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Sguardo oltre il limite

 

Stefano ha 14 anni, cammina usando uno strumento chiamato deambulatore perché è affetto da una tetraplegia che gli impedisce il cammino autonomo, scrive con difficoltà. A casa, lontano dagli occhi indiscreti degli “altri”, striscia, “come un verme” dice lui. Ha già subito 2 interventi alle gambe per l’allungamento dei tendini. “Se mi sforzassi camminerei”, continuava a ripetermi. La mamma di Stefano non vuole che lui usi la carrozzina, per non essere diverso dagli altri.

Carolina ha 15 anni: è una ragazza affetta dalla sindrome di down. Non conosce l’uso dell’orologio, non sa contare né leggere, le piace solo cantare e ballare.

Giacomo è un ragazzo sordo. Quando aveva 3 anni ha avuto una meningite che gli ha provocato una sordità profonda. I suoi genitori hanno lottato perché lui continuasse a parlare, a “sentire” grazie alle protesi; non vogliono che usi la lingua dei segni per non essere diverso dagli altri. È un ragazzo alto, molto bello, ma sembra spaventato. I suoi occhi si muovono veloci per non perdere nulla di ciò che accade intorno a lui.

Tanti altri ragazzi ho incontrato nella mia carriera di insegnante di sostegno, ma sono loro che mi hanno insegnato il rispetto per il dolore.

Dietro alle loro storie ci sono quelle dei loro genitori, persone normali, spaventate pensando al futuro dei loro figli. Tutti e tre non potevano permettersi il lusso di essere diversi: dovevano camminare, perché chi è normale cammina, dovevano leggere, far di conto, per poter avere un lavoro, dovevano sentire e parlare perché il mondo è fatto di parole.

Stefano è un appassionato di Formula Uno, il suo sogno era di poter salire su un’autovettura e correre in pista; Carolina sognava diventare una ballerina, una di quelle che si vedono alla televisione; Giacomo voleva diventare restauratore, lavorare nel silenzio del suo laboratorio. Ho cercato dentro i loro sguardi, ed ho trovato tutte le lacrime del mondo, quel mondo che non li voleva così com’erano, che voleva cambiarli per farli diventare uguali a tutti gli altri: volevano essere normali per non far soffrire i loro genitori, per essere amati dai loro genitori.

Stefano ha imparato ad usare il computer perché i suoi scritti fossero più leggibili, ma ha accettato di usarlo solo quando ho acconsentito a fargli scrivere una mail a Schumaker, e alla fine dell’anno aveva imparato a costruire ipertesti su argomenti di diritto e di storia. Carolina è diventata cuoca in una scuola materna, imparando a muoversi tra i banchi della cucina con la grazia di una ballerina, dopo aver seguito un corso di musicoterapia. Giacomo è andato all’università, dopo avere accettato il silenzio intorno a lui senza rincorrere le parole di tutti, trovando nell’arte della pittura e della scultura tutte le parole che cercava.

E noi, gli altri? Io ho imparato da Stefano che è possibile vincere il mio dolore se accetto di farmi carico di quello di coloro che vivono accanto a me; da Carolina ho imparato ad ascoltare il suono del tempo, dell’aria, dei sorrisi, ed avrei voluto imparare a muovermi dentro il mio corpo, con armonia, come lei, incapace di immaginare di poter essere giudicata; da Giacomo ho imparato la fatica che fa urlare, la ricerca della parola più giusta, il senso del più piccolo dei gesti, ho imparato a leggere il volto di chi mi parla, a sentire molto di più di quanto le mie orecchie sono in grado di percepire.

Chissà se nel mondo che stiamo costruendo c’è ancora lo spazio per essere diversi, chissà se l’incontro con il limite degli altri ci farà ancora capaci di sopportare il nostro? Oppure impareremo a mascherarci, a nasconderci, ad avere paura, a sopraffare, a urlare, a imbrogliare, perché perdere diventerà reato!

Chiara Carabelli


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