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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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LA PIETA’ DEL PERDONO

La strumentalizzazione che il caso Sofri alimenta, consente ancora di obiettare che sono stati impedimenti di ordine tecnico e giuridico a relegare a mezz’aria quella domanda di grazia?

Se è vero come è vero che gli uomini cambiano, colpevoli e innocenti, allora può un uomo redimersi? Potrà il crimine essere cancellato attraverso la pena espiata? E qual è la pena che può rendere giustizia agli innocenti umiliati?

Sono domande che non consentono risposte certe, ma venti, trent’anni di carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo invisibile a tal punto da risultare difficile dialogare con un’identità scomposta, che occorre ritrovare e ricostruire, insieme agli altri.

Parlare adesso del caso Sofri e sin troppo facile,  ma comunque  giusto, non solo per l’uomo che tutt’ora si dichiara innocente, ma anche e soprattutto per la ricerca di una Giustizia giusta, una Giustizia equa, una Giustizia che è anche perdono, come ebbe a sottolineare il Papa, e che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto di debolezza.

Penso ai tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro storie anonime, blindate, dimenticate. Sono convinto che non esiste amnistia, indulto, sanatoria d’accatto, per il detenuto, non esistono slanci in avanti utopisti, esistono solamente uomini sconfitti, perché in un carcere non sopravvivono miti vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo addosso.

Mi chiedo quindi se è possibile perdonare, nella difficoltà di affrontare la lettura evangelica del sentimento del perdono, per non parlare della necessità di salvaguardare la collettività, ormai improntata alla sola risposta penale, al solo deterrente carcerario.

Forse occorre riconoscere il bisogno di un percorso umano ( non solo cristiano ) nella condivisione e nella reciprocità, quindi nella accettazione di una possibile trasformazione e cambiamento di mentalità.

In conclusione che dire ancora, se non che quando il carcere è allo stremo fino al punto di uccidere, forse c’è davvero bisogno di cambiarlo, proprio perché in carcere c’è necessità di vivere, e non di sopravvivere, per poter cambiare.

Vincenzo Andraous
Responsabile Centro Servizi Interni Comunità Casa del Giovane Pavia


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