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Arte, sublime consolazione
 
 
Portrait by Ronald B. Kitaj
 

Un ricordo dello studioso Ernst Gombrich a tre anni dalla scomparsa.
Un maestro di coerenza e rigore
di

G. L. Verzellesi
A rievocare la figura di uno storico dell'arte come Ernst Hans Gombrich (1909-2001) a tre anni dalla morte, sovvengono i ricordi di coloro che, come compagni di strada, discepoli o amici, gli sono stati vicini con ammirazione profonda, suscitata di continuo dall'esempio di un uomo come lui, dotato d'una sapienza rara sorretta da una bonomia impareggiabile. Ma il patrimonio di ricordi, affidato alla memoria di pochi, conta meno degli scritti: libri e saggi, in cui la presenza di Gombrich si è manifestata, nel corso lento dei decenni, con una nettezza durativa che il rumorio sordo del tempo non è riuscito a intaccare. Per riscoprirla, basta riaprire le pagine dove la voce dello storico viennese spicca con la sua intonazione nitida, calma e incisiva, che proviene da uno studioso umile e coltissimo: tenacemente incline all'ambizione di "spiegare", non a quella di aggiungere all'opera da commentare una ghirlandetta di parole oscure. Alla storia dell'arte coltivata dagli specialisti inclusi dal Warburg con ironia nella " tribù dei fiutatori" e dei loro seguaci innumerevoli, che parlano un critichese spesso incomprensibile - Gombrich ha sempre preferito una storia rispondente alle esigenze della divulgazione come "un primo orientamento nel campo strano e affascinante dell'arte", svolto con un linguaggio semplice, capace d'indurre anche i non iniziati ad apprezzare i valori visivi e psicologici che gli artisti d'ogni specie, in ogni tempo, hanno offerto al genere umano, non solo alla cerchia esigua dei professori, dei dotti e degli esteti.
«La vita - secondo Gombrich - sarebbe insopportabile se non ci si potesse mai volgere alla consolazione che può dare la grande arte. Bisogna veramente compiangere coloro che non hanno contatti con l'eredità del passato. Dobbiamo essere riconoscenti di poter ascoltare Mozart o guardare Velázquez, e tristi per coloro che non possono farlo» perché, forse, non hanno incontrato maestri capaci di riscoprire e ammirare i messaggi calati nei capolavori del passato.

Le pretese futuriste e dadaiste di sradicare l'arte dalle tradizioni hanno prodotto non si sa quante eccitazioni sensazionali e fuorvianti inducendo a credere che si dovessero buttare le opere di Dostoevskij e di Tolstoj (per far spazio alle invettive di Majakovskij) e i dipinti luminosi di Rubliev (per eccitare un fanatico entusiasmo per quelli di Malevic). Ma queste e altre più recenti infatuazioni hanno indotto Gombrich a ritenere, tranquillamente, che spesso anche «gli storici siano influenzati dalle mode. E che scrivano su quello che è di moda... C'è una sorta di effetto di contagio: qualcuno fa qualcosa di eccitante e tutto cambia perché la gente è stanca del vecchio» e subisce la propaganda del nuovo che induce ad approvare l'arte ultima anche se, così spesso, risulta muta e disanimata. «Purtroppo - aggiunge Gombrich - la moderna filosofia dell'arte non sempre riconosce che l'arte stessa dipende dall'equilibrio fra tradizione e cambiamento» e dimentica che «non è possibile comunicare senza un linguaggio comune» ossia senza quei riferimenti rappresentativi che rendano possibile la comunicazione del senso profondo delle opere.

Precisazioni fondamentali come queste, qui appena accennate, si ritrovano nei tre libri più noti di Gombrich: «Arte e l'illusione» (Einaudi), «Il senso dell'ordine» (Einaudi) e «La storia dell'arte» (Leonardo) "raccontata" dall'autore e giunta alla sedicesima edizione inglese. È l'unica storia dell'arte - bisogna dirlo - usufruibile per i comuni mortali, scritta e riscritta da uno studioso austriaco che, sfuggito alla barbarica rete antiebraica tesa dai nazisti, ha dedicato la sua vita a comporre libri di orientamento, sgombri da ogni retorica o "filosofia oracolare", con l'intento di far capire (anzitutto i giovani) che per non ricadere nel fanatismo «non possiamo mai essere certi, ma possiamo avvicinarci alle certezze» senza finire nel relativismo più irrazionale.

Non a caso Gombrich, che si è sempre considerato "un allievo di Karl Popper" (epistemologo di fama mondiale cui dobbiamo le pagine civilissime di un libro come «La civiltà aperta e i suoi nemici», edito da Armando), ha scritto, riscritto e pubblicato nel '97 dall'editore Salani, dopo sessant'anni dalla prima redazione, una «Breve storia del mondo» che è un capolavoro di saggezza sciolta in divulgazione sostanziosa: una storia etico-politica concentrata in 320 pagine, dedicata alla moglie Ilse, mite compagna d'una vita proba. Ma - ci si chiede - chi ha letto la «Breve storia» con l'attenzione che merita, non vorrà conoscere la storia particolare di Gombrich più da vicino? Ecco allora un libretto, pubblicato da Einaudi, in cui lo studioso viennese risponde alle domande di un intervistatore informatissimo come Didier Eribon. E parlando di quasi tutto ciò che attiene a «Il linguaggio delle immagini» (così dice il titolo), traccia un profilo nitidissimo non solo di se stesso, e del suo difficile mestiere, ma dei novecenteschi studi artistici europei: in particolare dei maestri o persone prime (da Schlosser a Riegl, Boas, Panofsky, Goodman, Haskell...) che hanno dialogato con Gombrich mettendone in luce gli eccellenti contributi di instancabile indagatore, capace di resistere, come pochi altri, alle propagande devianti che, con insistenza calcolata, "tendono a farci credere che abbiamo il dovere morale di andare con i tempi" anche quando i tempi esigerebbero serie correzioni e non consensi spensierati.
 
Pubblicato da L'Arena  di Verona il 19 novembre 2004
 
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