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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

 

UNA GRANDE MANUTENZIONE DELL’ANIMA

 

Tra un morto ammazzato e un carcere costretto a vivere del suo, ecco che un paio di detenuti hanno pensato bene di levare le tende, darsela a gambe.

Un’evasione da non poter essere neppure raccontata, perché privata in partenza di ogni letteratura, di qualsivoglia vanteria criminale. Se ne sono andati dentro un vero e proprio tradimento culturale, volgendo le spalle a quel patto di lealtà, stipulato innanzitutto con se stessi, con le Istituzioni, con la gente all’intorno, ristretta e  libera.

Un’evasione messa in atto da persone di scarsa pericolosità sociale, a bassa soglia di attenzione, un’evasione accaduta  non per mancanza di personale, ma perché a metterla in scena sono stati “ quelli dalla faccia voltata indietro” per dirla alla Adriano Sofri, uomini destinati a varcare nuovamente il cancello blindato di un penitenziario, perché in quei passi affrettati verso una libertà prostituta ci sono le certezze inconfessabili per un ritorno a breve termine nelle patrie galere.

Lo hanno fatto non da un istituto additato a fortino della disumanità, no, hanno scardinato la propria dignità da un luogo fortemente deputato a svolgere il ruolo di recupero del condannato, la propria utilità sociale sul versante della giusta pena da scontare e della conseguente riparazione da mettere in pratica.

Tanti anni fa anch’io ho usufruito di questa opportunità, dentro un progetto di destrutturazione e ricostruzione interiore, ho avuto la possibilità di ritornare a essere una persona migliore. Conosco bene la metodologia del lavoro esterno in e fuori dal carcere, e come rientrando nei requisiti previsti, sia possibile (per pochi), accedere all’istituto dell’ art. 21, come questa eventuale concessione implichi il mettere in gioco la propria autorevolezza e il proprio prestigio per la Direzione del carcere.

Per arrivare  a questo obiettivo, non è sufficiente la mera buona condotta, non è un beneficio strettamente imparentato con una sorta di automatismo. Avevo trascorso oltre venti anni di carcere, non mi erano mai stati concessi permessi premio, l’art. 21 è tutto incentrato sullo strumento principe per ogni trattamento rieducativo: il lavoro e la dignità che ne deriva.

In quella “evasione” non c’entrano né pesano le problematiche endemiche dell’Amministrazione Penitenziaria: il sovraffollamento, la carenza di personale, l’assenza di investimenti finanziari appropriati.

Il detenuto ammesso al lavoro esterno è una persona che gode di fiducia, capace di affidabilità,  protagonista di un percorso di risalita esistenziale, di un cambiamento di mentalità.

Avrei potuto anch’io alzare i tacchi, “evadere”, ma quando non si ha più residenzialità con il proprio passato criminale, con la pericolosità sociale, il cammino in atto non è più strettamente legato al solo contenimento, alla sola incapacitazione, bensì è sinonimo di collaborazione lavorativa e di risvolti umani condivisi.

Potevo incamminarmi verso l’uscita, verso la rete metallica, verso una libertà miserabile, ma non mi è mai sfiorata l’idea di ritornare a una vita sottobanco, per anni ho usufruito del lavoro interno-esterno alla prigione, soprattutto di una piccola ma grande manutenzione dell’anima, e ogni giorno che scorre via, comprendo il valore delle responsabilità acquisite che fanno la distanza da “quelli dalla faccia voltata indietro”.

Vincenzo Andraous
Responsabile Centro Servizi Interni Comunità Casa del Giovane Pavia


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