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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
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DUCHAMP E IL DADAISMO

di Gian Luigi Verzellesi

Nel librone elegantissimo, che un giovane studioso, Alessandro  Del Puppo, ha dedicato a Duchamp e il dadaismo (E-ducation.it S.p.A., Firenze, 2008), si legge che “noi oggi ammiriamo gli oggetti di Duchamp dentro le teche dei musei, in tirature multiple e molto spesso postume”. Ciò attesta forse che la miscela esplosiva dadaista, volta a deridere l’arte d’ogni specie ha ottenuto il suo scopo? In realtà, è riuscita soltanto a sostituire il vecchio, millenario estetismo ( come fanatico culto dell’arte) con il nuovo cerimoniale dell’antiarte.

Il primo attacco alla tradizione occidentale, deformata e vilipesa, serpeggia già nella critica di Baudelaire e nella “cricca dei wagneriani” ( Popper); il secondo, molto più rumoroso e sconvolgente, è sferrato dai futuristi, in particolare dai nostrani capeggiati da Marinetti. Le varie nidiate dei dada,  dal 1916 al 1922 circa, hanno continuato ad ispirarsi alle serate futuriste come “grotteschi spettacoli volti a scandalizzare i benpensanti” (G. Contini) delle contemporanee generazioni europee ed americane. Tuttavia, a differenza dei pionieri italiani, feroci fautori di “violenza travolgente e incendiaria” e della guerra come “sola igiene del mondo”, i primi accoliti di dada, giovani filistei goderecci riuniti nella pacifica Zurigo, erano molto inclini a coltivare un pacifismo farneticante, anarcoide, avverso ad ogni impegno etico-politico. Accanto alla loro cerchia (formata da Ball, Hennings, Huelsenbeck, Richter, Arp, Tzara, Janco, Eggeling) faceva da scudo protettivo un formicaio di “agitatori, renitenti e disertori”: non si sa quanto consapevoli del fatto che nelle salette ospitali del cabaret Voltaire, si stava coltivando –così precisa Del Puppo- “un ideale di polemica  contro l’assurdità e la idiozie “ circolanti nonostante il tempo di guerra.

Ma leggendo le pagine e guardando lo sgargiante apparato illustrativo di questa diligentissima rievocazione delle imprese dada, ogni lettore, un poco attento, si accorge che, quanto a grullerie effervescenti e fulminanti insensatezze, i dadaisti, ora rivisitati con benevolenza agiografica (ossia Picabia, Schamberg, Arp, Hausmann, Schwitters, Hoech, Ray, Ernst, Dix, Grosz), non hanno perso l’occasione di gareggiare in esibizioni rare di assurdità, tra le quali spicca quella offerta da Picabia: “voi non comprendete ciò che facciamo. Ebbene, cari amici, noi lo comprendiamo ancora meno”. Con non poche altre, disseminate nel libro da Del Puppo, questa battuta sintomatica è quasi l’emblema del gusto del vaniloquio sorprendente, che sta alla radice del nichilismo avanguardistico dei dada come “culto della spontaneità maniaca” e “dilettazione dell’assurdo” (E. Zolla).

Nella sua rigorosa Storia del Novecento ( ed. Mondatori), Luigi Salvatorelli sostiene che questa inclinazione nichilista dei dadaisti e il loro successo, non si spiegherebbero “senza quell’oscuramento del senso critico, la cui prima origine si trova nell’irrazionalismo filosofico dell’anteguerra” e nella “crisi del senso morale”. In realtà, i dadaisti delle più varie specie hanno continuato a denigrare, ora freneticamente, ora spensieratamente, ogni specie di serietà. Ma il loro comportamento anarchico, specchiato dalle manifestazioni e dai prodotti dell’antiarte, dopo la seconda guerra mondiale ha ottenuto ondate di consensi smisurati. “In un certo senso, tutta l’arte del nostro tempo (così precisava Gombrich in un’intervista del 1993) è neodada”. E’ vero che, nel Dizionario della critica d’arte di Grassi e Pepe (editto dalla UTET), la voce dadaismo è svolta, quasi sommessamente, in una colonna e mezza. Ma oggi  questa ragionevole parsimonia può sembrare quasi scandalosa, perché non concorda con l’attuale esaltante rilancio dei dada, documentato anche dal libro di Del Puppo. Dove le opere, riprodotte con cura (non solo le poche meritevoli di qualche consenso) non rispondono all’intento originario degli autori, rivolto (come sosteneva Benjamin) a suscitare la pubblica indignazione. Ma, al contrario, mirano a promuovere ulteriori consensi, come merci rare che la pubblicità, al servizio del consumismo irrefrenabile, induce ad ammirare. Così, come malia sensazionale e merce ghiotta, anche l’antiarte di marca dada, benché avversata dalla critica più seria (da Sedlmayr a Klein, da Wind a Arnheim, a E. Migliorini) è stata rilanciata e portata alle stelle. Persino negli istituti d’arte e nelle accademie, dove la nicchia, molto spaziosa, dedicata a Duchamp, fomenta una sorta di idolatria: tanto più nociva e preoccupante, quanto più toglie la capacità di vedere (ossia di riconoscere) che l’ultima impresa simbolico-retinica del profeta dada, collocata al museo di Filadelfia, è una specie d’osservatorio erotico, triste come l’amaro d’una freddura di bassa lega.

Pubblicato su “L’Arena di Verona” il  16.6.08  

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