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Rapporto concettuale e sintesi dei lavori del Colloquio Internazionale sul "dopo-sviluppo"

"Défaire le développement, refaire le monde"

Parigi, Palazzo dell'UNESCO, 28 febbraio, 1-2-3 marzo 2002.

(a cura di Paolo COLUCCIA, http://digilander.iol.it/paolocoluccia )

Disfare lo sviluppo, rifare il mondo: titolo estremo, ambizioso e provocatorio, ma anche processo intenzionale ed internazionale, a metà strada tra utopia ed ambiguità, tra speranza e certezza, tra crisi e ricerca. Impossibile fare una sintesi di quattro intense giornate di lavoro, scandite da ritmi stakanovisti, contenute nei tempi e nei programmi, ricche di riflessioni, dialoghi, proposte e sogni.

Organizzato da La Ligne d'Horizon - Les amis de François Partant(1) e da Le Monde Diplomatique, accolto nel Programma MOST(2), il Colloquio si è svolto nella sala generale delle conferenze e, relativamente ai laboratori, nelle numerose sale attrezzate dell'UNESCO(3). Traduzione simultanea delle tre lingue accreditate: inglese, francese e spagnolo.

Circa un migliaio i partecipanti, un centinaio gli invitati: svariate le nazionalità rappresentate, molteplici le culture, i colori, le diversità, le mode, gli atteggiamenti, i pensieri, le riflessioni, le necessità e le istanze espresse. Altissimo il livello culturale, soprattutto tra la marea di partecipanti. Mi ha colpito la sicurezza e l'animosità degli interventi dalla platea. Proprio la caratteristica del "Colloque", dove uno va a parlare e non soltanto ad ascoltare. Noi non siamo tanto abituati, in quanto partecipando a seminari e convegni tendiamo di più ad ascoltare i relatori, che quasi sempre assorbono e monopolizzano tutto il tempo a disposizione. Rare le eccezioni, almeno attuate in tempi molto recenti.

Imperterriti per tutti e quattro i giorni a seguire i lavori, attenti a non interferire con i ritmi degli interventi, composti e puntuali nell'iniziare e nel terminare le pause-caffé delle riunioni plenarie, dei laboratori e delle tavole rotonde. Inimmaginabile in Italia tanta precisione cronometrica. Potevi benissimo dare un appuntamento a qualcuno alle 18,31 nella sala-accoglienza se il laboratorio cui eri impegnato terminava alle 18,30. Era impossibile subire un ritardo. Lo stesso valeva per l'inizio e per i rientri. E poi dicono della precisione dei tedeschi! E i francesi, dove li mettiamo? E si trattava di svariate centinaia di persone che si muovevano contemporaneamente da una parte all'altra del piano terra e del piano seminterrato del Palazzo dell'UNESCO. Se penso all'organizzazione di molti nostri convegni e seminari che accumulano ritardi inverosimili ed incredibili... ma meglio non inveire!

A fare gli onori di casa Serge Latouche (che a suo tempo mi rivolse l'invito ad intervenire), personaggio di spicco della cultura francese e mondiale, professore emerito dell'Università di Parigi XI, molto conosciuto in Italia per i libri pubblicati nella nostra lingua e per le innumerevoli conferenze tenute per conto di molte organizzazioni culturali nazionali, presidente de La Ligne d'Horizon - Les amis de François Partant. Inoltre, a tenere le fila organizzative e partecipative, nonché con un preciso impegno a condurre e ad animare la riflessione, Silvia-Perez Vitoria (vice-presidente della medesima associazione) e tutti gli altri aderenti all'associazione or ora citata. Infine l'inesauribile affiancamento degli aderenti ad un altro prestigioso gruppo associativo francese: Solidarité, di cui è interessante visitare il sito Internet: www.solidarite.asso.fr, coordinata da Jean-Luis Bato.

Prima stella in assoluto Ivan Illich, vivace vegliardo (80 anni?) intellettuale, precursore della critica dello sviluppo a partire dagli anni sessanta, coerente fino all'inverosimile, tanto da "conservare" (come dice qualche voce maligna) su tutta la guancia destra, dall'orecchio al mento, una "naturale costruzione" di protuberanze adipose, senz'altro cisti benigne accumulate nel tempo, che all'iniziale insorgenza si sarebbero potute estirpare tranquillamente. Sempre circondato da un nugolo di partecipanti, vecchi allievi e giovani donne, accovacciato per terra o in qualche angolo di sala, non ha lesinato battute e sarcastiche argomentazioni, forte del suo carisma personale ed intellettuale. C'era chi ammetteva apertamente di aver plasmato il proprio pensiero sui libri di Illich agli inizi degli anni '70.

Ospite d'eccezione e comunicatore eccezionale José Bové, famoso paysan in maniche di camicia a quadrati rossi di flanella, baffone rossiccio, corpulento nel fisico, timido ed impacciato tra gli intellettuali, loquace nell'intervento alla riunione plenaria e nelle interviste con i giornalisti, inesauribile protagonista della battaglia contro le manipolazioni genetiche nel settore dell'agricoltura e dell'alimentazione.

E poi tanti altri, provenienti da ogni parte del mondo, di cui non citerò il nome per non dilungarmi e per non fra torto a qualcuno per eventuale dimenticanza. Di seguito riporterò una parte delle idee e delle riflessioni da loro espresse, così eviterò di citare me stesso e il mio piccolo successo personali... accidenti! L'ho fatto, volontariamente o involontariamente non lo so, scusatemi! E' difficile sconfiggere la vanità!

Ma andiamo al dunque: quale migliore sintesi degli argomenti, per iniziare, se non quella espressa dal susseguirsi incontrastato di quanto riportato nel programma contenuto nel depliant a suo tempo divulgato e solo leggermente variato nei fatti?

 

Inquadramento tematico.

Storicamente l'era dello sviluppo fa seguito a quella della colonizzazione, come l'era della mondializzazione parte da quella dello sviluppo. L'occidentalizzazione del mondo e l'uniformazione planetaria si rinforzano con l'accumulazione senza limite del capitale sempre accreditato dalle aziende transnazionali. La guerra economica e le ineguaglianze non si dispiegano più soltanto tra i popoli, ma anche in seno agli spazi nazionali. La distruzione dell'ambiente è universale.

Questa evoluzione nutre molteplici resistenze che si fondano spesso sulla nostalgia e portano a volte a dei ripieghi identitari disastrosi. Non c'è avvenire ecologico, culturale e politico sostenibile e augurabile aldilà di una necessaria decolonizzazione dell'immaginario.

Bisogna uscire non solo dalla mondializzazione ma anche dallo sviluppo, scuotendo il gioco della dittatura economica. Questo significa per il Sud, come per il Nord del mondo, liberare le iniziative e le alternative d'ogni sorta al fine di rompere la costrizione ad una storia unidimensionale. Dopo il risveglio di Seattle, è arrivato il momento di allargare il dibattito e di approfondire le analisi. Bisogna riprendere in mano i propri destini, disfare lo sviluppo e riannodarsi con la pluralità dei mondi.

Lo sviluppo è stato una grande impresa paternalistica - i paesi ricchi sviluppano i paesi meno avanzati - che ha occupato approssimativamente una trentina di anni (1945-1975). Questa grande ambizione ha fatto molte vittime al Sud del mondo, mentre al Nord è stata considerata un enorme successo.

Questo ritratto dello sviluppo crea una concettualizzazione occidentale, un'immagine che con forza sfocia nella mondializzazione e viene trionfalmente fatta passare con uno slogan che si rivela nel fondo sicuramente mistificatore. Un immaginario di tal fatta rimane in campo. Si ritrova sempre l'occidentalizzazione del mondo, pratica incontrastabile che colonizza le idee e le riflessioni con le accattivanti immagini del progresso, della scienza e della tecnica.

L'economicizzazione e la tecnicizzazione del mondo sono arrivati alle estreme conseguenze. Retorica dello sviluppo e dell'espertocrazia: queste le credenze escatologiche di una prosperità materiale possibile per tutti. Questo è lo "sviluppismo"!

Occorre rimettere in discussione la questione dell'accumulazione capitalistica e della crescita economica, per evitare una specie di "camposanto" sociale.

Il ricorso allo sviluppo "durabile" è un'altra mistificazione concettuale, partecipa di una certa tossicità mentre ci illude con la promessa di uno sviluppo che duri per l'eternità. Occorre uscire e sfuggire non solo dalla mondializzazione ma anche dalla dittatura economicistica.

Questo vuol dire liberare, per il Sud quanto per il Nord del mondo, le iniziative teoriche e pratiche di ciascuno. Non ci può essere avvenire ecologico, culturale e politico senza decolonizzare il proprio intelletto. Si può e si deve riflettere e lavorare per il dopo-sviluppo se si vuole in particolare re-introdurre il sociale e il politico nei rapporti umani e nello stesso scambio economico, per ritrovare un obiettivo di bene comune.

Perciò occorre disfare lo sviluppo e rifare il mondo. Questo è l'obiettivo del colloquio.

I paesi del Terzo mondo saranno i primi a subire in pieno la crisi climatica. Non si discute in India dei cambiamenti climatici nel mondo, perché la gente si batte con problemi enormi e brutali. Occorre cominciare a mettere in discussione questo modello di sviluppo irresponsabile.

Sarà difficile per i paesi ricchi cambiare le proprie abitudini. Il loro egoismo è incontestabile e fin troppo evidente. I paesi sviluppati non cambieranno spontaneamente: nessuna società si trasforma spontaneamente. Occorre che prima ci siano catastrofi e lutti.

C'è una sorta di coalizione tra il mondo occidentale e le élites del Terzo mondo, per appropriarsi delle risorse e per conservare fin dove possibile questo modello di sviluppo. Tutto questo è comparabile alla corsa agli armamenti nucleari. Oltre ad essere una questione morale, bisogna ammettere che la soluzione della questione è il rispetto dell'ambiente. Su questo non ci sono alternative.

Si presenta lo sviluppo come una panacea, come la soluzione ad ogni problema. Si trascurano in maniera abnorme quali sono le conseguenze sociali, ecologiche ed etiche.

La nostra epoca è convinta che grazie allo sviluppo e al progresso tutti potranno beneficiare non soltanto dell'abbondanza di beni e di servizi a basso prezzo, ma anche della pace e della democrazia.

Questa credenza è, per molti versi, dannosamente miope.

Privilegiando la tecnica e l'economia rischiamo di dimenticare i processi multidimensionali dei vari aspetti della vita sociale. Inoltre, lo sviluppo tecno-economico ingenera lo sfruttamento incontrollato delle risorse. Questo è molto dannoso e rischioso: oltretutto per i cambiamenti sociali e per l'ambiente.

La maggior parte della gente che vive sulla terra cerca di mantenere una sostanziale stabilità ed un equilibrio sociale ed esistenziale. Solo una parte della popolazione mondiale ha la pretesa di vivere in maniera estrema. Conviene prepararsi in tempo al dopo-sviluppo, perché la così instabile economia mondializzata non riuscirà ad essere durabile.

Sia lo sviluppo sia l'economia globalizzata soffrono della caratteristica dell'instabilità: la loro caduta potrebbe essere imminente. Ciò porterà e comporterà inevitabilmente nuove e molte sofferenze, disillusioni, drammi. Ma forse renderà ancora possibile la salvaguardia ecologica e si eviterà la catastrofe climatica. Questo ci incita a riconsiderare i presupposti di base dello sviluppo economico. La nostra speranza è di riuscire a recuperare lo spirito della comunità, in uno scenario più umano e duraturo.

La nozione di sviluppo è recente. La sua prima apparizione è in un discorso di Truman nel 1949. La sua definizione è imparentata alla nozione religiosa della "salvezza". Purtroppo è al servizio di interessi particolari, quelli della nazione più potente del mondo.

Con lo sviluppo la felicità è alla portata di tutti i "sottosviluppati". Questo è il nuovo vangelo, l'atto di inaugurazione della nuova era. Questo progetto fa apparire lo sviluppo come un progetto collettivo che sembra coinvolgere l'intera comunità. Come è possibile criticare una credenza che promette una felicità universale? Da quel momento più di due miliardi di persone hanno accettato di cambiare nome. Non si chiameranno più Africani, Latino-Americani, Shona, Berberi, Queuchas, Aymaras o Mongoli, ma semplicemente "sottosviluppati". Se prima erano in generale "i selvaggi", ora sono ancora più genericamente "i sottosviluppati". Questa definizione è stata accettata da chi era alla testa di veri e propri Stati indipendenti, al fine di beneficiare dell'aiuto che doveva condurre allo "sviluppo". In questo modo essi hanno perduto il diritto all'autodeterminazione e alla propria autonomia economica. Inoltre, per seguire la via dello sviluppo tracciato da altri per specifici interessi si sono indebitati.

Lo sviluppo è una camicia di forza che è stata fatta indossare dalle nazioni ricche a quelle più povere, mascherando il tutto con la benevolenza. Il costo dello sviluppo è stato enorme: investimenti colossali per creare ancora molte più ineguaglianze.

Lo sviluppo impone i suoi prodotti in modo incondizionato: bisogna comprare sempre e comunque, anche il superfluo! La diminuzione delle scelte fondamentali determina l'angoscia. Lo sviluppo conviene a chi fa profitti, a chi riesce a convincere i sottosviluppati ad avere bisogno di prodotti che il modello economico occidentale offre qualificandosi come società dell'abbondanza.

Si assiste alla "reificazione" dei bisogni umani, predeterminata da grandi organizzazioni che riescono a dominare l'immaginazione del consumatore, anche di quello che è ancora in potenza.

Il sotto-sviluppo è perciò la conseguenza di uno sviluppo che mostra e orienta ai consumi universali, che obbliga all'aumento dei consumi e delle vendite. E' una vera e propria dipendenza dallo sviluppo!

E' necessaria una contro-ricerca, per trovare soluzioni suffragate dal buon senso e che siano soprattutto poco onerose. Questo non sarà facile.

La distruzione sistematica delle numerose economie di sussistenza produce la grande miseria di massa. La modernità genera il concetto di povertà. La dissoluzione dei legami sociali rende fragile la nostra condizione di vita materiale. Dalla povertà alla miseria il passo è breve. La miseria è la mancanza del necessario.

Lottare contro la povertà e la miseria è qualcosa che tocca ciascuno di noi. Questo implica una conversione sincera di ciascuno ad un modo diverso di vivere, di fare, di dire, di creare, di condividere e di amare l'altro. Ma questo deve essere attuato senza che sia emanazione di una nostra ideologia politica o religiosa, ma che sia basato sulla nostra volontà, in un rapporto nuovo con noi stessi e con gli altri.

Lo sviluppo può essere durabile? Oppure questa è una semplice precauzione? Oppure un insieme di buone intenzioni? Si chiama ossimoro o antinomia una figura retorica che cerca di mettere insieme due parole contrastanti. E' una procedura espressa dai poeti per dire l'inesprimibile, ma anche abusata dai tecnocrati per far credere l'incredibile! In questo modo abbiamo "la mondializzazione dal volto umano", "l'economia solidale", "lo sviluppo sostenibile e durabile".

Quest'ultimo non è una trovata degli economisti, ma è uno slogan coniato negli ambienti delle Nazioni Unite che si interessano di ambiente e sviluppo. Per alcuni lo sviluppo sostenibile deve essere rispettoso dell'ambiente, per altri deve tendere a modificare il nostro modello economico di crescita infinita e quindi del nostro modo di vivere.

Ci sono politici, industriali e intellettuali convinti della bontà e della reale possibilità di perseguire lo sviluppo sostenibile. Fin dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 c'è stata una concordanza di interessi in questo modo espressa: "Uno sviluppo durabile, che permetterà di rispondere ai bisogni dell'umanità, rispettando l'ambiente". Ma come far convivere la fascia dell'ozono e il sistema industriale occidentale?

La parola sostenibile è una bella parola, ma accanto al termine sviluppo diventa "tossica". E' un assemblaggio dei più nefasti.

La sola maniera per vivere in maniera durabile e sostenibile è uscire dallo sviluppo e dall'economicismo.

Due lettere dell'alfabeto dello sviluppo:

V come Verità di un modello unico valido per tutti!

X come XXL: la taglia dell'ambito e dell'ambizione dello sviluppo!

 

[Dal materiale distribuito e dagli interventi nella Serata Inaugurale - 28 feb. 2002, ore 18,00-20,00 giovedì - Animazione di Alain Gresh, di Le Monde Diplomatique, Introduzione al Colloquio di Serge Latouche, de La Ligne d'Horizon, Interventi di Aminata Traoré, François Doufur, Ivan Illich, José Bové ed altri - e nella Riunione Plenaria - 1° marzo 2002, ore 9,30-12,30 venerdì - : Animazione di Silvia-Perez Vitoria, de La Ligne d'Horizon]

Titoli delle relazioni principali:

     

  • Serge Latouche, Lo sviluppo non è il rimedio alla mondializzazione. In effetti è il problema.

     

     

  • Gilbert Rist, Bisogna uscire dallo sviluppo e dalla mondializzazione, cioè uscire dall'economia, riaprire la storia, la politica, la pluralità dei destini.

     

     

  • Lakashman Yapa, Le alternative non sono nello sfruttamento dell'esistente, ma nel dopo sviluppo.

     

     

  • Michael Singleton, Le prospettive del dopo sviluppo viste da altrove.

     

 

I 12 laboratori, accorpati in tre gruppi di quattro, hanno rappresentato il momento più denso e qualificante della riflessione, sia per le esperienze espresse sia per le istanze promosse e analizzate in un contesto internazionale.

Si svolgevano contemporaneamente quattro laboratori. Era perciò impossibile seguirli tutti. La presenza dei partecipanti è stata dalle 100 alle 150 unità per laboratorio, con parziale intercambio da uno all'altro al ritorno della pausa-caffé.

 

1° gruppo di laboratori (1° marzo 2002, ore 15-18, venerdì):

Miraggi e rovine dello sviluppo.

     

  1. L'abito nuovo dello sviluppo.

     

    Dietro i nuovi vocaboli (sviluppo durabile, sostenibile ecc.) le nuove priorità delle organizzazioni internazionali, come la lotta contro la povertà sostenuta dalla Banca Mondiale, l'interesse da parte delle multinazionali sulle esperienze alternative (il risparmio popolare incoraggiato da Monsanto) o il fiorire di comitati etici nelle imprese rivela forse una conversione dell'economia? Con una critica epistemologica dello sviluppo, il laboratorio cerca di descrivere fenomeni di recupero, di strumentalizzazione e di manipolazione che si servono del sotterfugio di fare "buon" sviluppo, contando su posizioni e situazioni di fatto dominanti. E' importante che emergano le malvagità che si nascondono e si cerca in tanti modi di nascondere dietro le parole.

     

  2. L'economia criminale: avvenire o verità dello sviluppo?

     

    La deriva criminale dell'economia di numerosi stati, tanto al Sud quanto al Nord, ci fa porre delle domande. Dietro alla deliquescenza dello stato e la sua sostituzione da parte delle mafie, sistemi di corruzione generalizzata o traffici di ogni genere, ci fa apparire nella sua triste evidenza la triste caricatura del modello economico. In questo senso l'economia criminale sarebbe un virus delle nostre società civilizzate. Mafie e trafficanti ci mostrerebbero i loro sistemi come in uno specchio.

     

  3. A vostro rischio e pericolo: lo sviluppo suicida.

     

    In questo laboratorio si ridiscute (o si mette in discussione?) qualche

    "credenza occidentale": la crescita benefica, il progresso salvatore, la tecnica al servizio dell'uomo.... Si studiano le conseguenze di questi dogmi sulla realtà. Sono oggetto di riflessione il rapporto dell'uomo con il suo ambiente, con l'economia, con la natura. Si può "ragionevolmente" gridare "altolà"!

     

  4. Lasciate, dunque, i poveri tranquilli!

     

"Bisogna liberare i poveri dalla povertà; bisogna aiutare il terzo mondo; bisogna permettere ai poveri di approfittare delle nostre ricchezze...". Ci si dovrebbe chiedere: e se il miglior servizio che si poteva rendere ai "poveri"fosse stato di fatto quello di... non occuparsi di loro? Di lasciarli tranquilli? Di astenersi, secondo il principio di precauzione, d'andare a fare più danni che buone cose, gioendo e godendo del proprio status di buoni samaritani? Si cerca di andare oltre la critica della nozione e della pratica dell'aiuto, ma ci si interroga anche sulle definizioni "tecniche" delle povertà, delle ricchezze, dei bisogni. Una grande domanda, intensa e provocatoria ad un tempo: e se lo scandalo più grande non fosse nella povertà, ma... nella ricchezza?

 

2° gruppo di laboratori (2 marzo 2002 ore 9,30-12,30, sabato).

Alternative allo sviluppo 1.

     

  1. Rispondere all'oppressione politica dello sviluppo.

     

    Gli effetti negativi dello sviluppo non sono soltanto d'ordine economico o ecologico. Dietro i discorsi della e sulla democrazia, sulla partecipazione e sui ruoli degli attori, si organizzano, di fatto, forme di dominazione ancora più subdole di quelle che prevalevano al tempo della colonizzazione. Spodestati del potere che possono avere sulle loro vite, le popolazioni arrivano ad essere incapaci di dare senso a quello che fanno e a quello che sono. Tuttavia, contropoteri, al Nord come al Sud, localmente e anche globalmente, arrivano a capovolgere questa situazione, che non diventa pertanto assolutamente fatale. Donne ed uomini riescono ancora a riprendere il potere della propria vita. Si riflette, dunque, su questa presa del potere da parte della base della società, cosa che forse è ancora alla portata di tutti.

     

  2. Di fianco e al di là dello sviluppo.

     

    In questo laboratorio, spostato in avanti nel tempo e nello spazio, propone di guardare lo sviluppo nel suo momento attuale e il dopo sviluppo, ma di guardare al doppio fenomeno con occhi differenti dai nostri, occidentali "sviluppati". L'obiettivo è rompere con l'etnocentrismo e con l'occidentalocentrismo di cui siamo, nel bene e nel male, tutti un po' portatori, anche quando si è una ONG ben intenzionata... Hanno poco a che fare con i nostri discorsi, le nostre critiche, tutti i relegati nell'emarginazione, i drogati, le prostitute. Quale curioso sguardo porgono ai nostri appelli universali gli adepti dei nuovi movimenti religiosi? Come giustifichiamo i profeti africani o gli imam islamici? Queste questioni rinviano a realtà importanti e portatrici di senso per le numerose popolazioni del pianeta che vivono ad anni luce lontano dalla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del diritto di cittadinanza.

     

  3. Sopravvivere allo sviluppo.

     

    Accanto al rullo compressore della mondializzazione, spesso in maniera del tutto invisibile e silenziosa, molte persone si organizzano nell'urgenza e nella disfatta. Pian piano, strategie di sopravvivenza si organizzano e si concretizzano, si mettono in campo sistemi informali, pratiche vernacolari sono rimesse al servizio della collettività, attività di bricolage permettono in qualche maniera di cavarsela, l'espediente supplisce ai "programmi di sviluppo"... Sembra, stranamente, la vera via. Alternative deboli, che ignoriamo, almeno noi occidentali sviluppati. Forse faremmo meglio a tacere e, per una volta, metterci ad ascoltare...

     

  4. Ritrovare il senso della misura.

     

Rimettere in discussione lo sviluppo significa in qualche modo rimettere in discussione i nostri bisogni "illimitati", i nostri desideri "smisurati", le nostre utopie eterne e le nostre aspirazioni "universali"... E' qualcosa di estremamente difficile per le nostre società, che si immaginano "morte" se non riescono a "crescere" ogni giorno. Ci si interroga, perciò, su queste nozioni, che forse riusciranno a salvarci: i limiti, la durata, il provvisorio, l'aleatorio, il tempo umano. Cerchiamo di essere più modesti. Cerchiamo di essere più ragionevoli. Ritroviamo il senso della misura!

 

3° gruppo laboratori (2 marzo 2002, ore 15-18, sabato).

Alternative allo sviluppo 2.

     

  1. Riappropriarsi del denaro.

     

    C'è una tendenza che considera il denaro uno strumento del diavolo. Questa è sempre esistita negli ambienti "alternativi". Si confrontano esperienze e teorie sulla moneta rimessa al suo posto, per un suo utilizzo sociale, al servizio dell'uomo. Come re-interpretare la funzione sociale del denaro? Si confrontano e si testimoniano le pratiche fondate sui sistemi di scambio locale non monetari, le esperienze di microcredito, le finanze etiche ed alternative, le monete sociali, le monete fondanti ecc.

     

  2. Riappropriarsi dei saperi.

     

    Spossessate dei saperi tradizionali giudicati obsoleti dai profeti occidentali della scienza e della tecnica, intere popolazioni sono diventate analfabete, grazie all'aiuto e allo sviluppo, ignoranti e analfabeti della loro stessa cultura e della loro stessa lingua. Alcune iniziative cercano di acquisire e di far acquisire coscienza di questa dispersione. Può essere il modo di operare una riappropriazione benefica per tutti: quella del proprio sapere.

     

  3. Si può resistere su Internet?

     

    La resistenza alla mondializzazione si organizza dappertutto e con tutti i mezzi. Internet è così diventata un'utilità che numerosi militanti in tutto il mondo si sono messi ad utilizzarla, raggiungendo dei risultati apprezzabili. Ma in questa rete saremo il ragno... o la mosca? La resistenza soccomberà nel virtuale o saprà approfittare di Internet per organizzare nuove reti? La discussione impegna difensori, utilizzatori e avversari di questa procedura comunicativa. Difficile su questo tema raggiungere l'unanimità!

     

  4. Autosufficienza, commercio internazionale o commercio equo?

     

L'OMC rappresenta il male dell'economia. Il commercio equo, può essere una soluzione? Ci si interroga e si cerca di immaginare quale ruolo possa avere per l'umanità ciascuna delle tre possibilità esposte nel titolo del laboratorio.

 

Tavola Rotonda (Domenica 4 marzo, ore 9,30-12,30):

Prospettive del dopo-sviluppo

animata da Anne-Cécile Robert e Christoph Baker

 

Brevissime introduzioni degli animatori e di qualche invitato. La parola è affidata quasi per intero alla platea zeppa di partecipanti ed invitati. Numerosi gli interventi. Varie le proposte. Discordanti le intenzioni. Gli applausi si confondono con rumorose contestazioni. Qualcuno propone un comitato che coordini l'informazione. La bocciatura è immediata: c'è il rischio che si formalizzino dei poteri incontrollati e incontrollabili. Ma la necessità di un'informazione "planetaria" è evidente e necessaria: chi ha voglia di imbarcarsi nell'opera o di sobbarcarsi all'onere? E, soprattutto, l'informazione è ancora considerata il "potere" per eccellenza. Queste sono reali difficoltà. Si naviga in mare aperto. Il problema c'è, è difficile trovare soluzioni. Ho pensato di intervenire, ma non l'ho fatto, per lasciare maggiore possibilità agli altri, venuti da ogni parte del mondo, di intervenire. Impossibile sintetizzare i contributi di tutti. Avrei voluto dire questo: "Cosa occorre per fare tutti insieme una tavola rotonda? Essere, innanzitutto, seduti ad una tavola rotonda! Utilizzando una struttura tipicamente occidentale, come può essere una sala conferenze di un organismo internazionale modernizzato, non si ha la possibilità di guardarsi tutti negli occhi. Le difficoltà sono dunque strutturali e strumentali. Ma anche il nostro immaginario ragiona in termini modernistici. Ci è difficile de-strutturare il nostro immaginario. Il progetto della modernità ha cancellato molte tavole rotonde e abbiamo supinamente accettato i simboli piramidali: molta verticalità, nessuna orizzontalità. Come ricreare una "tavola rotonda", almeno nel nostro immaginario? E' molto difficile. Lavoriamo praticamente a livello locale, nel nostro livello locale, con il nostro lavoro quotidiano, la nostra professionalità e la nostra creatività. E lavoriamo ancor più a livello globale per un'informazione comune, contattandoci, rispondendoci, domandandoci sulla nostra esistenza e sul nostro futuro, per arrivare ad una comunicazione comune, che poi è "un'azione comune", tramite Internet. La comunicazione: è un problema di volontà, del singolo e della moltitudine. Si può risolvere, oppune no! E qui casca l'asino: una rete, da tanti invocata, non è facile da costruire, perché... non si può "costruire". La rete è un problema metodologico prima di tutto del nostro immaginario. La rete è un problema anche a livello familiare. La rete è ancor più una difficoltà a livello sociale. Pensiamo un po' cosa può essere a livello planetario. Una rete non è un progetto, è un sistema autorganizzato. Un sitema autorganizzato è emergente! È come il batterflay effect, per dirla con Lorenz, il battito di una farfalla i Brasile che provoca un tornado nel Texas. Qundi una rete è autopoietica, si autodetermina, emerge".

Ma questo è un discorso assai complicato! Vedremo più in là o in altra occasione come affrontarlo.

 

La pubblicazione degli Atti del colloquio farà giustizia delle mie deficienze concettuali e di sintesi e soprattutto delle mie inesattezze. Per avere notizie sulla pubblicazione degli Atti si può scrivere a La Ligne d'Horizon - Les amis de François Partant (vedi nota 1)

 

________________________

 

 

NOTE

 

(1) La Ligne d'Horizon - Les amis de François Partant è un'associazione fondata da un gruppo di persone l'anno successivo alla morte dell'intellettuale francese François Partant (1926-1987), sensibile all'originalità e all'attualità del suo pensiero e delle sue analisi.

I suoi obiettivi sono:

     

  • diffondere le analisi di François Partant;

     

     

  • confrontarle con le mutazioni della nostra società;

     

     

  • approfondire la riflessione sulle alternative.

     

L'Associazione promuove e diffonde dal 1998 gli scritti di François

Partant, i suoi films e le sue idee, partecipa e organizza dibattiti e colloqui, tra cui alcuni assai interessanti e suggestivi già a partire dallo stesso titolo:

     

  • Il lavoro ha un avvenire? (Paris, 1993);

     

     

  • Silenzio, si sviluppa... la povertà! (Paris, 1996);

     

     

  • Uscire dall'impostura economica (Lyon, 1997);

     

     

  • Disfare lo sviluppo, rifare il mondo (Paris, 2002)

     

Il suo indirizzo è:

La Ligne d'Horizon, 7 Villa Bourgeois 92240 Malakoff (F).

Mail: lalignedhorizon@wanadoo.fr

François Partant nacque nel 1926. Economista di formazione e dirigente nel settore bancario, accettò nel corso degli anni sessanta di dirigere un'agenzia in Iran al tempo dello Scià. Fu in quel contesto che cominciò a porre alcune questioni sul sistema bancario e le sue pratiche. Dopo qualche anno rientrò a Parigi e, operando in una banca del settore pubblico, venne inviato a dirigere una società d'investimenti in Madagascar. Qui lavorò allo "sviluppo" dell'isola, attività di cui sarà molto critico dopo qualche tempo. Ritornato in Francia assistette agli avvenimenti del '68, dai quali fu profondamente colpito. Fu in questo periodo che decise di interrompere il suo rapporto di lavoro salariato e si mise a scrivere libri e articoli. Criticò i piani di sviluppo della Repubblica del Congo; in seguito si recò ancora in Madagascar, dove analizzò la situazione socioeconomica dell'isola, forte della sua precedente esperienza, e pubblicò molti documenti e articoli per Le Monde Diplomatique sotto vari pseudonimi. Rientrato in Francia consacrò la sua attività alla scrittura di articoli, libri e collaborò con varie riviste anche se in modo occasionale. I suoi scritti principali, molti dei quali curati e riediti da La Ligne d'Horizon sono:

- La guérilla économique (1976);

     

  • Que la crise s'aggrave (1978);

     

     

  • Le pédalo ivre (1980);

     

     

  • La fin du développement (1983, 1987);

     

     

  • La ligne d'horizon (1988).

     

Quest'ultimo, curato dall'omonima associazione nell'anno successivo alla sua morte, analizza l'idea di progresso e la crisi del sistema economico e pone nell'agricoltura una speranza di ricostruzione.

F. Partant è morto nel 1987 a 61 anni. Una raccolta di articoli scritti tra 1l 1977 e il 1987 è apparsa nel 1993 con il titolo Cette crise qui n'en est pas une.

Il pensiero di François Partant e la riflessione de La Ligne d'Horizon: "Il presente non ha futuro".

"Il presente non è gaio. Basta aprire il giornale per esserne convinti. Il futuro è ancora più oscuro. Mentre nel terzo mondo la fame aumenterà, noi vedremo a casa nostra la disoccupazione e la povertà estendersi" (F. Partant)

Il sistema economico attuale si basa su un postulato, l'espansione continua, di cui il motore è la dinamica concorrenziale; e al di fuori di quella, nessuna salvezza! Questa espansione ha luogo sulla sacrosanta ideologia dello "sviluppo", sostenuto dalla maggioranza degli economisti e degli uomini politici: questi devono portare la felicità all'insieme dei popoli! Ma si è visto, dapprima nel Sud, e pian piano anche nel Nord, economie locali ed esistenze distruggersi, inquinamenti di vario tipo mettere in gioco l'equilibrio della nostra biosfera, concentrarsi i profitti, mentre la miseria si diffonde.

L'era industriale sfocia in una via senza uscita: ecologica, sociale (il numero di esclusi non cessa di crescere), morale (quale qualità di vita abbiamo o avremo in futuro?).

La spartizione del lavoro, lo sbocco delle esportazioni, la formazione professionale, lo sviluppo durabile non sono che dei palliativi o delle false promesse. L'evoluzione tecnologica e le sue conseguenze esistenziali sfuggono a tutti. A sua volta la crescita provocherà ancora più disoccupazione e precarietà.

"Anche se a lungo assimileremo l'evoluzione della nostra società a quella dell'umanità avanzando verso un termine ideale ed indefinito di futuro; anche se a lungo vedremo, nel nostro progresso scientifico e tecnico, la prova di questa evoluzione d'insieme, non perverremo lo stesso ad immaginare un progetto politico nuovo" (F. Partant).

Perciò la prima cosa da fare è essere lucidi: non aderire al mito dello sviluppo, ma farne un'analisi critica; astenersi dal pensare che tutti i popoli della terra hanno la stessa aspirazione; vedere che la logica di questa competizione sfrenata ha mostrato la sua incapacità a rispondere ai bisogni vitali della maggioranza delle persone di questo pianeta; vedere che la rivoluzione verde, l'agricoltura industriale e il commercio internazionale hanno portato la fame e la miseria in numerose zone del mondo.

"Non si tratta di preparare un avvenire migliore, ma di vivere altrimenti il presente" (F. Partant).

Non si vede alternativa all'ordine economico attuale perché in modo sottomesso si rifiuta di mettere in forse i principi stessi di quest'ordine.

Favoriamo allora tutte le iniziative che rimettono in discussione il nostro modo di vivere e il nostro tipo di produzione. Ricreiamo tutte le reti d'incontro, di solidarietà, di scambio fondate sulle capacità di ciascuno e sul bisogno di tutti.

Il rifiuto dell'esclusione deve essere una priorità, questo implica di agire con gli esclusi.

Le molteplici resistenze d'oggi ci permetteranno forse, domani, di ribattere a partire da nuove concezioni.

(Dal depliant preparato per il Colloque e dal sito Internet http://www.apres-developpement.org).

 

(2) MOST (Management of Social Transformations Programme) è un programma dell'UNESCO che favorisce le ricerche internazionali per l'elaborazione di politiche e riflette sulle trasformazioni sociali e sulle questioni di importanza mondiale del momento. Creato nel 1994, questo programma punta a:

     

  • sviluppare la conoscenza delle trasformazioni sociali;

     

     

  • stabilire legami duraturi tra i ricercatori in scienze sociali e decisori politici;

     

     

  • rinforzare le capacità scientifiche, professionali e istituzionali, particolarmente nei paesi in via di sviluppo;

     

     

  • sostenere l'elaborazione di politiche basate sulla ricerca;

     

In breve, la gestione delle trasformazioni sociali determina i seguenti

campi d'azione di MOST:

     

  • sviluppo e condivisione delle conoscenze acquisite generano scambio di conoscenze sulle trasformazioni sociali contemporanee maggiormente espresse dalle reti di ricerca internazionale, da gruppi di esperti, da riunioni, da conferenze, da laboratori, da pubblicazioni, da forum di discussione e dal suo sito Internet.

     

Dalla ricerca alla decisione.

Il programma studia l'impatto della ricerca sulla politica, conduce studi specialistici e pertinenti per l'elaborazione di politiche, apporta le sue competenze alle iniziative di sviluppo e diffonde l'informazione sull'elaborazione di politiche basate sulla ricerca.

Rinforzo delle capacità e della formazione.

Il programma MOST offre materiale di formazione, utilità pedagogiche e CD-ROM; organizza laboratori e Università d'estate in cooperazione con le istituzioni nazionali e con le altre agenzie delle Nazioni Unite; rinforza le capacità istituzionali e scientifiche nei paesi in via di sviluppo; organizza un premio internazionale MOST per una tesi di dottorato destinata ai giovani ricercatori dei paesi in via di sviluppo e in mutamento.

Al fine di adattarsi ai cambiamenti mondiali rapidi, i temi e le priorità di MOST si evolvono continuamente. Attualmente queste sono le sfere di priorità:

     

  • Mondializzazione e governance.

     

Si tratta di migliorare la comprensione del processo di mondializzazione e del suo impatto sui nuovi meccanismi e strutture di governo. I progetti in questa sfera analizzano e sostengono le politiche di sviluppo locale e le strategie di gestione regionali, particolarmente nelle regioni sfavorite e nei paesi meno sviluppati.

     

  • Società multiculturali e multietniche.

     

I ricercatori in scienze sociali devono informare i decisori politici sul modo di supportare le azioni sociali e le politiche che intravedono lo sviluppo della pace. I progetti si rivolgono particolarmente all'integrazione sociale di gruppi di immigrati minoritari; all'analisi delle barriere politiche e giuridiche che si oppongono alla cittadinanza e ai servizi sociali di base; alla prevenzione dei conflitti e al miglioramento delle conoscenze del settore pubblico.

     

  • Sviluppo e governo urbano.

     

I progetti in questo campo si sforzano di assicurare la partecipazione dei cittadini alla promozione, alla creazione e allo sviluppo delle condizioni umane socialmente durabili; d'accrescere la coesione sociale nelle città; di generare conoscenze pertinenti per l'elaborazione di politiche sulla gestione urbana, in particolare sugli aspetti sociali, economici e politici del governo urbano: di sostenere le iniziative innovatrici nella sfera della formazione della città.

     

  • Sdradicamento della povertà.

     

L'appello del Segretario generale delle Nazioni Unite rivolto a tutte le Agenzie del sistema è di contribuire all'obiettivo di ridurre della metà la povertà estrema prima del 2015. Ciò porta l'UNESCO a sviluppare una strategia a riguardo. Il programma MOST, insieme ad altri settori dell'UNESCO, ha preparato questa strategia. Nel periodo 2002-2003 le attività imprenditoriali in questo campo per tutti i settori dell'UNESCO saranno coordinati a livello concettuale da MOST.

I partenariati.

Il programma MOST lavora con organizzazioni intergovernative internazionali, nazionali e regionali specializzati nelle scienze sociali e con gruppi di ricerca. Ha anche legami con le Organizzazioni non governative, con le Agenzie delle Nazioni Unite, con i programmi della Banca Mondiale, con l'UNICEF e con altre organizzazioni intergovernative.

Per ogni ulteriore informazione (riunioni, avvenimenti, progetti, attività, studi in corso, pubblicazioni ecc.) si consiglia di visitare il sito Internet di MOST alla pagina http://www.unesco.org/most, e-mail: ssmost@unesco.org. (Dal depliant distribuito al Colloque)

 

(3) L'UNESCO è l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, le scienze e la cultura, un'agenzia specializzata delle Nazioni unite con sede a Parigi (F). L'UNESCO porta avanti attività in numerosi campi e favorisce la cooperazione intellettuale e scientifica internazionale, nei suoi campi di competenza. Tra gli organismi delle Nazioni Unite, l'UNESCO è il solo organismo ad avere il mandato di favorire lo sviluppo delle scienze sociali.

 

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A cura di Paolo Coluccia, ricercatore sociale indipendente.

Sito Internet: http://digilander.iol.it/paolocoluccia

E-mail: paconet@libero.it

 

Riproduzione libera.

 

Edizioni LILLIPUT

Anno 2002.

 


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