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Scuola - I danni della manovra di bilancio, quelli della "riforma"

di R. P.


Maria Montessori, chiacchierata protagonista delle defunte mille lire, è personaggio da romanzo. Prima donna italiana a laurearsi in medicina, il suo metodo d’insegnamento continua a essere adottato e contestato in tutto il mondo. Uno dei primi interessi della mamma spirituale di Piaget fu quello di occuparsi dei bambini disabili: proprio studiando un modo per insegnare ai ragazzi svantaggiati arrivò a elaborare il suo sistema “differenziato” a seconda dell’alunno. A ognuno il suo programma, a ognuno una diversa attenzione. Partiamo da qui per raccontare la storia del Belpaese che, una volta tanto, ha un primato di cui vantarsi. O meglio, aveva.
L’Italia, infatti, fin dalla Costituzione (articoli 3 e 38) stabilisce l’uguaglianza di tutti i cittadini e il diritto allo studio e al lavoro, impegnandosi a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che ne impediscano la realizzazione. La traduzione dei princìpi costituzionali in leggi comincia negli anni sessanta, quando ancora però sono previste scuole “speciali” e scuole “normali”; negli anni settanta invece due leggi (118/71 e 517/77) saranno fondamentali per l’integrazione scolastica delle persone disabili nelle scuole statali, inferiori e superiori, e nelle università, in un contesto e un ordine di assoluta parità. Infine, nel 1992, la legge 104, vera e propria Carta dei diritti, pone l’Italia all’avanguardia in Europa. “La responsabilità del progetto educativo è affidata a tutti gli insegnanti – spiega Rita Candeloro, segretaria nazionale della Cgil scuola – non soltanto a quelli di sostegno. Prima la Asl certifica la disabilità, poi si crea il piano didattico insieme alla scuola, che interviene con un programma illustrato ai genitori; infine si verifica via via il percorso. Il nostro è l’unico paese in Europa che studia la questione in questo modo e siamo infatti un modello per gli altri. Abbiamo insomma un primato positivo”. E positive sono le sfumature, sostanziali, che le leggi e gli anni di attenzione posti al problema dell’integrazione hanno prodotto. Per esempio non c’è – non dovrebbe esserci – alcuna differenza tra gli insegnanti di sostegno e gli altri: non una serie A e una serie B, ma due percorsi diversi di pari importanza. Il condizionale però è d’obbligo perché è invece proprio sulla figura di questi docenti che s’infrange, nell’anno europeo dei disabili, il sogno di un paese all’avanguardia.

Il 2003 era l’anno in cui si sarebbero dovuti affrontare alcuni nodi, porsi degli obiettivi, ma dopo la Conferenza di Bari, in febbraio, di integrazione non si è più sentito parlare. Ogni tanto, tra una Cirami e una Gasparri, si sentiva dire che i posti per gli insegnanti di sostegno sarebbero diminuiti, ma l’attenzione era sempre rivolta da un’altra parte. Alla fine con la Finanziaria i timori si concretizzano: si taglia tutto, nella scuola, a colpi di sciabola, e riducendo il numero degli insegnanti totali si riduce automaticamente anche quello degli specialisti.

Ma non sono solo i tagli a fare danni, ci si mette anche la riforma Moratti. Negli ultimi tempi il numero degli studenti disabili è salito: per l’anno scolastico in corso le iscrizioni sono state 154mila, circa il 35 per cento in più rispetto a dieci anni fa. Di queste cifre, è ovvio, si sarebbe dovuto tenere conto, sia perché la legge 104 stabilisce che possano esserci solo due studenti disabili per classe, sia perché il numero degli insegnanti di sostegno previsto (uno ogni due alunni disabili, uno ogni 138 studenti totali) appare insufficiente e di fatto già sconfessato da ricorsi e provvedimenti speciali. Ogni anno, infatti, il ministero concede altri posti in deroga, richiesti dalle direzioni didattiche regionali, e ogni anno, in questo modo, si giocano circa 20 mila cattedre. Nel 2001, per citare gli ultimi dati a disposizione, su 71 mila insegnanti di sostegno, ben 28 mila sono stati nominati successivamente con le deroghe. Anziché preoccuparsi di questa crescita, e provvedere all’aumento dei posti di sostegno, il ministro si è limitato a confermare la validità della 104, senza però dare indicazione alcuna sull’handicap, e soprattutto senza dare gli strumenti per attuarla, cioè la copertura finanziaria. Si lascia quindi alla scuola, in base all’autonomia, la facoltà di gestire e decidere singolarmente, ma la scuola, diventata ormai un’azienda, tende naturalmente al risparmio. E l’integrazione costa. “I genitori vedono una scuola più povera – denuncia Candeloro –, la politica generale di tagli porta troppi svantaggi e lascia le famiglie insoddisfatte: diminuiscono le ore, ma anche le attività, riducendo la scuola a scuola del mattino, fatta per leggere, scrivere e far di conto, che non è il percorso adatto a un bambino con handicap”.

L’esempio che può illustrare le carenze della scuola di fronte all’handicap, e che dimostra come invece alcune forme di disabilità si potrebbero risolvere, è quello della dislessia. La palestra, sembrerà strano, può essere infatti risolutiva per un bambino dislessico: “Il miglioramento avviene attraverso un recupero dello spazio che prima deve avvenire nel corpo. Se mi togli le ore di palestra a disposizione, e altre attività considerate opzionali, togli anche la possibilità di intervenire nei casi di disabilità recuperabili, lasciando tutto sulle spalle della famiglia e abdicando al ruolo formativo e di sostegno che la scuola, e lo Stato, dovrebbero assumere”.

Poco prima dello scadere dell’anno per i disabili, il governo vara la legge Stanca sull’accesso alle nuove tecnologie: è il suo modo di contribuire a una questione di ben altra portata, quando si doveva intervenire innanzitutto sulle risorse e sulla formazione. Non sempre infatti gli insegnanti sono sufficientemente preparati e in gennaio, la notizia che a Foggia due genitori hanno ritirato il figlio disabile dalla scuola elementare per l’inadeguatezza della maestra e l’inesistenza di un percorso formativo, ripropone il problema in tutta la sua urgenza. La storia si è risolta infine con l’aiuto della Cgil, ci spiega Lino Di Carmine (Camera del lavoro locale), che l’ha seguita, con la sostituzione della maestra e il ritorno a scuola del bambino.

Dalla parte opposta del paese, la situazione è la stessa. Parliamo con la signora Cucchini, di Udine, che al momento di iscrivere il figlio disabile alla scuola superiore ha dovuto fare i conti con il disinteresse delle strutture e della Regione. “Al momento di iscrivere mio figlio ci siamo indirizzati a un istituto superiore di agraria, l’unico della zona che aveva già avuto esperienza d’integrazione di disabili. All’ultimo momento però una lettera ci comunica che l’iscrizione veniva rifiutata perché c’erano già troppe richieste”. La famiglia, che aveva scelto quell’istituto ritenendolo il più adatto per il ragazzo, si rivolge allora al Csa, chiedendo attenzione al problema del passaggio dalle medie alle superiori, ma la risposta è: “Ci sono tante altre scuole”. Si apre allora la prospettiva di un centro socio riabilitativo, che però non è una vera scuola, ma una specie di parcheggio, dove non si fa attività didattica e la famiglia allora rifiuta perché “è gravissimo interrompere l’apprendimento così presto: si abbassano le potenzialità, anziché elevarle, e in un ambiente simile non ci sono stimoli”. La storia si conclude in un istituto tecnico agrario dove gli insegnanti sono molto disponibili ma l’integrazione è comunque difficile perché è una scuola troppo complessa. Ecco, allora, molto semplicemente uno pensa che, per tenere fede a tutti gli articoli e i codici di leggi e costituzioni, forse dovrebbe esserci  la possibilità di scegliere la scuola giusta, che con buoni programmi e buoni insegnanti possa migliorare le aspettative e i progetti di vita di tutti.


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