miglioramenti nel figlio, che bisognava avere fiducia. Ho ottenuto che un'assistente sociale la aiutasse in casa, e che le venisse attribuito un educatore, perché aveva anche altri figli piccoli a cui badare. Ho ottenuto la collaborazione di una neuropsichiatra infantile, con cui abbiamo steso un profilo dinamico funzionale e un programma di lavoro didattico riabilitativo. Sono entrate in scena una psicomotricista a scuola e una fisioterapista a casa. Abbiamo iniziato a usare il banco di statica (il bambino era alto un metro e venti). Tutti questi cambiamenti hanno piano piano dimostrato alle colleghe che il bambino poteva migliorare, che aveva delle potenzialità di apprendimento e di sviluppo, e che meritava rispetto e aiuto. Con A. partecipavamo alla vita di diversi gruppi, lavorando a sezioni "aperte", alla ricerca di attività idonee e di contatti con gli altri bambini. I compagni mi rivolgevano domande infinite su di lui: "Che cosa ha? Ha avuto un incidente? Mangia e gioca come noi?" Cercavo di spiegare che il piccolo era uno di loro e come loro; che purtroppo i problemi di salute lo facevano apparire diverso. Alla fine, si sono liberati dall'ansia provocata dalla paura dell'insolito.Al termine dell'anno, A. è riuscito a mangiare seduto al tavolo, dove erano appoggiati piatto e bicchiere: prendeva il bicchiere da solo quando aveva sete; il pasto durava oltre mezz'ora, e lui assaggiava tutti i cibi, portando il cucchiaio alla bocca. È riuscito a comprendere le routines di classe; a pronunciare "mamma"; a comprendere quando lo si stava cambiando, e a facilitare i movimenti dell'adulto; era più presente all'attività in sezione e riusciva a sopportare la solitudine, senza rinchiudersi in se stesso. Partecipava alla ricreazione in giardino, con i compagni. Ha raddoppiato il tempo di permanenza a scuola.Nella fotografia di fine anno, A. è ripreso mentre insieme ai compagni sta mangiando un gelato, in una gelateria cittadina; lui ha in mano un cucchiaino, e si diverte… Il prossimo anno il bambino andrà alla scuola elementare; per facilitare il passaggio, dal mese di maggio abbiamo organizzato visite nel nuovo ambiente, per farlo conoscere, e per fare conoscere a lui la futura realtà scolastica: le maestre e i locali. Abbiamo portato con noi numerose fotografie, per mostrare a tutti quello che sa fare (7).

 

Il commento della docente esprime la migliore lettura dell'esperienza: Per tutti A. era un "diverso", quasi un vegetale. "Inutile fargli assaggiare cibi nuovi, o proporgli qualunque esperienza; tanto non capisce nulla!", mi veniva detto. Il mio primo impegno è stato quello di farlo percepire agli altri come persona umana, e di introdurre nel suo mondo quanto più possibili esperienze di normalità. Ad esempio, ho preteso che anche lui dormisse su una brandina come i compagni, e non su un passeggino troppo piccolo e inadeguato; ho cercato di dimostrare che aveva delle emozioni, dei sentimenti; che poteva arrivare a mangiare da solo; che aveva desiderio di imparare come tutti.

 

Ovviamente, per i colleghi insegnanti e per gli specialisti si trattava di aderire a un concetto di apprendimento in senso lato: gli altri bambini imparavano a disegnare o a leggere piccole frasi, A. imparava a padroneggiare alcune autonomie personali fondamentali, facendo la stessa fatica, e impegnando la stessa volontà. Il nesso fra le due vicende, temporalmente lontanissime, sta nell'approccio al disabile. Anche davanti a situazioni di gravità che possono apparire scoraggianti, la sensibilità educativa verso la persona è quella che spinge ad andare oltre la dissonante difficoltà imposta dal deficit – senza per questo trascurarne la conoscenza approfondita – per scoprire strumenti e canali di comunicazione che permettano il rispecchiamento e il ri-conoscimento nella comune condizione umana, al di là della reale, ma anche, in una certa misura, apparente perché transitoria, diversità. Da questo punto e da questo momento comincia l'avventura educativa per entrambi: per il docente e per l'allievo. Se si conviene che ogni persona – con le sue potenzialità e i suoi limiti rispetto ai quali non vi sono gerarchie di sorta – è diversa, si capovolge la logica con cui tradizionalmente sono stati affrontati il problema della diversità dei disabili e la loro integrazione nel contesto scolastico e sociale. Vico ricorda: "Il primato personalistico della persona ci viene incontro e ci sostiene nella tesi che non c'è mai una integrazione da parte degli altri, così come non esiste una integrazione ex novo di un individuo. […] È la persona che integra se stessa, ritrovando se stessa"(8) . Non si pone la questione di integrare l'alunno disabile in un contesto di astratta normalità, che sovente si traduce in tensione accomodante verso l'uniformità. Si tratta piuttosto di valorizzare al meglio le dotazioni individuali: escludendo qualunque modalità stereotipata di approccio alla pluralità di situazioni e di prestazioni che caratterizzano ogni essere umano, e togliendo dal percorso educativo le condizioni negative che potrebbero ostacolare l'originale, eterocronico e comunque a suo modo armonico, sviluppo della personalità del minore con deficit. Nessuna persona dovrebbe essere definita esclusivamente per sottrazione: non sa, non è in grado di fare, non può essere…; non è la carenza che dovrebbe contraddistinguere un profilo individuale; piuttosto, la capacità di sentire, di comunicare, di agire, di pensare, secondo la peculiare modalità personale. "È da qui, dal positivo, che si inaugura l'educazione che non è poi altri che lo sviluppo dell'unità e dell'integralità di se stessi a partire dalle capacità unitarie e integrali che si possiedono e, quindi, a partire anzitutto dall'accettazione globale di sé". La persona integrale "è per definizione una miniera inesauribile di risorse e di energie, perciò mai ‘sfruttata' fino in fondo e una volta per sempre. Per questo così sorprendente e generativa da affermarsi perfino quando i limiti e i condizionamenti sembrerebbero comprimerla in modo invincibile" (9).

 

Superare stereotipi e luoghi comuni

 

L'assunzione di questo quadro teorico come punto di vista privilegiato, come sguardo attraverso cui trattare il tema dell'integrazione scolastica dei disabili, ci aiuta a tenere lontane le derive conseguenti

ad alcuni diffusi quanto deleteri stereotipi.

 

Le mode tecnicistiche. Il primo fra tutti consiste nell'adesione assolutizzante a mode tecnicistiche, siano esse di impostazione medica, riabilitativa, o psicologica. Il luogo comune ci può indurre a pensare che l'alunno in situazione di difficoltà inserito in classe abbia bisogno soprattutto e primariamente di interventi di tipo sanitario-rieducativo, piuttosto che di attenzioni educative. L'assunzione acritica e totale a questo modo di pensare da parte del mondo della scuola assume, di volta in volta, una molteplicità di manifestazioni. Il comune denominatore sta nel subordinare l'approccio formativo a quello riabilitativo: nel privilegiare lo sguardo della parzialità piuttosto che quello dell'integralità della persona. Al contrario, la maieutica educativa deve difendersi "contro un'idea totalizzante di 'educazione' sfociante sempre nella forma della propria autoreferenzialità strumentale e violenta che è la rieducazione" (10). Non si vuole negare la possibilità di un nesso – non automatico o necessario – tra l'entità della compromissione individuale e una conseguente situazione di handicap in ambiente scolastico. Si vuole piuttosto rilevare che, di fatto, troppo spesso il mondo della scuola riserva

al deficit la funzione di pronosticare e delineare l'orizzonte e gli spazi di educabilità personali dell'alunno. Ancora troppo frequentemente non solo gli specialisti della sanità, ma anche i docenti, adottano come criterio privilegiato ed esclusivo di conoscenza e di classificazione del disabile la categoria diagnostica. Sulla base di questa – piuttosto che sull'osservazione sistematica e continua del comportamento globale del minore – prefigurano la sua possibilità di rispondere a un progetto prima di tutto riabilitativo, e solo in seconda battuta formativo. Quasi che la tipologia e l'entità della minorazione abbiano il potere di creare un effetto alone, capace di irrigidire l'originalità del profilo personale, e di predeterminare la qualità della futura esperienza di vita del soggetto.

Al contrario, la più avanzata ricerca scientifica insegna che il legame tra deficit e handicap va letto non tanto all'interno di un processo causale-lineare riguardante solo l'individuo, quanto piuttosto all'interno di un paradigma sistemico, che coinvolge variabili soggettive e ambientali. Questa nuova attenzione alle situazioni di disabilità mette d'accordo il punto di vista medico e quello pedagogico, richiamandone

la necessaria collaborazione. Per i professionisti della scuola è doveroso confrontarsi e comprendere la documentazione sanitaria che accompagna la frequenza scolastica del disabile – in particolare diagnosi e profilo dinamico funzionale – così come è indispensabile saper dialogare con le professionalità mediche e riabilitative. Tuttavia, non va trascurata la specificità dello sguardo pedagogico, che pur muovendo da singole prospettive parziali, mira a metterle in collegamento in vista di un progetto di vita globale: un progetto che proietti il minore oltre la scuola e verso il futuro, prefigurando condizioni di vita adulta.

 

Immobilismo permanente. Un altro diffuso luogo comune risiede nella tendenza a mantenere il processo di insegnamento dell'allievo disabile in una condizione di permanente immobilismo, di staticità, con la giustificazione che i progressi sono lenti e tardivi, e i risultati scarsamente apprezzabili. Se pure l'argomentazione incontra una qualche ragionevolezza didattica – qualora riferita ad un arco temporale breve – nondimeno può rivelare da parte dei docenti pregiudizi, o incapacità a elaborare itinerari di didattica differenziata e/o innovativa, adeguati alle peculiari situazioni di handicap. Il pregiudizio – prigioniero del timore del rischio e della cultura dell'autoconservazione – manifesta l'indisponibilità a pensare che lo studente disabile possa approdare ad uno stato adulto, e la persistenza a giudicarlo "eterno bambino". Spiega Vico: «Nella "contingenza" del vissuto, all'assenza di continuità

e consequenzialità puntualmente corrispondono la "passività" del soggettivo e l'"'impersonalità" dell'io.[…] Il "repentino" è strettamente legato all'"accader-mi-senza-un perché"; […] è il fenomeno patico: è il paradossale traumatico vissuto dalla coscienza infranta, discontinua, estraniata da sé» (11). Per usare due espressioni care a Ricoeur, nei confronti dell'alunno considerato handicappato non vi è rapporto armonico tra lo "spazio di esperienza" – spesso uguale a se stesso, nel trascorrere dei giorni, dei mesi e degli anni – e "l'orizzonte di attesa". Quest'ultima dimensione richiama la progettualità, il futuro reso intenzionalmente presente nella consapevolezza che il fine è ciò che è già prima; in una parola la persona del disabile, e non essenzialmente la sua disabilità, come idea direttiva.

L'universo scolastico non ha ancora elaborato competenze sufficientemente qualificate a "tradurre" il deficit in bisogno educativo e didattico. Pertanto gli insegnanti sono indotti, nello stesso tempo, a sottovalutare e sopravvalutare la compromissione, trascurando che essa si configura come una componente - non unica ed esclusiva - all'interno di una struttura complessa di personalità, e che l'individuo in sviluppo - se opportunamente aiutato – può attivare risorse positive di coesistenza con la minorazione e per l'adattamento presente e futuro alle sollecitazioni ambientali. Così, ad esempio, un bambino considerato in situazione di gravità all'ingresso nella scuola dell'infanzia perché affetto da "tetraparesi spastica" - diagnosi che può apparire fortemente compromissoria all'età di 2-3 anni - se sostenuto con interventi qualificati sia sul piano riabilitativo che educativo, quando diventerà adolescente potrà giungere anche a sviluppare un sufficiente livello di autonomia personale e sociale. Cristopher Brown, il protagonista del famoso film Il mio piede sinistro, offre una testimonianza di vita emblematica. Nonostante gli ostacoli ancora da superare, famiglia e scuola continuano ad essere le due principali agenzie educative impegnate nella responsabilità di favorire il percorso del disabile verso la vita adulta, che si concretizza nell'accesso alle esperienza che la società considera rituali: la conquista dell'autonomia, da non confondere con l'autosufficienza; dell'integrazione lavorativa; di una equilibrata vita socioaffettiva. Gli esperti fanno notare che le difficoltà diverse incontrate dai soggetti considerati handicappati durante il tempo della frequenza scolastica non fanno che aggravare e rendere problematico il loro passaggio alla vita lavorativa. Se poi viene a mancare l'opportunità di inserimento lavorativo, c'è il rischio che vadano dispersi gli apprendimenti in termini cognitivi e di socializzazione guadagnati negli anni della scuola; che ritornando a vivere entro le pareti domestiche il disabile regredisca; che la famiglia torni ad essere lasciata sola, ad affrontare i problemi dell'assistenza e della riabilitazione (12).

 

Tentazioni emarginanti. Come abbiamo visto, il concetto di persona è multiforme e plurale: i termini costitutivi sono la singolarità, la razionalità intesa come direzione di senso e apertura al progetto di vita, e la relazionalità (13). L'identità, la differenza e la storicità della persona vengono a coniugarsi con la relazione e la partecipazione alla vita sociale e scolastica. Ci soffermiamo su questo argomento, in controtendenza ad un luogo comune ancora troppo diffuso nell'immaginario collettivo, nonostante la ormai trentennale tradizione di integrazione dei disabili nella scuola e nella società. La questione dei rapporti tra individui cosiddetti normali e individui definiti diversi si è manifestata, e ancora si manifesta, con molteplici sfaccettature. Storicamente ci sono state e ci sono tendenze ad annullare le diversità personali, in nome di istanze di omologazione e di uniformità, ritenute meglio confacenti a conseguire traguardi di efficienza e di efficacia. Ci sono all'opposto rivendicazioni tese ad accentuare marcatamente le singolarità di alcune categorie di deficit – ad esempio la sordità, o la sindrome di Down - quasi identificassero una particolare etnia, che l'integrazione rischierebbe di disperdere.

Canevaro ha eloquentemente definito questi atteggiamenti con l'espressione "ipertrofia identitaria" (14). Periodicamente tornano alla ribalta isolate, anacronistiche nostalgie che considerano l'inclusione dei soggetti in situazione di handicap inutile o dannosa. Il fatto è che la relazione con la diversità legata al deficit impone "l'incontro col limite", che è componente - per quanto dinamica - tuttavia necessaria della condizione umana. Dice Montobbio che "nel nodo dell'incontro col limite troviamo contemporaneamente i sentimenti del coraggio e del rischio ma anche quelli della rassegnazione e della rinuncia" (15), dell'assenza di speranza e dell'illusione negata: messaggi dissonanti, a doppia banda. La disponibilità a riconoscere ed accettare il limite, a incontrare la pena mantenendo la speranza, a intrattenere solidaristiche relazioni di aiuto, a chiedere e offrire sostegni concreti a chi ci sta accanto, a concretizzare questi atteggiamenti in un realistico progetto esistenziale da condividere con gli altri è cosa che, in varia misura, riguarda la generalità delle persone. Per quanto difficile da accettare, la "lezione" del contatto con il limite appartiene alla storia di ciascuno. Ricorda Morin: «C'è già nell' "io sono me" una dualità implicita: il soggetto è nel suo sé potenzialmente altro pur essendo se stesso. È perché il soggetto porta l'alterità in se stesso che può comunicare con l'altro. […] La comprensione permette di considerare l'altro non solo come ego alter, un altro individuo soggetto, ma anche come alter ego, un altro me stesso con cui comunico, simpatizzo, sono in comunione. Il principio di comunicazione è dunque incluso nel principio d'identità e si manifesta nel principio di inclusione» (16).

Aveva già spiegato Gilbert: "L'esperienza dei bambini-lupo ce lo insegna: la persona umana non accede a se stessa quando si trova abbandonata in una solitudine perfetta. […] Non diremo che la persona risulta dalla società, ma che accede alla propria identità personale grazie alle sue relazioni interpersonali o sociali. […] perché io sia me stesso, tu devi essere qui, al mio fianco, e limitarmi radicalmente. La persona e la comunità umana si danno insieme, contemporaneamente" (17). Molto prima di lui, quasi quarant'anni or sono, il religioso francese Bissonnier, aveva profeticamente compreso che l'educazione dei soggetti "subnormali" – così all'epoca venivano denominate le persone con minorazione intellettiva – deve avvenire nel contesto di normalità. Partire dal soggetto vuol dire, infine, sapere che questo soggetto vive in una comunità ed è una persona. L'educazione dovrà dunque essere comunitaria e personalizzata insieme. […] Come è stato sovente ricordato, unità e diversità non sono infatti assolutamente dei concetti contraddittori, ma, al contrario, sono complementari e si richiamano reciprocamente. […] Questo personalismo comunitario, nel quale la persona fiorisce tanto meglio quanto più è unita alla comunità e nel quale la comunità stessa è tanto più unita quanto più sono differenti le persone che la compongono, questo personalismo comunitario deve essere realizzato a tutti i livelli, dalla cellula familiare all'organizzazione delle Nazioni Unite, passando attraverso tutte le comunità intermedie (18).

Lo scopo fondamentale del vivere sociale è quello di aiutare la vita, dovunque, in tutti, di più in coloro che trovano nel vivere la massima difficoltà. Là dove le possibilità personali sono ridotte o divergenti, occorre muovere qualche passo in più dal versante familiare, sociale, sanitario, e in modo particolare scolastico, vista la finalità educativa di questa istituzione; occorre allestire o potenziare servizi comunitari formali ed informali, coordinarli in rete, stimolare nuove risorse, offrire supporti personali e materiali, nell'ottica di considerare il minore disabile e la sua famiglia come protagonisti attivi dell'intervento (19). Infatti, la possibilità di esercizio di competenza, di offrire risorse oltre che riceverne, è una delle due gambe su cui il benessere personale è obbligato a camminare. L'accettazione del diverso trova nel processo di comunicazione una soglia ineludibile: le principali difficoltà di interazione con i disabili, specie con quelli in situazione di gravità, si concretizzano come ostacoli comunicativi. "La parola è apertura, disvelamento del mondo interno e prerequisito per un coinvolgimento sempre più personale e autentico in quello esterno. È la parola, nella sua dinamica di graduale punto focale delle motivazioni intrinseche della persona ad essere, a sapere, a saper-fare, che arricchisce ordinatamente l'esperienza umana" (20). Come sappiamo, nel rapporto tra il dottor Itard e il selvaggio dell'Aveyron, il medico ha riconosciuto veramente l'umanità del ragazzo nel momento in cui questi ha dimostrato di intendere il messaggio dell'adulto, e di sapervi rispondere ricorrendo a gesti e a suoni intenzionali (..). Di fronte alla eventuale impossibilità della persona disabile ad utilizzare la parola parlata, molti educatori e insegnanti non si arrendono, ma danno vita a un percorso di ricerca che li porta gradualmente a scoprire altri canali di comunicazione e di espressione, che arricchiscono tutto il gruppo di nuove conoscenze: la gestualità, la drammatizzazione, il disegno, la pittura, la musica, la manipolazione. In una realtà scolastica in cui l'espressione non verbale è ancora troppo trascurata, questo apporto caratteristico della pedagogia speciale deve essere sottolineato e apprezzato, per le ricadute cognitive, oltre che sociali, per l'intera collettività dei compagni di scuola.

 

* Per gentile concessione dell’editore La scuola, Brescia. L’articolo riprende alcune parti (p. 15-30) del volume di Marisa Pavone, Personalizzare l’integrazione. Un progetto educativo tra professionalità docente e dimensione comunitaria, Brescia 2004.

 

1) E. Claparède (1920), La scuola su misura, La Nuova Italia, Firenze 1952, pp. 43-45.

2) M. Baldacci, L'istruzione individualizzata, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 10-11.

3) R. Zazzo-Équipe HHR, (1968), I deboli mentali, SEI, Torino 1974.

4) J. Maritain (1943), L'educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1961, pp. 20-21.

5) G. Vico, Handicappati, La Scuola, Brescia 1984, p. 127

6) S. Moravia, Il ragazzo selvaggio dell'Aveyron. Pedagogia e psichiatria nei testi di J. Itard, Ph. Pinel e dell'anonimo "Décade", Laterza, Bari 1972.

7) Si ringrazia l'insegnante specializzata di scuola dell'infanzia Piera Turco, per la preziosa collaborazione nell'aver accettato di narrare la sua esperienza professionale

8) G. Vico, op. cit., p. 82.

9) "Raccomandazioni per l'attuazione delle indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati nella scuola primaria", in Annali dell'Istruzione, n. 5-6, cit., p. 142

10) G. Vico, Scienze pedagogiche e orizzonti educativi, LED, Milano 1997, p. 263.

11) Ibidem, pp. 255-256

12) C. Selleri, "Ma per gli handicappati non basta il bla, bla", in Scuola e professione, anno X, n. 5, ottobre 1982

13) V. Melchiorre, Essere e parola, cit., p. 54.

14) A. Canevaro, Pedagogia speciale, cit., p. 77.

15) E. Montobbio-C. Lepri, Chi sarei se potessi essere, Edizioni del Cerro, Pisa 2000, p. 62.

16) E. Morin, La testa ben fatta, cit., p. 132.

17) P. Gilbert, "Differenza e persona", in AA.VV., L'idea di persona, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 97.

18) H. Bissonnier (1959), Pedagogia di risurrezione, Leumann, Elle Di Ci, Torino 1966, pp. 51-52.

19) M. Pavone, "La rete", in M. Pavone-M. Tortello, Pedagogia dei genitori, Paravia, Torino 1999, pp. 309-342.

20) G. Vico, Scienze pedagogiche, cit., p. 279


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