ETICA E CAPITALISMO

par Serge Latouche

Milano 5 Maggio 2001

 

La mondializzazione tecnoeconomica, vale a dire quella dei processi compresi di solito sotto questa espressione ( l'emergere dominante delle imprese transnazionali, la sconfitta della politica e la minaccia di una tecnoscienza incontrollata), trascina con sé quasi automaticamente una crisi morale.

Cause e conseguenze della mondializzazione dei mercati, le multinazionali si presentano come i "nuovi signori del mondo". Si tratta di "dirigenti" impreparati al loro nuovo ruolo, appena coordinati da un sistema internazionale incapace, che non si trovano ancora di fronte né una società civile mondiale, né significativi contropoteri. Il potere finanziario dà loro i mezzi per comprare e mettere al proprio servizio gli Stati, i partiti, le Chiese, i sindacati, le Ong, i massmedia, gli eserciti, le mafie, eccetera.

Da ciò sorge la necessità di "codici di buona condotta" che fondati su una morale universale minima da definire, s'impongono al comportamento di questi giganti, nei rapporti tra loro stessi e soprattutto verso gli altri.

Cosi, l'etica continua ad apparire sempre di attualità come aspirazione, nostalgia o necessita' di modo.

Cattedre universitarie e convegni sul tema si moltiplicano e l'argomento si vede trattato in tutte le salse : l'etica nell'impresa, l'etica della vita politica, le commissioni di etica, ecc. Solo nei campus americani, più di 500 corsi di etica (business ethics) sono proposti, spesso sponsorizzati da grandi imprese.

 

Così, la mondializzazione pone in termini nuovi la questione dell'etica nel capitalismo e l'antichissima questione dell'etica in economia. La mondializzazione dell'economia è di fatto la forma più spinta della " economicizzazione" del mondo. Si tratta di far entrare nella sfera dello scambio mercantile la totalità della vita, senza restrizione alcuna di spazi o di ambiti.

 

La questione etica dell'economia si riduce semplicemente al sapere se l'economia sia una " buona cosa".

Economia è vita economica, divisione del lavoro, scambi nazionali ed internazionali, concorrenza e leggi di mercato, crescita e sfruttamento illimitato delle risorse naturali e delle capacità umane, o sviluppo illimitato delle forze produttive, dell'accumulazione del capitale, ecc.

Tutto cio' fa parte del "bene" ? Si puo' riassumere l'enorme letteratura su quest'argomento nella domanda : l'economia è morale ?

A questa prima domanda la mia risposta è : No.

Viene allora la seconda : Può diventarlo ? E su questo la mia risposta è: "Si, ma solo a certe condizioni... "

Perché l'economia è immorale ?

Perché suscita, provoca o favorisce quella che Hannah Arendt chiama "la banalità del male".

Come potrebbe diventare (o ridiventare) morale ?

Ritornando ad essere "politica", cioè reintroducendo il problema della giustizia nello scambio economico, elemento centrale del rapporto (o commercio) sociale, entro l'orizzonte del bene comune.

Se l’economia dominante e il commercio mondializzato sono il luogo per eccellenza dove si dispiega la banalità del male , per contro, la dissidenza e il mondo alternativo sono un laboratorio di esperienze dove si verifica la riscoperta dell’etica e della giustizia nel commercio sociale.

Gli interrogativi (o le questioni) cosi' sollevati sono, come si vede, di grande ampiezza, sono quelli del Bene e del Male, della giustizia e dell'ingiustizia, senza parlare dapprima dei problemi terminologici (morale/etica/deontologia e equità/giustizia), ma l'attualità spinge a riproporli.

 

L'immoralità dell'economia.

Per capire questo giudizio di immoralità dell'economia, bisogna ritornare all'antica "maledizione" formulata contro di essa da Aristotele, esaminare il tentativo di uscirne e analizzare il fallimento di quel tentativo.

Richiamo della "maledizione" aristotelica.

Si sa che Aristotele - nonostante, alla sua epoca, l'attività economica fosse ancora allo stato embrionale - condanna con il nome di "crematistica" quello che, per noi, ne costituisce l'essenza, ossia la ricerca del profitto grazie alle, e attraverso le, relazioni commerciali.

Il rapporto di scambio naturale M-D-M (merce-denaro-merce), ossia la vendita del surplus per acquistare tutto ciò di cui abbiamo bisogno, si corrompe in un rapporto di scambio D-M-D, che significa acquistare ai prezzi più bassi possibili per rivendere ai prezzi più alti possibili, guadagnando denaro. Questo capovolgimento gli sembrava condannabile a pieno titolo, non solo come contrario alla natura, ma, ancor più, come contrario alla civiltà.

Fare soldi con i soldi non solo è contrario alla fertilità delle specie, ma è anche un obiettivo contrario al bene comune. Un mondo di persone che guadagnano non è compatibile con la cittadinanza, e lo è ancora meno con l' isonomia (l'uguaglianza cittadina) e, beninteso, con la giustizia.

Non c'è dubbio che il bene secondo Aristotele non è il nostro. Noi non abbiamo più il senso politico che fondava la sua etica. Noi, in particolare, esigiamo una libertà privata infinitamente maggiore. Tuttavia l'ideale del bene comune e della giustizia resta lo stesso.

Il tentativo di uscirne.

L'intero problema della genesi della scienza economica è stato quello di risolvere in qualche modo la quadratura del cerchio : come riconciliare la vita morale e la vita degli affari, o per dirlo alla francese con Mitterand, come riconciliare i francesi con il denaro, tre secoli dopo gli anglosassoni ? Si tratta di scongiurare la maledizione che dopo Aristotele e San Tommaso d'Aquino pesa in Occidente sul mondo economico.

La crisi scoppia, si può dire, nel secolo XVII nell'ambito del mondo commerciale puritano con Bernard de Mandeville e la sua celebrissima "Favola delle api". La prosperità e la virtu' per quest'autore sono rigorosamente incompatibili : "o l'alveare è prospero ma vizioso o l'alveare è virtuoso ma povero"

Come riuscire a scollegare il business dalla morale ?

Questa è la sfida che si pone alla nascente economia politica. Adam Smith vi si dedicherà con successo grazie a due artifizi : separare arbitrariamente una sfera "privata", terreno della vita morale, e una sfera economica ( l'oggetto della "teoria dei sentimenti morali" del 1759) ed esonerare la sfera economica dal sospetto di immoralità mostrando che normalmente il proseguimento dell'interesse personale genera il bene comune attraverso la mano invisibile ( l'oggetto della "Ricchezza delle Nazioni"del 1776).

Il risultato mette capo, in qualche modo, all'inversione dell'onere della prova e al rovesciamento del peso del sospetto. Guadagnare denaro mediante il commercio in senso ampio (comprese con l'industria e la speculazione) non ha nulla di immorale salvo prova del contrario (distorsione criminale, traffico notoriamente disapprovato, inganno...). Cosi' la giustizia nello scambio e nel commercio è allo stesso tempo affermata e messa fuori causa. Questa doppia conclusione, contraddittoria perché eccessiva, forma il problema. Nondimeno, sarà ulteriormente rafforzata con l'optimum dei neoclassici.

Il fallimento del tentativo.

I due artifici del dispositivo smitiano non reggono. La mondializzazione attuale, rivelando e insediando in pieno " l'onnimercatizzazione" del mondo, manda in pezzi la prima barriera. La sfera mercantile conquista la vita intima dell'uomo, come il premio Nobel di economia Garry Becker pretende e rivendica. Per altro verso, l'armonia naturale degli interessi è un'evenienza felice, che si produce solo in contesti molto particolari ma non è generalizzabile. Comunque, l'intenzionalità - elemento essenziale della vita morale nella concezione kantiana (e aristotelica)- è messa fuori causa nel gioco economico.

Il paradosso della doppia affermazione della neutralità e della moralità dello scambio e della vita economica è rivelatore di questo fallimento. Da un lato, l'attività economica "normale" è detta neutra quanto ai valori, poiché si tratta di una azione razionale. In perfetta coerenza con questa visione, Milton Friedman dichiara che l'unica responsabilità dell'impresa consiste nell'utilizzare le sue risorse e nell'impegnarsi in attività destinate ad aumentare i profitti, purchè rispetti le regole del gioco, cioè quelle di una competizione aperta e libera senza imbrogli né frodi.

Massimizzando la propria ricchezza, l'impresa massimizza il benessere sociale di tutti.

Se l'economia esce cosi' dalla morale, lo fa per meglio adempiere ai suoi imperativi. In effetti, l'attività economica è ritenuta allo stesso tempo essere "buona", perché si afferma come "efficiente" (di cio' si puo' discutere) e perché nella società moderna, l'efficienza è identificata col Bene o almeno come condizione del Bene, cioè "il più grande benessere per il maggior numero", (Beccaria "la massima felicità divisa dal massimo numero").

Come puo' essere insieme neutra e buona ?

C'è in questo una strana confusione tra giudizio di fatto e giudizio di valore.

Finalmente, il pericolo della relazione economica fondamentale D-M-D non risiede tanto nel guadagno illecito o nell'ingiusta misura degli uomini denunciati da Aristotele, quanto nell'ineluttabile inclusione dell'uomo e del mondo che occupano il cuore di tale relazione nella M. In altre parole, si tratta della strumentalizzazione dell'essere umano e del mondo come cavie, o come merce.

Dipendente, utente, consumatore o materia prima, l'uomo e il mondo sono inglobati come ingranaggi e rotelle della "megamacchina". Cio' significa per l'uomo che la sua condizione di cittadino e la sua umanità sono messe fra parentesi, e, per la natura, la negazione del suo insondabile mistero e l'oblio della solidarietà cosmica.

Dietro lo scambio di merci vi sono sempre degli uomini che si incontrano e si misurano.

Man mano che il denaro penetra i pori della società, l'etica, la questione della giustizia nello scambio e dunque nei rapporti tra gli uomini è eliminata.

Di sicuro la nostra società non è la prima né la sola a strumentalizzare l'uomo e la natura.

Le società del mondo antico, con la schiavitù, spingevano la questione ancora più lontano. In ogni caso, avevano il "buon gusto" di classificare lo schiavo al di fuori dell'umanità, fra gli instrumenta (instrumentum vocale, per Catone). Aristotele precisa che gli animali e gli schiavi non partecipano alla {philia} che unisce i cittadini, anche se raccomanda di trattarli bene. La megamacchina moderna, grazie alla mediazione monetaria e mercantile, generalizza sistematicamente la trasformazione dell'uomo in rotella o in materia prima.

Diventando una tecnica pura, l'economia partecipa all'universo tecnico. La tecno-economia è la forma nella quale si incarna al meglio l'immaginario del progresso, oppure, se quest'ultimo gioca un ruolo strutturante nella modernità, contribuisce pienamente all'impostura dell'efficienza.

L'etica, allora, si trasforma impercettibilmente. L'utile diventa il criterio per eccellenza del buono, in quanto il "ben-avere" misurabile l’ha identificato con il "benessere", forma sensibile della fortuna. Ma l'utile è , precisamente, cio' che le tecniche consentono di fabbricare o di

applicare e che l'economia permette di vendere. E si assiste a uno slittamento surrettizio dei valori.

Emergono in priorità i valori che la tecnoscienza puo' servire. Questi vanno a prendere il posto dei vecchi valori, a sostituirsi a loro o a sovvertire il loro contenuto da dentro.

Il danno finale della strumentalizzazione monetaria e mercantile altro non è che rimettere in questione lo stesso uomo. Le possibilità di migliorare la specie umana (l'umanità) spettacolarmente aperte dalle più recenti scoperte dell'ingegneria genetica e la necessità di far fronte alle minacce

che la "Megamacchina tecno-scentifica" fa gravare sull'ecosistema del pianeta, hanno come esito finale le mutazioni che toccano sempre più da vicino l'integrità biologica e l'identità della specie umana.

Già adesso l'uomo è un animale manipolato, tecnologicizzato che vive con un numero sempre maggiore di protesi artificiali, estranee al proprio corpo biologico.

Il più grande crimine contro la specie umana non è forse quello di distruggerla, annientarla, con il pretesto di farla "evolvere, progredire" ? L'universalismo dei valori svanisce davanti alla logica amorale del "pensiero unico" centrata sull'estensione a livello mondiale dell'economia di mercato autoregolantesi, che caratterizza l'attuale mondializzazione. Il dominio della natura, compagno e complice della ricerca del profitto ed elemento centrale della modernità, è sicuramente all'origine di questo tipo di strumentalizzazione degli altri.

Si comincia separando la natura dal regno umano e, successivamente, si scivola verso una naturalizzazione dell'uomo.

Una recente dichiarazione del Barone Ernest-Antoine Sellière , Presidente del MEDEF, illustra bene questa strumentalizzazione.

"Ci sono dei paesi senza sindacati, come gli Stati Uniti o la Neo-Zelanda, dove si è risusciti a trasformare il lavoro in merce. Non è una stupidaggine, visti i risultati ottenuti in materia di pieno impiego e di crescita...-4-

Da cio', la quasi-impossibilità di distinguere cio' che appartiene all'economia normale e l'economia criminale.

Le frontiere tra il lobbying e la corruzione, tra il fiuto dell'abile speculatore e il delitto dell'iniziato sono sempre più esigue, come sono sempre più esigue le frontiere tra salariato nel Sud e schiavitù o tra turismo divertente e turismo sessuale... "La finanza moderna e la criminalità organizzata, scrive Jean de Maillard, si rafforzano a vicenda. Entrambe hanno bisogno per svilupparsi dell'abolizione delle regolamentazioni e dei controlli statali (...) Se non stiamo attenti, passeremo progressivamente da un'economia con una componente criminale ad un'economia criminale" ( 5)

Il clima di concorrenza esacerbata che si sviluppa nella tarda società moderna genera, d'altro canto, una automutilazione che acuisce la strumentalizzazione. La sofferenza muta o inespressa dei "guerrieri puritani" (paura della vergogna di non corrispondere all'immagine del "combattente") rende insensibili alla sofferenza degli altri, in particolare a quella degli esclusi dalla riconoscenza collegata al lavoro. La strumentalizzazione di se stessi rende complici della, e insensibili alla, strumentalizzazione del mondo e degli altri.

"Non bisogna escludere, scrive Hannah Arendt nel suo libro "Eichmann a Gerusalemme", che, se Adolf Eichmann avesse potuto dire che non era lui a organizzare i convogli che inviavano gli ebrei ai forni crematori, ma un plotone di computers obbediente agli ordini, non gli si sarebbe mai stato chiesto di rispondere delle sue azioni "

La tecnoeconomia contribuisce massicciamente alla banalità del male in epoca moderna. Naturalmente, non sono gli strumenti stessi, nè il denaro - in se- a essere colpevoli. Un coltello puo' tagliare del pane o puo' uccidere. Un raggio laser puo' guidare un missile ma puo' anche salvare un occhio. Il denaro permette molte azioni utilissime. Tuttavia, non è lo strumento nè il denaro che costituiscono la categoria pertinente. Le invenzioni fanno la loro comparsa in seno a una organizzazione sociale: un laboratorio, una fabbrica, una società e, infine, una megamacchina-universo dominata dal mercato.

La megamacchina moderna è davvero particolare. Sarebbe comunque eccessivo affermare che

ignora l'etica, che l'etica è scomparsa. In essa regna un'etica, e anche molto pregnante, ma di seconda categoria, un'etica tecnica. Si tratta di un'etica che insiste sui mezzi e non sul fine: si tratta del perfezionismo, la ricerca dell'efficienza per l'efficienza. Lo sviluppo dell'ingegneria genetica con i semi transgenici costituisce un esempio calzante di perfezionismo e di oblio dei fini. Indipendentemente dall'innegabile fascino della prodezza tecnoscientifica,

è difficile trovare in essa un obiettivo diverso dal guadagno, attraverso questa impresa. Non esiste alcuna differenza di fondo fra la criminalità della scienza hitleriana o staliniana e quella della ricerca nei laboratori di Novartis, Nestlè o Monsanto (o Bayer o Rhone-Poulenc...) gestita da quei bravi padri di famiglia che Hannah Arendt definisce "filistei". Ricordiamo che più di seimila studiosi nazisti che lavoravano nei laboratori segreti di V2, in particolare, utilizzando gli schiavi del Reich, sono stati recuperati dagli americani, dai sovietici, dagli inglesi e dai francesi. Ne sono usciti a mani pulite, senza palesare emozione alcuna. Il loro unico crimine non era forse quello di aver svolto coscienziosamente il loro compito?

"Il principio che rende gli uomini superflui come persone giuridiche, morali e particolari - secondo Jean-Francois Lyotard - risiede negli "atti" stessi della vita regolamentata che fa il vuoto negli spiriti che essa amministra. Questo principio si chiama Sviluppo.

Si tratta di un'entità non meno astratta della Natura o della Storia - che massimizza l'effetto descritto dalla Arendt: la messa in movimento, la totale mobilitazione delle energie. Non gli sono indispensabili nè l'organizzazione politica strutturata a livelli, né l'uso del terrore per infrangere la legalità e il debito della nascita.

Al contrario, la "legge" dello sviluppo trova nella forma democratica e nella gestione incessante della legalità, ai fini del benessere, al tempo stesso un mezzo e una maschera molto più potenti - perché più accettabile dai "filistei" - rispetto all'organizzazione totalitaria degli anni '30.

La propaganda brutale è discreta e lascia spazio all'inoffensiva retorica dei media.

E la mondializzazione non si fa con la guerra, ma con la competizione tecnologica, scientifica ed economica. I nomi storici di questo totalitarismo "bravo ragazzo" non sono più Stalingrado, la Normandia, e meno ancora Auschwitz, ma, piuttosto, l'indice Dow Jones a Wall Street e l'indice Hakka a Tokyo

( Jean-Francois Lyotard : "Le survivant" in Ontologie et politique, Hannah Arendt. Ed, Tierce, l989, p. 273.)

 

II Come potrebbe l'economia divenire morale ?

 

La risposta sta in due parole : mettendo l'etica sull'etichetta. Cioè riponendo il problema dell'etica nello scambio mercantile nelle finalità del bene comune.

C'è un paradosso della giustizia nello scambio per l'economia "normale". Lo scambio e i prezzi sono quel che sono, ma per cio' stesso sono giusti. Allo stesso tempo, la giustizia viene in tal modo affermata ed eliminata. Cio' appare chiaramente nelle dichiarazioni di Bernard Lavergne, che ben rappresentano in questo l'insieme della professione.

Viene infatti matematicamente dimostrato come l’ equilibrio generale dei prezzi nella pura teoria corrisponda a una situazione ottimale. Il valore così ottenuto non soltanto sarà il giusto prezzo - scrive Bernard Lavergne - ma non può neppure esserci altro giusto prezzo che quello. Ma in fine, elimina la nozione stessa di giusto prezzo: Siamo convinti che l’opinione pubblica e il pensiero economico segnerebbero un progresso reale se finalmente si decidessero a escludere dal novero delle nozioni economiche il concetto plurisecolare del giusto prezzo.

Concetto morale dai contorni necessariamente imprecisi, tale nozione non ha alcun significato scientifico. Di conseguenza, una volta smantellati i monopoli e abolite le rendite di posizioni abusive, se lo scambio mercantile genera miseria e povertà, la causa sarà necessariamente da ricercarsi nell’ insufficiente produttività delle vittime. Sicché non rimane che ricorrere alla carità (privata, se è possibile) per correggere quanto può apparire come una défaillance del mercato nei riguardi delle aspirazioni umanitarie a una migliore suddivisione della ricchezza.

 

Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno dunque ampiamente fatto appello alla generosità dei loro concittadini per supplire alla soppressione del welfare

. Le ong caritatevoli sono invitate a fare la stessa cosa a livello internazionale. Secondo Friedrich Hayek ogni mediazione politica dell’ economia sarebbe fondamentalmente immorale e ingiusta.

Il pensiero unico è riuscito a imporre l’idea che l’efficienza ha il primato sulla giustizia e, in ogni caso, la condiziona. Da questo punto di vista la stessa teoria della giustizia di Rawls non sfugge del tutto allo spirito del tempo, non più della filosofia che ispira i vari governi socialisti europei. Dal momento che si suppone che la questione della giustizia nell’ economia sia stata regolata una volta per tutte, nessuno osa più sollevare il problema.

Bisogna affermare alto e netto contro questo positivismo amorale che il prezzo più giusto non è necessariamente il giusto prezzo.

Ricordiamolo che i teologi scolastici definivano il "giusto prezzo" come quello che permetterebbe a ciascuno di mantenere il proprio rango grazie a un profitto ragionevole. -Jean Mousse, "Ethique et profit aujourd'hui" Revue francaise de gestion,, Janvier-frevrier 97 –

 

Se ne trova ancora l'eco nell'art.23 al 3 della dichiarazione dei diritti dell'Uomo : "Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un'esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale".

Si tratta di smascherare il feticismo della merce cioè di ritrovare i rapporti tra gli uomini mascherati dai rapporti tra le cose.

Il commercio equo e solidale coi suoi tre termini (commercio, equo, solidale) evidenzia tutta una serie di problemi teorici e pratici, di cui alcuni hanno antichi e profondi legami con la storia e la filosofia. L’aggettivo "solidale" rimanda al concetto di carità e a tutta una tradizione cristiana (anche se in seguito laicizzata con il solidarismo), l’ "equo" alla giustizia e il termine "commercio", naturalmente, all’economia.

"Trade, not aid" (commercio, non aiuto) martellava ancora di recente e con successo il presidente Clinton nel suo giro africano per giustificare la spilorceria dei doni ufficiali americani e al contempo opporre alla pratica europea del dono e dell’assistenza un approccio più realistico in una economia mondializzata.

E’ vero che il rapporto mercantile sembra riconoscere nell’ altro un partner commerciale a pieno titolo costituendo così in un certo qual modo il versante economico del faccia a faccia democratico, mentre invece l’ aiuto non è esente da paternalismo e da corruzione.

Lo slogan "Trade, not aid" ne riecheggia un altro: "Giustizia, non carità!".

Secondo il pensiero unico l’ economia di mercato sarebbe di per sé portatrice di giustizia.

E’ risaputo come i filosofi anglosassoni siano inesauribili sulla questione della giustizia. Nondimeno, allorché il dipartimento di Stato riprende tale tema, ben si percepisce che justice

significa soprattutto "just us" (soltanto noi).

Si può veramente considerare conforme alla giustizia il fatto che le diseguaglianze diventino sempre più vistose, al punto che, secondo le statistiche del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, nel 1999, il prodotto dell’intera Africa, coni suoi 700 milioni di abitanti, pesa meno di quello del Belgio e della somma delle quindici più grandi fortune mondiali?

E’ incontestabile che esigere un fair trade, cioè un commercio veramente equo e leale, è molto meglio di tutto l’aiuto e di tutta l’assistenza con le loro conseguenze perverse.

 

Dietro lo scambio di merci vi sono sempre degli uomini che si incontrano e si misurano. Tale incontro non è necessariamente uno scontro se i protagonisti hanno degli statuti fissati e riconosciuti. In queste condizioni, lo scambio equo sarà quello che assicura a ciascuno la persistenza e la riproduzione del proprio statuto.

 

In altre parole, allorché l’architetto si misura col falegname nello scambio, il rapporto tra il prezzo di un preventivo che rappresenta un’ora di lavoro e quello di un mobile che rappresenta un tempo eguale, deve essere tale da permettere al falegname di continuare a vivere come falegname e all’architetto come architetto. Se gli statuti non sono garantiti e riconosciuti, lo scambio può trasformarsi in scontro e in tal caso viene richiesto l’intervento deliberativo del gruppo.

Allora il feticismo della merce è smascherato. La trasparenza del rapporto sociale (architetto/falegname) è mediata dalla società. Riaffiora così l’intuizione, purtroppo corrotta in seguito dall’economicismo, dei primi socialisti. Scriveva Pierre Leroux: "Non è possibile dissociare la politica e la scienza sociale nella sua totalità, così come non si può fondare una scienza economica al di fuori di ogni problematica politica" ( P. Leroux, riportato inTrente-cinq annèes de colloques sur le socialisme rèpublicain de Pierre Leroux aux Dreyfusards, n. 14, Aix-en Provence 1998, p.116) Ciascuno ha diritto alla sua parte di dignità, che il mercato gli rifiuta. Viceversa, esistono scarse possibilità che un’assemblea democratica ratifichi degli "accordi" come quello che presiede ai destini della grande famiglia Disney, dove l’ora del presidente Michaèl Eisner viene valutata 1 385 000 volte più di quella del suo fratello birmano che fabbrica le T-shirts "Mickey and Co"!

Dovrebbe essere considerato indecente in qualsivoglia istanza umana sbandierare pretese simili. Evidentemente, la trasposizione a livello di rapporti e di scambi economici mondiali non è semplice. Comprare del caffè etichettato "Max Havelaar" o "Transfair" piuttosto che una marca del grande commercio ordinario è un atto civico. Scegliere un acquisto equo piuttosto che lasciarsi vendere un prodotto " non equo" al prezzo di mercato, equivale ad affermare la "mediazione" politica nello scambio commerciale ; equivale dunque ad affermare la solidarietà con partners lontani e sconosciuti senza negarne l’esistenza nè essere indifferenti alla loro sorte.

Purtroppo non è facile per il consumatore comportarsi da cittadino, e questo sia soggettivamente sia oggettivamente. Soggettivamente, perchè, attraverso la pubblicità e le sollecitazioni della grande distribuzione, quasi totale è la manipolazione dei gusti e dei desideri dei suddetti consumatori.

Oggettivamente, perchè, anche se fosse deciso ad adottare un comportamento civico, il nostro consumatore non avrebbe scelta. Comprare ecologicamente, politicamente ed eticamente corretto, rientra per lo più nel campo della militanza e dell’eroismo, senza una vera garanzia di risultato. Per la maggior parte dei prodotti non esiste possibilità di scelta. Dove trovare la macchina equa, il frigorifero etico, la lavatrice solidale? Già ci consideriamo fortunati se la tracciabilità è spinta abbastanza lontano da permetterci di procurarci un completo che non sia confezionato in una sorta di penitenziario per donne del Sud-Est asiatico... Diamo davvero il nostro voto per la schiavitù dei bambini pakistani quando compriamo un paio di scarpe di una grande marca transnazionale? E’difficile immaginare di poter "fare società" con il piantatore di canna da zucchero o di caffè venezuelano, con il senegalese che coltiva l’ibisco, o con il contadino camerunese produttore di banane oppure con l’artigiano quechua. Non esiste una società mondiale, non è sicuro che ce ne sia mai stata una e neppure che ciò sia augurabile.

E’ possibile misurarsi soltanto con i propri vicini e lo scambio sociale è necessariamente locale, anche se il sito può, entro certi limiti, essere virtuale. I principali problemi provengono dal fatto che non ci sono più delle vere e proprie società locali. E non esistono più molto semplicemente perchè le abbiamo distrutte e continuiamo a farlo. La questione non si risolve automaticamente anche se, per miracolo, i nostri fornitori del Sud vendessero la loro produzione all’ ufficio acquisti di Artisans du monde.

In che modo "fare società" con i nostri partners? Come non essere partecipi del movimento di distruzione dei vincoli sociali, fonte ultima dell’ impoverimento economico? E come non essere complici di fatto dell’immane bazar mondiale?

E’ questa la grande sfida del commercio equo. In un certo qual modo esso dovrebbe avere come obiettivo la propria distruzione, nel senso che il suo compito sarebbe quello di contribuire alla ricostruzione delle società del Sud, ormai andate in frantumi e, per esempio, d’incoraggiare la

riconversione delle colture speculative consegnate al commercio mondiale nelle colture alimentari necessarie al sostentamento delle popolazioni locali affamate. Del pari, tale sfida dovrebbe convincere l’artigiano a rispondere ai bisogni di una clientela a lui prossima invece di esportare paccottiglia per occidentali in vena di esotismo. La questione è evidentemente delicata e non può essere risolta in modo dogmatico dall’oggi al domani. Ma questa non è una ragione per non affrontarla.

Qui la giustizia è indissociabile dalla solidarietà: va al di là del problema del prezzo, e concerne il bene comune. Il giusto rapporto di scambio va ricercato pensando che noi facciamo società con i nostri partners e che i loro problemi sono anche i nostri, e viceversa. Nondimeno, la deliberazione del popolo, in questo caso virtuale per forza di cose, non deve per questo mediare la determinazione del prezzo. La riflessione sulla giustizia nello scambio, pur se non offre una soluzione immediata, deve tuttavia costituire una guida per l’azione.

Per farla breva, si puo' illustrare l'opposizione del punto di vista della giustizia e quello del pensiero unico attraverso due prese di posizioni caricaturali nel giornale "Le Monde", quella di Pierre Georges e quella di Pascal Salin. Il primo nei "Golden cadres" (Le Monde du 10 septembre 99) : "Il lavoro d'un uomo, padrone o quadro, vale per competenza o capacità tredicimilla volte di più che il lavoro d'un altro uomo ? ... Il denaro rende folle...

Ed ecco che il capitalismo d’impresa, divenuto completamente folle, costruisce nella dismisura, nell'indecenza, nell'incoscienza e nel cinismo la fortezza dei benestanti... scavando all'interno delle imprese una società a due velocità , a due universi: gli azionisti (les stockès) e gli altri, gli

speculatori e i salariati di base".

E dice la seconda : "per prendere un esempio semplice, chi oserà pretendere che è moralmente giustificato prendere ad un uomo che lavora coraggiosamente per dare a un poltrone ? (...) In una società fondate sul libero scambio, colui che possiede è colui che ha creato più valore per gli

altri".-Pascal Salin, Vive l'inègalitè ! Le Monde du 10 juillet 1990. }

Esempio semplice davvero !

 

Conclusione : Certo, non si rifarà il mondo dall’oggi al domani e neppure si cancellerà con un tratto di penna la manipolazione delle potenze economiche di cui è impossibile misconoscere il peso e che bisogna ben guardarsi dal sottovalutare. Nondimeno, l’obiettivo è proprio quello di rifare il mondo e il mezzo è proprio quello di contrastare la manipolazione e il lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti. E’ tempo ormai di cominciare a decolonizzare il nostro immaginario. E’ necessario avere come orizzonte questo ambizioso obiettivo unitamente all’ideale di un giusto scambio, vale a dire di economie e di mercati mediati dal sociale o dal politico.

Se si pensa che il giusto, l'equo, il bene non sono eterni e trascendenti rispetto alla società umana nel loro preciso contenuto, ma sono delle aspirazioni universalmente condivise, allora dobbiamo pronunciarci esplicitamente e concretamente su cio' che è legittimo e su cio' che non lo è nel traffico sociale e nello scambio economico. ( Pour en savoir plus, voir dans le numero citè du MAUSS, nos articles : "L'èconomie est-elle morale?" et "De l'èthique sur l'ètiquette au juste prix. Aristote, les SEL et le commerce èquitable")

 

Ma naturalmente bisogna che sia riconosciuta l'umanità della controparte, sia pur essa all'atro capo del pianeta.

Non basta che l'attuale evoluzione di superficie volta le spalle a quel che la morale comporta perché ci debba (o sia lecito) rinunciarvi.

Ma dibattere tali questioni equivale a riconoscere implicitamente che esiste un’istanza superiore persino alla legge economica. E questa istanza, chiamata a pronunciarsi sul giusto, sul legittimo e infine a legiferare, può soltanto essere la società. Anche le cosiddette "leggi economiche" devono essere in ultima analisi ratificate in modo implicito o esplicito da un autorità politica.