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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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NUTO REVELLI
Note dalla Rete

a cura di Nadia Scardeoni

Interlinea
http://www.edscuola.com/interlinea.html

 

........ Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi.

Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "generazione del Littorio".

Oggi la libertà li aiuta, li protegge.

La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta.....

 

Nuto Revelli

 

Un intervento di Nuto Revelli in occasione del conferimento della laurea Honoris causa

A lezione nel mondo dei vinti

di Nuto Revelli

La laurea Honoris causa che questa prestigiosa università mi ha conferito, mi inorgoglisce perché premia il mio impegno di cultore delle "fonti orali". Ma soprattutto mi intimidisce perché la maggior parte del merito delle mie indagini spetta agli autori delle storie di vita che ho raccolto, ai protagonisti del mio "mondo dei vinti".

Avevo 20 anni nel luglio del '39 quando conseguii presso l'istituto tecnico di Cuneo il diploma di geometra. La guerra era alle porte. Non per niente domandai subito di venire ammesso in un'accademia militare per imparare quel mestiere. Altro che geometra. Trascorsi due anni a Modena, in quella scuola severa come un seminario. Poi, con il grado di sottotenente, fui assegnato al II reggimento alpini della divisione Cuneense, che era appena rientrato dall'Albania.

Erano stanchi i miei alpini, dopo le esperienze non certo esaltanti del fronte occidentale e del fronte greco-albanese. Diventarono i miei "maestri". Dialogavo con loro, li ascoltavo. Mi intimidivano. Mi aiutavano a capire, a crescere. Avevano la famiglia, la casa al centro di tutto. Il loro unico sogno era una "licenza agricola".

Nel luglio del '42, con il V reggimento alpini della divisione Tridentina, fui inviato sul fronte russo. Conservo un ricordo preciso di quanto fosse immensa la mia ignoranza. Appartenevo alla categoria dei cosiddetti "colti" ma a malapena sapevo dove fosse collocata geograficamente l'Urss. Non mi rendevo conto di appartenere a un esercito di aggressori. I tedeschi vincevano anche per noi e li consideravo alleati preziosi. Andavo a migliaia di chilometri da casa mia, ad ammazzare o a farmi ammazzare, ma per che cosa? Per la "Patria". Quale "Patria"? Quella del fascismo, della monarchia, dei Savoia?

Quando si intuisce di essere ignoranti si compie già il primo passo per uscire dal buio. Decisi di tenere un diario. Mi ripromettevo di elencare i momenti più significativi dell'esperienza che stavo per vivere, di registrare i miei stati d'animo, miei sentimenti più intimi. Volevo imparare, volevo capire.

Durante il viaggio _ a Stalbtzy _ intravidi gli ebrei, quelli dei campi di sterminio dei quali ignoravo l'esistenza. Erano una sessantina di relitti umani _ donne, uomini, bambini _ scalzi, sporchi, coperti di stracci. Tutti marchiati con la stella gialla. Sembravano fantasmi. Si trascinavano lungo la nostra tradotta implorando un pezzo di pane. Odiai le due SS che li controllavano da lontano con i mitra spianati. E dissi a me stesso: "Questa è la guerra dei tedeschi, non la mia guerra". Ero ignorante, ma incominciavo a interrogarmi, a scegliere, a capire. Poi la vita di linea, sul Don, e nel gennaio '43 l'inizio della fine, il disastro. Ricordo tutto dei giorni e delle notti della ritirata, di quell'interno. Il 20 gennaio _ terzo giorno della ritirata _ nell'immensa piana di Postojali, nei 25 gradi sotto zero mi resi conto che avevo capito tutto. La nostra colonna _ 30 o 40 mila uomini allo sbando _ sostava da ore in attesa di ordini. Eravamo più morti che vivi. Maledii il fascismo, la monarchia, le gerarchie militari, la guerra. Avevo capito tutto, ma troppo tardi!

"Ricordare e raccontare", questa la parola d'ordine che mi portai nel cuore da quell'esperienza tristissima. Nei giorni dell'8 settembre ero a Cuneo e se scelsi istintivamente di lottare contro i fascisti e i tedeschi fu perché sentivo nella mia coscienza il peso enorme di quelle decine di migliaia di poveri cristi _ la maggior parte "contadini in divisa" _ mandati a morire per niente in quella guerra maledetta. Furono importanti i mesi che trascorsi nelle formazioni partigiane di "Giustizia e Libertà", con "maestri" come Livio Bianco e Duccio Galimberti. In quei venti mesi diventai adulto.

Soprattutto Livio mi era vicino. Io lo aiutavo a risolvere i problemi pratici, quelli militari. E lui mi insegnava l'abc della cultura politica, e a dare un senso all'esperienza che stavo vivendo.

Nel '46 sentii l'obbligo di gridare la mia verità. Pubblicai il mio diario di Russia. L'informazione era vaga, per non dire inesistente. Le fonti ufficiali tacevano. E le famiglie della provincia di Cuneo che avevano perduto un loro congiunto sul fronte russo, circa 7000, continuavano a illudersi che tutti gli "assenti" fossero vivi, prigionieri. Per l'autorità militare, quasi tutti gli "assenti" appartenevano alla vastissima categoria degli scomparsi nel nulla, dei "dispersi": cioè dei non vivi e non morti.

Nel '62, con la Guerra dei poveri, conclusi il mio discorso autobiografico. E decisi di dare una voce agli ex soldati, a chi aveva sempre dovuto subire le scelte degli "altri", ai pochi superstiti della prigionia di Russia. Pubblicai La strada del Davai. Poi L'ultimo fronte: raccolsi le lettere che i caduti e i "dispersi" avevano inviato alle famiglie dai vari fronti di guerra, soprattutto dal fronte russo. Erano difficilmente raggiungibili quei piccoli "archivi familiari", custoditi gelosamente dalle madri, dalle spose, dalle sorelle dei caduti e dei "dispersi". Bisognava acquisire quegli epistolari senza procurare nuovi traumi e sofferenze. Occorreva molta umiltà e prudenza nel chiedere.

Centinaia di lettere le acquistai da uno straccivendolo di Cuneo: l'autorità militare le aveva cedute come carta da macero. Non poche di quelle lettere le restituii poi alle famiglie perché erano preziose come tanti testamenti.

Ma assistevo al grande esodo dalla campagna povera, all'abbandono delle aree depresse della montagna e dell'Alta Langa, come risposta all'industrializzazione troppo rapida della pianura. Era un vero e proprio terremoto. Si contavano a migliaia i contadini, i montanari che diventavano manovali dell'industria. Un patrimonio di forze, esperienze, mestieri, destinato a disperdersi. Altro che "difesa dell'ambiente" e "governo del territorio". Con l'esodo indiscriminato, caotico, in non poche aree della nostra collina e della montagna si sfilacciava il tessuto sociale, si estendeva il deserto.

Raccolsi le storie di vita de Il mondo dei vinti e de L'anello forte per dare voce a chi era costretto, ancora una volta, a subire le scelte sbagliate degli "altri". Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "generazione del Littorio". Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta.

http://www.fiapitalia.org/DOCS/1/revelli.htm

 

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Nuto Revelli

Il prete giusto

"A me piacciono i bastian cuntrari, li capisco, purché si battano per delle cause giuste. Non mi piacciono i conformisti."

 

Un libro appassionante, coinvolgente, interessantissimo, come sempre sono le "fatiche" di Nuto Revelli. Uso il termine fatica non a caso, perché l'opera di Revelli è frutto di un notevole lavoro "sul campo": di ricerca, di indagine, di paziente attesa. Non è facile parlare con chi vive ancora nelle case della montagna povera del cuneese, anche se molto è cambiato in questi ultimi anni. Come non era facile intervistare i contadini piemontesi della "piana" e della collina, negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, diffidenti, modesti, riservati, restii a mettersi in mostra, a comunicare, a raccontare.

Solo Revelli è stato in grado di penetrare l'immenso territorio dei loro ricordi, delle esperienze personali, dando vita a libri memorabili come Il mondo dei vinti o L'anello forte. E qui, ancora una volta, dà voce ai protagonisti "minori" della storia, quelli che vengono dimenticati, che non hanno avuto la possibilità di parlare. Mentre in molti casi i libri di Revelli sono un canto corale, una voce unica ma composta da centinaia, migliaia di singole voci unite, ne Il prete giusto (come già nel Disperso di Marburg) sentiamo una voce solista, un unico canto. È la storia di un prete anticonformista che si batte contro tutte le ingiustizie, da qualsiasi parte provengano, che si schiera contro il fascismo, ma che avversa anche il comunismo e che mette in discussione i vertici della Chiesa che poi lo punirà con la sospensione "a divinis". La voce di don Raimondo Viale incrocia lungo la narrazione quella di centinaia di altri uomini e donne, dando origine a una ricostruzione particolare di alcuni decenni della storia del Novecento.

Viale nasce a Limone Piemonte nel 1907. Un paese di montagna, povero, ma non del tutto isolato (anche grazie alla galleria stradale del Colle di Tenda) in cui la vita è comunque difficile, fatta spesso di stenti. Per uscirne, per avere una possibile salvezza, una via praticabile è quella del seminario, dove Raimondo entra all'età di dieci anni. "Per le famiglie della campagna povera, ma non solo per quelle, avere un figlio prete era un onore." Diventato prete, e vicecurato della parrocchia di Borgo San Dalmazzo, il suo carattere, un po' ribelle, ma votato alla difesa dei deboli e alla lotta contro l'ingiustizia, la prepotenza e la prevaricazione, non si stempera con la nuova responsabilità anzi... Messosi contro i fascisti, viene trasferito ad Agnone, nel Molise, poi torna a Borgo. Qui si dedica alla protezione di centinaia di ebrei in fuga dalla Francia, assiste alla fucilazione di alcuni partigiani, ne aiuta altri a fuggire, concepisce la Resistenza come una filosofia di vita e (dopo gli anni terribili della guerra) ancora si prodiga per la sua gente, la gente della sua parrocchia, sino alla "pugnalata alla schiena: la Sospensione a divinis, a me, a me che nonostante tutto credo nella Chiesa, in Gesù Cristo poi...". Nella primavera del 1980, il "miracolo". Don Viale diventa uno dei "Giusti" di Israele "e questo riconoscimento gli ridona la vita".

Nell'ultima parte del libro, Revelli racconta in prima persona l'incontro, fortemente voluto da Viale stesso, avvenuto nel 1982, due anni prima della morte, analizza tutte le tappe della narrazione, approfondisce infine maggiormente il senso di questa testimonianza. Una testimonianza di vita, quella di un prete illuminato che ha pagato a caro prezzo il coraggio di esprimere sempre le proprie idee. La vita di un uomo libero. La vita di un prete giusto.

 

Il prete giusto di Nuto Revelli

Traduzione di Idolina Landolfi

Le prime righe

 

Sono nato a Limone, nel 1907, e porto il nome Raimondo, del mio nonno paterno e del mio fratellino morto forse nel 1901 a un anno e mezzo di età. Noi siamo i Viale di Mundatti, della tribù dei Mundu, dei Raimondo.

Mia madre voleva che portassi il nome di suo padre, Giovanni, ma quando sono nato mia madre era a letto, e così mio papà ha approfittato - era l'unico momento in cui poteva comandare - e mi ha chiamato Raimondo. Quello dei nomi era un argomento che scottava. "Tu hai due vite, - era solito dirmi mio papà. - Tuo fratello ci ha lasciati da piccolo, tu devi vivere perché porti il nume suo e tuo che sono uguali. Il nome dei Raimondo dev'essere ricordato".

Questa la mia famiglia. Mio padre, Battista, del 1876; mia madre, Marianna, del 1882. E tre figli: Margherita, la maestra, del 1902; io del 1907, e Anna del 1910. Margherita ha conseguito il diploma di maestra, mamma l'ha fatta studiare, lavorando e facendoci lavorare. Mamma era una donna meravigliosa, eccezionale come intelligenza e come carattere. Era anche molto bella.

Abitavamo in paese. Avevamo poca terra, quasi tutta "rupestre", a valle di Limone, in una zona piena di vipere. E questa era la terra ereditata da mio papà. In più c'era la terra di mia mamma, un prato buono, irrigabile, che aveva ricevuto non in dote ma in regalo dal padre, malgrado il forte dissenso dei fratelli che si consideravano gli unici eredi legittimi.

La nostra era una vita modesta, stentata. Ci accontentavamo di poco. Avevamo una mucca, una capra, e non sempre un vitellino da far crescere.

Un ricordo della mia prima infanzia? Fino ai tre anni di età indossavamo la solita vestina. Poi, per noi maschietti, arrivava il momento del cambio, dei pantaloncini corti, al ginocchio. Un avvenimento. Ah, quel mio primo paio di pantaloncini con le righe bianche, che successo. Rivedo ancora le facce sorprese dei vicini di casa, dei miei coetanei.

L'autore

Nuto Revelli (Cuneo 1919), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel Cuneese, si batte da anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini. Tra i suoi libri, La guerra dei poveri, La strada del davai, Mai tardi, L'ultimo fronte, Il mondo dei vinti, L'anello forte, Il disperso di Marburg.

da http://www.cafeletterario.it/083/cafenov.htm

 

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http://www.progettomemoria.it/nuto_revelli.htm

Questa è la trascrizione di una intervista a Nuto Revelli che ho ascoltato casualmente alla radio ("Il Novecento racconta", intervista di Andrea Giuseppini a Nuto Revelli, un programma di Flavia Pesetti.). Mancano dei riferimenti precisi alla trasmissione, alla stazione, alla data di emissione ed altro. Purtroppo è presa proprio per caso, ma mi sembra particolarmente interessante, per cui la metto subito in linea. Nei prossimi giorni cercherò di sistemarla!

...si fidava di lei, le raccontava la propria vita, le proprie esperienze…

Ma, le dirò, uno dei lasciapassare importanti, era che avevo vissuto l’esperienza di Russia, era come una garanzia. Poi lei immagina, diventa un lavoro a catena, lei va da una famiglia, in una borgata, viene accolto, poi di lì va in un’altra, di lì va in un’altra. L’aver partecipato alla guerra di Russia, l’essere un superstite di quella esperienza, in quel contesto era importante, era una garanzia. Dove quella garanzia non bastava, mi facevo aiutare da delle persone del posto, influenti, che io ho poi catalogato come "mediatori", che mi accompagnavano, garantivano per me, entravano in quelle famiglie e dicevano: "Potete fidarvi". E’ difficile ascoltare, era una sofferenza ascoltare i superstiti della prigionia di Russia. Ho raccolto migliaia di lettere dei soldati che non erano tornati dai vari fronti di guerra, soprattutto dal fronte russo, le lettere che avevano scritto alle famiglie. Andavo a raccogliere gli epistolari, li ho pubblicati, nell’"Ultimo fronte", nel 1971, è stato edito da Einaudi. Passavo da una ricerca all’altra, finivo una ricerca e ne avevo già iniziata un’altra nuova.

Lei si è dedicato al mondo contadino. Che cosa l’ha spinta a iniziare questa indagine?

Negli anni, fine anni Cinquanta, anni Sessanta, in questa mia provincia è iniziato il processo di industrializzazione. Paracadutato, dall’alto, come è arrivata la Michelin, non c’erano le industrie in provincia di Cuneo, se non qualcuna, ma poche. E’ arrivata un’industria come la Michelin che doveva assumere 7000 dipendenti. Ne ha poi assunti parecchi di meno. C’è stata un’operazione di esodo dalla campagna povera, di esodo caotico, scappavano dalla montagna, alla ricerca di una busta paga qui nelle industrie. Quindi io assistevo a questa fuga dalle zone depresse, e la cosa mi impressionava, perché non era minimamente preventivato un esodo del genere, era lasciato a sé. Penso ai politici di allora, che non capivano, non sapevano, minimizzavano. Ecco, questa operazione dell’esodo mi aveva colpito moltissimo. Ho iniziato l’indagine del mondo dei vinti, vinti perché sconfitti, perché obbligati a cercare delle soluzioni che a me non sembravano le più giuste insomma. Ho iniziato l’indagine del mondo dei vinti dando la parola sovente, spesso, alle persone anziane che sapevano, magari mi parlavano della loro emigrazione di inizio secolo verso le Americhe, verso la Francia. Ma anche le Americhe, America del nord, poi l’altra America, l’Argentina, l’emigrazione. Assistevo all’esodo grandioso, grandioso, scappavano proprio, dal loro ambiente. Allora mi sono detto: una parte di queste persone hanno delle esperienze straordinarie da raccontare, o le ascolto io adesso oppure va tutto perduto. Allora ho cominciato. Un lavoro difficile, faticoso. Con "Il mondo dei vinti" ho raccolto 270 testimonianze, durata media tre o quattro ore, disperse in tutta la montagna, l’arco alpino. Era già difficile farsi accettare, poi che parlassero, che raccontassero, perché rimanesse almeno qualcosa di queste storie, di una società che cambiava rapidamente, su, a pochi chilometri da Cuneo si sfilacciava il tessuto sociale di vaste aree, e rimanevano solo gli anziani. E’ stata una pagina, è una pagina ancora sulla quale bisogna ancora meditare oggi. Quando sento parlare di difesa del territorio, per fortuna, le rare volte in cui c’è un’alluvione, ma ogni tanto c’è un’alluvione, allora si dice: "Eh, ma perché non c’è più la gente in montagna, si custodiva il territorio, lo governava". Ma non c’è più ed è difficilmente rinnovabile. Dove è cresciuto il deserto, rimane il deserto, nelle aree della montagna, le nostre valli sono spopolate. Allora prima ho raccolto le testimonianze del mondo dei vinti, sono testimonianze quasi tutte di uomini, e poi le testimonianze de "L’anello forte", ho dedicato altri otto anni a raccogliere 260 testionianze, anche lì tutte di donne, in parte di donne calabresi, meridionali. Negli anni Sessanta, era iniziato il fenomeno delle donne del sud che venivano a sposare i nostri contadini, non più giovani, che qui non trovavano più mogli. C’erano dei mediatori, combinavano questi matrimoni, tanti eh, centinaia. Dato che con "Il mondo dei vinti" avevano parlato soprattutto gli uomini, ho deciso di far parlare soltanto le donne e ho messo insieme "L’anello forte". Storie di vita, esperienze di vita.

Revelli, lei oltre a raccogliere centinaia e centinaia di testimonianze con il registratore le ha anche pubblicate sui libri, facendo quindi un immenso lavoro di trascrizione e di selezione del materiale. Ci vuole spiegare come si svolgeva questo lavoro?

La trascrizione è un’altra fatica, però era interessante per me, mi coinvolgeva, perché riascoltavo la testimonianza, con calma, individuavo gli eventuali miei errori compiuti durante il lavoro della testimonianza e quindi modificavo se necessario il mio sistema di dialogo. Se il mio interlocutore, il mio testimone parlava, raccontava e io interferivo in maniera inopportuna, riascoltando la testimonianza li coglievo questi miei errori, cercavo di non più ripeterli. La trascrizione era faticosa, ma per me era importante, per me era interessante. La selezione è difficile, ho dovuto sacrificare tantissime cose. Poi magari riassunte nell’introduzione, nelle introduzioni, ma difficile. Però un lavoro che mi appassionava, mi appassionava. Dedicavo tutto il tempo libero, non so, come definirlo se era tempo libero, cosa diavolo fosse, mi dedicavo con passione.

… un libro in cui ha ricostruito la misteriosa scomparsa di un ufficiale tedesco nell’Italia occupata dai nazisti. Come mai Revelli ha deciso di tornare alle vicende della guerra, per di più occupandosi di un tedesco, quindi di un nemico?

Dopo "L’anello forte" avevo in testa di dedicare un’altra indagine al clero della campagna povera della provincia di Cuneo, perché mi ero reso conto che il clero aveva avuto e aveva un’importanza grandissima. E infatti, prima ancora che uscisse "L’anello forte", avevo già realizzato cinque o sei testimonianze di preti, preti della campagna povera. Mi interessava molto quell’argomento. Poi mi è scattato l’interesse per quel tedesco. Un mio partigiano mi ha raccontato di quel tedesco disperso, scomparso qui a Cuneo. La figura del disperso, gira e rigira torniamo sempre all’esperienza di Russia. Disperso. "Ma è un tedesco". Però è un disperso, che è sparito qui a Cuneo, un giovane. Capire questa storia, così come mi veniva accennata era confusa, era poco convincente. Ho cominciato anche lì, poi più era difficile più io mi davo da fare e infatti ho lavorato anche lì degli anni su un discorso fonti orali, testimonianze di fonti orali, e poi testimonianze scritte di archivi, archivi tedeschi. Ed è uscito "Il disperso di ….". Mi ero quasi immedesimato in quel tedesco. Lei pensi che fin dall’inizio, quasi dall’inizio, mi stavo dicendo ma chissà questo tedesco qui che girava per le campagna intorno a Cuneo a cavallo come evasione, non avesse vissuto un’esperienza come la mia in Russia, ne fosse uscito tormentato, frustrato, non so, mi immedesimavo in quello, senza saperne niente. Allora ho iniziato la mia indagine finché non ho scoperto tutto, ho scoperto anche che era stato in Russia anche lui, questo giovane tedesco, poi rimase disperso qui. Non solo aveva perso l’unico fratello sul fronte russo.

Nuto Revelli, lei ha sempre rifiutato le etichette di storico, di antropologo, che di volta in volta le venivano date, preferendo definirsi un autodidatta. Ma per lei essere un autodidatta era un limite?

No, no, è stato abbastanza un vantaggio, perché da autodidatta non mi sono formalizzato tanto, andavo molto alla sostanza, poi lavorando anni e anni si impara eh, un po’ di esperienza l’avevo già, se lei pensa al mio dialogo da militare con i miei soldati, lì ho imparato a avvicinare la gente semplice, la gente contadina. Poi la guerra partigiana, durante la guerra partigiana ho imparato a conoscere quel mondo. Poi lavorando con le testimonianze si matura, si conosce, si correggono degli errori e le valutazioni sbagliate, se si lavora con alla base un criterio di umiltà, non credere di poter esibire la propria cultura, il proprio titolo di studio, queste cose qui, a quel mondo, perché mi ricordo dei miei soldati c’erano di quelli con la seconda elementare, forse mal fatta, su certe cose avevano delle intuizioni, si mangiavano in insalata i colonnelli, come intuizioni. Non era il titolo di studio che faceva la misura dell’intelligenza. Quindi rispetto assoluto nei confronti di quella gente lì. Poi si impara. Ci vuole un po’ di umiltà, non credere di andare ad insegnare. Io andavo ad imparare, negli incontri con i miei testimoni, tutti diversi l’uno dall’altro, tutti diversi l’uno dall’altro. Poi era un mosaico che si componeva, prendeva forma, meno male, che mi sono dedicato a questi impegni.

Nuto Revelli, ci sono stati dei personaggi della cultura italiana che l’hanno seguita o incoraggiata nelle sue ricerche?

Quando ho iniziato il discorso contadino, quello de "Il mondo dei vinti", nel 1970, una persona importante che ha saputo che stavo per iniziare questa indagine era Manlio Rossi Doria, un uomo straordinario, un docente universitario, specialista soprattutto interessatissimo del Meridione ma non solo. Manlio Rossi Doria, ha saputo che io iniziavo questo lavoro, da Franco Venturi, che era un altro docento universitario mio amico di Torino ed è venuto a trovarmi, partì da Roma ed è venuto a trovarmi, è stato qui una settimana, abbiamo girato le montagne e le valli con lui, ho girato le montagne e le valli con lui, a farlo parlare con la gente, mi ha incoraggiato, era bravissimo. Sempre più o meno in quel periodo, un giorno mi ha telefonato da Torino Franco Venturi, dicendo che uno studioso, un antropologo inglese voleva venire dalle mie parti a fare un’indagine nel mondo contadino, dall’Inghilterra, questo antropologo il cui nome era Barkley, uno abbastanza noto. Cosa avrebbe voluto fare qui: cercava un paese, una comunità di una valle del Cuneese, per studiare il fenomeno dell’esodo con l’industrializzazione che era in corso. So che mi ero chiesto, glielo avevo detto, ma deve partire da Londra questo qui? Ma c’è Torino qui, a ottanta chilometri da Cuneo, che non ci sia nessuno dell’università di Torino che abbia interesse a questo fenomeno che è grandioso in atto? Il fatto che dovesse arrivare uno studioso dall’Inghilterra ad interessarsi di queste cose nostre, invece di demoralizzarmi mi infondeva quasi una carica maggiore, come per dire, quello che faccio è utile, va fatto, se non lo fanno gli altri lo faccio io. Era una molla quasi per farmi lavorare. Ed è così che ho realizzato quello che ho realizzato.

Nuto Revelli, come si spiega il fatto che nonostante il riconoscimento ed il successo dei suoi libri in Italia non ci siano state molte altre persone che hanno compiuto indagini così ampie, così approfondite come le sue?

Perché è un lavoro faticoso. Nessun giovane può fare un lavoro come ne ho fatti io diversi. Un giovane non, io queste cose le capivo già da allora, dall’inizio, si può dire ad un giovane fai un’indagine come quella de "Il mondo dei vinti"? Un giovane finisce l’università, deve fare la tesi di laurea, qualche mese, un paio d’anni, un giovane come fa a dedicare sette otto anni ad un’indagine? Come fa? Sono indagini anche economicamente costose, bisogna muoversi, bisogna andare, bisogna a volte fermarsi, non è facile, bisogna dedicarsi, dedicarsi.

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http://www.storia900bivc.it/pagine/recensioni/calandricordero.html

 

Un omaggio a Nuto Revelli

Michele Calandri - Mario Cordero (a cura di), Nuto Revelli. Percorsi di memoria, "Il Presente e la Storia", rivista dell'Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, n. 55, giugno 1999, pp. 353, L. 35.000.

"A Nuto per i suoi ottant'anni", è la semplice dedica che i curatori dell'opera pongono in apertura della presentazione. Semplice e diretta, schietta e priva di retorica come piace a lui, al soldato, partigiano, memorialista, storico, narratore che di se stesso, rudemente e da tipico piemontese che detesta ogni enfasi, accetta per buona solo la definizione di "manovale della ricerca". Dopo riconoscimenti, premi e successi editoriali internazionali gli giunge ora questo atto di omaggio - un libro intero su di lui, sulla sua opera - dall'Istituto per la storia della Resistenza che ha contribuito a fondare nel 1964. Ma gli arriva anche dalla sua città, quella Cuneo che non sempre, affermano i curatori, "ha capito e riconosciuto il debito" verso un uomo certo ammirato ma anche un po' temuto "per la sua intransigenza, per la sua autorevolezza, per la sua coerenza, per il coraggio di dire le cose chiare".

La prima delle tre sezioni - "Saggi, testimonianze, documenti" - in cui l'opera è suddivisa raccoglie i contributi critici di maggior spessore, a firma di Giovanni De Luna, Luisa Passerini, Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, Laurana Lajolo, Fausto Ciuffi, Bodo Guthmüller e Massimo Luciani. Le diverse voci mettono a fuoco alcuni temi: dalla difficoltà di collocare in schemi precostituiti la sua opera (storia? letteratura? antropologia?), alle modalità di ricerca utilizzate da Nuto Revelli, dalla sua formazione militare alla ricerca sul campo per documentare la cultura contadina delle pianure e delle colline del basso Piemonte.

Per estensione e penetrazione, mi pare siano i due saggi firmati da donne ad essere più significativi. Luisa Passerini riflette sul rapporto tra oralità e scrittura nelle opere di Revelli, insistendo sul fatto che egli non va considerato uno storico professionista in senso stretto, in quanto raccoglie, organizza e usa il materiale in modo più letterario che non scientifico. Ciò non significa naturalmente sottostimarne il pregio, anzi: ricostruendo il dibattito storiografico sulla sua opera con il rimando alle recensioni, spesso firmate da importanti esponenti della cultura italiana, alle opere pubblicate tra 1946 e 1998, Luisa Passerini vuole richiamare l'attenzione sul particolare valore espressivo della sua opera, a suo parere non sufficientemente riconosciuto perché "nascosto" dai significati morali, documentari, sociali.

È su questi aspetti che si sofferma invece Laurana Lajolo, in un lungo contributo ("L'interprete del mondo contadino") nel quale il valore forte dell'opera di Revelli viene individuato nell'aver testimoniato "attraverso ricordi, pensieri, emozioni, il passaggio traumatico dall'Italia rurale a quella industriale, la trasformazione epocale che rappresenta uno snodo decisivo della storia dell'Italia repubblicana". Sottolineandone lo sperimentalismo metodologico - modalità di raccolta delle testimonianze, uso dei mediatori, temi di indagine, attenzione per la storia "di genere", linguaggio - Lajolo esalta in Revelli il ricercatore attento, capace di indignarsi - al pari di Pier Paolo Pasolini - per il "genocidio" contadino e di porsi in perfetta sintonia con i propri testimoni (dei quali, se mai, non riesce a condividere unicamente il modo di schierarsi - ma sarebbe forse meglio dire di non schierarsi - politicamente nel dopoguerra).

Nelle "Testimonianze" trovano posto ricordi affettuosi di amici, tra i quali Ernesto Ferrero (che scrive al posto del recentemente scomparso Giulio Einaudi e tratteggia il lungo sodalizio di Revelli con la casa editrice torinese), Mario Rigoni Stern (al quale, sia detto qui per inciso, Mario Isnenghi aveva accostato Revelli nel suo saggio per comunanza di percorso e di ispirazione e che qui, con commozione, rievoca all'amico cuneese la tragica esperienza della ritirata in Russia), Alessandro Galante Garrone, Gian Luigi Beccaria (che torna sulla condivisa passione per la lingua della cultura contadina), Christoph Schminck-Gustavus, l'amico e collaboratore tedesco che lo ha aiutato nella ricerca delle fonti archivistiche sul caso dell'ufficiale - un "tedesco buono"!? - cui Revelli ha dedicato nel 1994 "Il disperso di Marburg".

Chiude il prezioso volume la sezione "Documenti", in cui è collocata una prima bibliografia delle opere di Nuto Revelli, curata da Alessandra Demichelis, e le lettere di Livio Bianco a Nuto tra primavera 1944 e aprile 1945. Seppure non inedite - parte di esse sono state pubblicate in "Guerra partigiana" di Livio Bianco e altre in "La guerra dei poveri" - esse costituiscono una documentazione fondamentale per seguire da vicino, nelle parole dell'amico e maestro, il forgiarsi del "nuovo" Nuto, in cui senso dell'onore e della disciplina, spirito di servizio e amor di patria si amalgamano con una spiccata sensibilità per gli umili e una radicale scelta politica. (Marcello Vaudano)

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http://www.lapiazza.org/articoli/storia/alpini.htm

LA TRAGEDIA DEGLI ALPINI DELLA CUNEENSE NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA

Sacrificati con gli alpini della Julia per permettere all'Armir la ritirata

Nonostante il contributo italiano alla campagna di Russia non potesse essere che irrilevante, Mussolini con incosciente insistenza, più volte avanzò la richiesta a Hitler affinché l'Armir fosse inviato in prima linea, pretendendone il "sacrificio di sangue" (dalla lettera di Mussolini a Hitler del 6 novembre 1941, in "Documents on German Foreign Policy"). Da questo aiuto (non richiesto dalla Germania) i tedeschi seppero servirsi, in molti casi, con molto cinismo, come accadde nella battaglia di Stalingrado dove, la VI armata di Von Paulus ormai disfatta, per proteggersi la ritirata si servì degli italiani, mandandoli contro una morte quasi certa pur di tenere il fronte e proteggere la loro fuga.

 

La prima tradotta diretta in Russia con gli Alpini della Cuneense, partì da Mondovì il 17 luglio 1942. Tanti bravi ragazzi della nostra Provincia, nati tra il 1910 e il 1921 partirono in una guerra, come ci spiega Nuto Revelli nel suo capolavoro "Gli Alpini del Don", in cui "ignoravano tutto del fascismo. Nei tempi facili non appartenevano alla "gioventù del littorio": vivevano liberi, lontani dai grandi fatti nazionali. Non avevano nemmeno la camicia nera; a malapena conoscevano poche frasi fatte, i miracoli di Mussolini e basta". Così scrive anche Ernesto Ragionieri nella "Storia d'Italia Einaudi": "…dalle raccolte di lettere dei soldati italiani caduti e dispersi, il tratto che più colpisce, al di là dalle significative ma isolate espressioni di ribellismo, sia esso indistinto o consapevole, è il generale e uniforme disorientamento, l'assoluta e completa ignoranza sui motivi di quella guerra…". Ignoravano, continua Nuto Revelli: "che la guerra contro l'Unione Sovietica era una guerra totale. Ignoravano che l'ordine nuovo di Hitler era il nostro programma, che tre milioni di prigionieri sovietici vennero assassinati o fatti morire di fame e di stenti, che milioni di civili russi vennero deportati in Germania. Ignoravano che nelle retrovie sovietiche la popolazione moriva di fame. Ignoravano che venti milioni di russi pagarono con la vita la follia di Hitler e di Mussolini, che sei milioni di ebrei morirono nelle camere a gas, nei forni crematori, nei campi di sterminio nazisti". I nostri Alpini non sapevano della "soluzione finale", non sapevano che esistevano i campi di sterminio, non capivano cosa facessero, nelle stazioni, quelle persone con al braccio la stella gialla di David. Con loro sparì un'intera generazione di contadini e montanari; la divisione alpina "Cuneense" sul fronte russo era di circa 18.000 uomini, solo in 4000 ritornarono…

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"Migliaia di uomini mandati a morire con tanta superficialità e senza alcuna preparazione. In Russia non credevo più a niente"

la guerra DEGLI IGNORANTI

In un colloquio di parecchie ore , il comandante partigiano Nuto Revelli ci ha raccontato la sua storia: dall'Accademia militare di Modena alla partenza per la Russia, alla drammatica ritirata, al ritorno in Italia. Gli abbiamo chiesto di spiegarci come vedeva l'Italia, il fascismo, i tedeschi, la guerra, dal lontano Don. Molti dei fatti narrati si possono ritrovare nei suoi libri, dal diariodi Russia ["Mai tardi"] fino all'ultimo, bellissimo, "Il disperso di Marburg". Questa è la sintesi della sua testimonianza.

Nuto Revelli

Il fronte russo è stata la mia prima esperienza di guerra. Ero uscito da poco dall'Accademia militare di Modena, e i miei insegnanti per la maggior parte erano ufficiali anziani con l'esperienza della guerra 1915-18 sulle spalle. E il nostro esercito alla vigilia della seconda guerra mondiale era in gran parte l'esercito della prima, come preparazione, o meglio impreparazione militare: era fuori dal tempo, superato, strutturato per una guerra più di posizione che di movimento, concepito quando non si parlava ancora di colonne corazzate, di aerei come elementi dominanti nella strategia. Quando sono uscito dall'Accademia avevo tanta teoria in testa, ma superata.

Non voglio sminuire i miei insegnanti di allora, perché da loro qualcosa ho appreso, però sul piano pratico erano cose vecchie.

Un solo esempio: in due anni di Accademia, io e tutti i miei compagni non abbiamo visto un solo carro armato vero ma esclusivamente carri armati sulla carta, disegnati in sezione verticale e traversale. Si può dire: tu volevi fare l'ufficiale negli alpini, per cui non ti serviva vederne uno. Ma nel mio corso c'erano gli alpini e i bersaglieri ma anche i carristi, quelli che finita l'Accademia sarebbero diventati ufficiali carristi. Eravamo già in guerra, per me l'Accademia è iniziata nell'autunno del 39 ed è finita nella primavera del 41. Mai visto un mitra, un Beretta. I primi due li ho visti nell'agosto del 42 sul fronte russo durante le marce verso il Don, imbracciati da due sottufficiali di scorta al generale Gabriele Nasci, comandante del corpo d'armata alpino, delle divisioni Cuneense, Tridentina e Julia. Noi della Tridentina stavamo compiendo le marce dalla stazione di sbarco di Novo Gorlovka verso Voroscilovgrad: invece di andare nel Caucaso ci avevano dirottati in quelle immense pianure, anche perché una divisione italiana che era sul Don da poco tempo, la Sforzesca, era in ritirata, aveva ceduto. Marciavamo verso Voroscilovgrad, poi avremmo proseguito per raggiungere la zona della Sforzesca.

Avevo visto Nasci, era lì che ci guardava sfilare, con questi due sottufficiali coi mitra. Poi li ho rivisti qui a Cuneo, in dotazione ai "balordi" della Ettore Muti di Borgo San Dalmazzo che erano delle bestie feroci, giovani e meno giovani.

Camminavamo su quelle pianure immense, in piena estate, un sole che bruciava, il vento. La mia compagnia consisteva in 342 alpini, 8 ufficiali e 90 muli. Noi alpini procedevamo per due in fila indiana. La colonna era lunga almeno un chilometro. Noi, con l'alpenstock, un bastone alto due metri che serviva per andare in montagna. Era uno spettacolo fuori dal tempo. Incrociavamo ogni tanto qualche camion tedesco su quella pista tracciata sui campi, polverosa. Si sollevava la polvere per tramutarsi in una specie di nebbia. I tedeschi ci guardavano con curiosità: "Ma chi sono questi?" C'era un mulo per ogni tre alpini. Avevamo già abbandonato le piccozze e le corde da roccia alla stazione di sbarco. Avevamo una dotazione importante di piccozze, corde da roccia e ramponi da ghiaccio, eravamo truppe da montagna. Se non era follia, questa: truppe alpine mandate a combattere in quegli scacchieri di guerra: Mussolini, il "grande statista", un disastro anche come esperto di cose militari. Era già un delitto mandare della gente a morire, ma farlo in quelle condizioni era un doppio delitto. Mussolini diceva di non sapere, ma lui sapeva tutto, aveva informatori nello stato maggiore dell'esercito. Il nostro esercito aveva già subito il collaudo nel giugno 40, qui sulle nostre montagne, in quella brevissima guerra durata pochi giorni contro la Francia. Mussolini sapeva tutto: sapeva che le scarpe in dotazione all'esercito facevano pietà. Erano scarpe, a mio giudizio, prodotto di tangenti sistematiche, già allora c'era il sistema delle tangenti e un ladrocinio generalizzato. Si pensi che nei 7-8 giorni di guerra guerreggiata qui in casa nostra, nelle nostre valli lungo la displuviale alpina, abbiamo avuto qualcosa come 600 morti e altrettanti dispersi. E inoltre, era giugno del 1940, 2000 congelati. C'era di che allarmarsi, no? I libri dell'ufficio storico dello stato maggiore usciti dopo la Liberazione riportano questi dati.

Il mio era un equipaggiamento da ufficiale, diversissimo da quello dei soldati. Prima di partire per la Russia ero andato dal miglior calzolaio di Cuneo per farmi fare degli scarponi da montagna a regola d'arte. Le scarpe in dotazione alla truppa, invece, erano le stesse che usavano i soldati in Africa. I vertici del fascismo sapevano tutto. Io la responsabilità la dò sempre a quell'uomo - Mussolini - ma anche al regime, ai vertici militari, al potere economico, alla monarchia. Anche quel re piccolo piccolo sapeva tutto. Costoro giocavano la carta dei tedeschi, puntavano tutto sui tedeschi che vincevano dappertutto. Tanto i tedeschi fan tutto loro, noi diamo una mano e poi ci pensano loro. Sapevano tutto, non erano nella condizione del nostro montanaro con la seconda elementare. C'era stata la guerra contro la Francia, e quella del fronte greco-albanese che è stata una esperienza drammatica: là i congelati non erano 2000, ma molte migliaia. La guerra è durata dal 28 ottobre del 40 a maggio/aprile del 41, quando sono arrivati i tedeschi a toglierci dalle difficoltà. Là la logistica era saltata per aria, era inadeguata perfino a risolvere i problemi del rifornimento del pane ai soldati.

La guerra con la Francia: se ne sa poco ma merita di essere studiata perché è stata il collaudo del nostro esercito che aveva stravinto in Etiopia, dove però si combatteva contro i bastoni e le lance. Il vero collaudo è stato sul fronte occidentale. Per due giorni è stato tutto un susseguirsi di ordini e contrordini: sparate, non sparate. Poi iniziare la marcia verso Marsiglia. I francesi che erano barricati nei loro bunker con le artiglierie efficienti, appena ci siam mossi hanno cominciato a picchiarci in testa. Quando sono giunto a Cuneo dopo l'Accademia, ero curiosissimo, sapevo che sarei dovuto andare in guerra. I miei alpini nel maggio del 41 erano appena tornati dal fronte greco-albanese. Avevo una quarantina di uomini, li interrogavo, li ascoltavo. Li invitavo a parlare e imparavo. Dicevano in coro che le loro artiglierie facevano pietà: i mortai greci erano micidiali, sembravano dei giocattoli ma erano efficienti. Perdevano le scarpe a pezzi, le tenevano legate con il fil di ferro. Avevano sofferto la fame, mancavano le munizioni. I miei soldati avevano vissuto quasi tutti l'esperienza del fronte occidentale.

Mi parlavano i congelamenti, le nostre valli intasate, la confusione, storie incredibili. Era gente di montagna che aveva vissuto male quella guerra: magari dall'altra parte, con i francesi, c'erano i loro parenti, emigrati poco tempo prima.

Alla vigilia della partenza per il fronte russo ero alla Tridentina a Rivoli, avevo preso coscienza della mia ignoranza: pian piano ero arrivato a dirmi "devo capire, devo capire perché". Io parto, vado ad ammazzare o a farmi ammazzare, a migliaia di chilometri da casa: per che cosa? Era un interrogativo drammatico. Tanti non se lo ponevano, oppure davano una risposta semplicistica: "Vado per la patria". Ma cos'è la patria per la quale vado ad ammazzare o a farmi ammazzare? E il fascismo? Io ero stato un giovane fascista, ero nato e cresciuto come tutti i giovani della mia generazione nella retorica, nel trionfalismo del Ventennio. L'Accademia mi aveva in parte disintossicato. Arrivo a dire 50 anni dopo che la stessa scelta di andare all'Accademia voleva dire lasciarmi alle spalle il mio fascismo infantile. Era già stata una scelta matura, di vita, avevo vent'anni. In accademia avevo ascoltato le prime espressioni di critica al fascismo, da cui l'esercito tendeva a differenziarsi. Quando sono entrato nell'Accademia di Modena, confuso, nel giro di un mese ho imparato una nuova gerarchia. Sua maestà, il re imperatore Vittorio Emanuele III, era il numero uno nel paese. Ricordo che mi ero detto: "il numero due sarà Mussolini, obbligatoriamente". No, il numero due è Sua Altezza reale il principe di Piemonte. E' giovane ma è l'ispettore dell'arma di fanteria. E Mussolini? Era il numero tre il duce del fascismo, capo del governo, ministro della guerra. Avevo ascoltato critiche aperte: "La guerra sul fronte greco-albanese è iniziata il 28 ottobre: un disastro. Avanzate, ritirate, la macchina militare è sull'orlo del collasso".

Badoglio venne esautorato, era capo di stato maggiore. Al suo posto subentrò Cavallero che andava bene a Mussolini. Badoglio capro espiatorio del disastro. Il giorno dopo questa operazione in 180 allievi del mio corso siamo alla lezione di storia. Entra il colonnello Reggiani, bravissimo insegnante di storia militare, che rispettavamo molto. Come entrava nell'aula tutti scattavamo sull'attenti, si sentiva come un rumore di tamburi perché il pavimento era di legno. Si aspettava che l'insegnante dicesse "Comodi". Scattiamo tutti sull'attenti e il colonnello con voce commossa e le lacrime agli occhi pronuncia una frase più o meno come questa: "Delle squadracce dei fascisti, gente che vale niente, hanno osato esautorare il maresciallo Pietro Badoglio che è l'esercito". Erano pugni nello stomaco per dei giovani sui 20 anni che avevano sempre sentito osannare il duce. E arriviamo all'ultimo messaggio. Il giorno in cui abbiamo finito l'accademia. Il nostro generale, Giacomo Carboni, ci ha riuniti e ci ha detto: "La guerra va male, le responsabilità non sono dell'esercito, sono del fascismo". Un altro pugno nello stomaco, come se chiudendo un seminario il professore avesse tirato una bestemmia.

Avevo già socchiuso gli occhi quando arrivai qui a Cuneo, e i miei soldati mi fecero un corso accelerato. Poi mi hanno trasferito a Rivoli, dove i miei soldati erano montanari e contadini valtellinesi. Anche lì continuavo ad ascoltare nuove verità.

Non capivo niente, ero ignorante, ero cosciente di esserlo però partivo sperando di vincerla comunque, quella guerra. Andiamo là, siamo con i tedeschi, i tedeschi vincono sempre. Vinceremo. Non voglio parlare di onore, c'è il rischio di cadere nella retorica, 50 anni dopo. Ti sentivi parte dell'esercito, se eri un ufficiale serio conoscevi un pochino questi uomini, i loro problemi familiari, dialogavi con loro. Poi ti attaccavi a questa gente e ti veniva voglia di dire: "Facciamo di tutto per avere meno perdite possibili". Pensavo fosse meglio vincere che perdere. La patria per me erano questi soldati che avevano già due campagne di guerra sulle spalle e che non avevano voglia di andare sul fronte russo, però partivano. Provavo un po' di vergogna: questi erano già in guerra mentre io facevo l'accademista. Eppure ho scelto di fare il militare nella vita.

Tutte queste cose si intrecciavano, sovrapponendosi. Io intuivo che i miei soldati non ne volevano sapere di andare in guerra.

Guardavo questi poveri cristi e mi sembrava che il minimo che avrei potuto fare era di condividere con loro. Uno dei miei soldati a Rivoli, tutte le sere allestiva un bamboccio sul letto e scappava. Eravamo abbastanza comprensivi, non fiscali, c'era poco da essere fiscali. Questi soldati avevano già altre esperienze di guerra sulle spalle ed erano dei ribelli. Un giorno lo affrontai e gli dissi "Ma dove vai a finire tutte le notti? Guarda che se ne sono già accorti i miei colleghi". E questo: "Mia moglie e il mio bambino vivono a Torino. Io finchè non si parte scapperò tutte le notti. Però le prometto una cosa: quando saremo in Russia, al fronte, ci saranno delle posizioni a rischio e io mi presenterò da lei e le dirò: Mi mandi nella posizione più pericolosa'". A settembre, mi sembra l'11, arriviamo in una posizione difficile, rischiosa. Ci affanniamo per prepararci alla difesa quando arriva questo soldato e mi dice: "Tenente, si ricorda quel giorno a Rivoli? Mi ha richiamato perché scappavo sempre. So che c'è quella posizione lì, molto rischiosa, voglio andarci". Ecco, c'era anche gente così. Tre anni fa, dopo cinquant'anni mi ha telefonato: "Si ricorda? Sono quello che scappava sempre. Sono a Cuneo e vorrei tanto incontrarla". 50 anni dopo! La notte del 21 luglio 42 era il mio compleanno. Dopo tutto un giorno di preparativi, a mezzanotte eravamo pronti a partire. La stazione di Collegno era deserta perché i nostri soldati erano valtellinesi e quindi non c'era nessuno a salutarli. A mezzanotte la tradotta si muove ed arriva dai vagoni un coro lamentoso, quasi un pianto. Cantavano una canzone proibita, Bandiera nera, che recita in una strofa "bandiera nera/ è il lutto degli alpini che vanno alla guerra. La migliore gioventù va sottoterra". Una canzone di protesta, non guerriera. Quel canto mi è arrivato come un messaggio, una conferma dello stato d'animo dei miei soldati, che della guerra non avevano proprio alcuna voglia. Abbiamo sostato a Milano. Le donne fasciste, in sahariana, portavano ai soldati acqua e ghiaccio. Soldati che avevano bisogno di intontirsi con vinaccio, grappa, non certo con dell'acqua fresca. Al Brennero è successo qualcosa e abbiamo sostato a lungo. Ferma sul binario parallelo al nostro c'era una tradotta tedesca che entrava in Italia. La loro tradotta consisteva soprattutto di carri armati. Era caldo. I tedeschi stavano sdraiati a torso nudo al sole, e noi tutti infagottati nelle nostre divise fuori dal tempo. Con le fasce mollettiere intorno alle gambe. E il cappello da alpini. I tedeschi ci guardavano sbalorditi. Dai vagoni di coda dove stavano rinchiusi i 90 muli arrivò un rumore incredibile: quelle povere bestie, cotte dal caldo, avevano cominciato a scalciare. I tedeschi spalancavano gli occhi: "Ma cos'hanno dentro questi vagoni?". Ricordo quel confronto al Brennero: noi eravamo i vecchi, loro quelli della guerra moderna. Poi arrivammo in Austria: ma che belle stazioni. E il paesaggio, tutto ordinato, intatto. Poi la Germania, ancora tutto bello e ordinato. Poi la Polonia: grandi distese di terra incolta o con il grano non raccolto, un paesaggio monotono. Gli alpini contadini guardavano e dicevano: "Se ci fossimo noi a coltivare".

Ignoravano che la Polonia era occupata dal settembre del 1939.

Poi i primi segni dei bombardamenti, qualche piccola stazione ferroviaria distrutta dalle bombe. E Varsavia con i segni di bombardamenti. E' lì che ho visto il primo gruppetto di ebrei, uomini ancora in forze, non ancora dei relitti. Li ho visti da lontano, qualcuno ha cominciato a dire "Hanno quel segno giallo, quella stella. Ma chi sono?". Nessuno sapeva dei campi di sterminio, mentre attraversavamo la Polonia sfiorandoli. Dopo Varsavia, Terespol, dove vedemmo delle donne ebree che lavoravano, appena fuori la stazione. Dov'è successo il fatto che mi ha segnato per tutta la vita è a Stolbzce, una piccola stazione tra Brest-Litovsky e Minsk, in Bielorussia. Viaggiavamo almeno da otto giorni con soste brevissime, giorno e notte. Non è che durante quei giorni e quelle notti avessimo imparato la geografia dell'Europa, però ci rendevamo conto che la Russia era proprio lontana: i soldati nei carri bestiame, e noi otto ufficiali in un vagone di terza classe. Arrivammo a Stolbzce in pieno giorno e stranamente ci dissero che la sosta sarebbe stata lunga. Quindi bisognava scendere dalla tradotta. Scendemmo e ci venne incontro un gruppo, un branco, forse 60/70 persone ridotte in condizioni indescrivibili, coperte di stracci, scalze. Relitti, in piedi per miracolo.

Donne, vecchi, bambini. Era una stazione il cui immobile era modestissimo. Ho visto questa folla venire verso di noi e poi ho visto i bambini che saltellavano, gli unici ancora vitali - facevano tenerezza nei loro giacconi da adulti. Sullo sfondo era comparso uno strano personaggio, indossava una specie di smoking tutto nero, cravattina a farfalla, camicia bianca, e brandiva un bastone. Sembrava uno spaventapasseri e rincorreva i bambini per evitare che ci raggiungessero. Ma lo faceva senza convinzione, rientrava forse nel suo ruolo di kapò improvvisato. A 20 metri da questo branco di relitti, tre SS: erano ragazzi, spilungoni eleganti nelle divise. Sorvegliavano con le gambe divaricate in posizione di riposo ma anche del "chi va là", con le mitragliette puntate. Sembravano indifferenti, assenti, lasciavano che questa gente si mescolasse a noi. Odiosi, sembravano finti con le facce lisce, sbarbate, da bambini cresciuti troppo in fretta. Guardavo questa gente, avrei voluto scambiare qualche parola, capire. Elemosinavano un pezzo di pane, un rifiuto. Ci guardavano, mormoravano, non si capiva niente. Parlavo con i miei colleghi. Volevo capire: "Ma questi qui sono pazzi a farci vedere uno spettacolo del genere, terrificante. E' uno spettacolo che fiacca il morale. Che senso ha?". Il meccanismo dello spettacolo faceva capire che esibivano la cosa, quei 3 tedeschi rigidi come manichini permettevano a questa gente di avvicinarsi a noi. Era voluto. Mi chiedevo se fosse un caso isolato, questo spettacolo. "Santa Madonna, se questa è la guerra dei tedeschi io non ci sto, non è la mia". Io che ero partito per andare a capire, cominciavo a capire. Eravamo talmente spaventati di fronte a quella visione che in quella sosta durata 3 ore abbiamo avuto il tempo di preparare un rancio caldo, il primo dopo tanti giorni. Abbiamo distribuito il rancio a questa gente che era stata attratta dal profumo del minestrone. Non avevano niente dove metterlo e così si industriavano rimediando tra i binari scatolette di latta arrugginite, buttate dalle tradotte. E' qui che i miei interrogativi hanno cominciato a trovare una risposta. Poi è successo quello che succede sempre in guerra: ripartimmo, voltammo pagina. Siamo arrivati a Novo Gorlovca convinti di andare sul Caucaso, il che ci dava una certa tranquillità perché era montagna. E invece...

Arrivammo al fronte l'11 settembre, io il 24 settembre sono rimasto ferito: una raffica mi ha portato via il bicipite del braccio sinistro. E lì è cominciata la trafila degli ospedali, delle retrovie. Mi sono reso conto della disorganizzazione delle nostre retrovie, della corruzione. Ed è lì che sono diventato un ribelle: vedevo i tedeschi nelle retrovie, motorizzati, con camion, automobili, motociclette e noi poveracci a piedi dappertutto. Retrovie false, scombinate. I tedeschi li ho odiati a Voroscilovgrad, circa 200 km dal fronte, dove ero arrivato dopo una lunga trafila in altri ospedali. C'era un ospedale enorme, da dove era vietato uscire, e io uscivo perché era l'unico modo per ribellarmi. Un giorno vidi passare una colonna di civili, solo uomini, non ebrei, guardati dai tedeschi con le mitragliette. Erano in fila per due intramezzati ogni tanto da un tedesco. Mi colpiva la loro dignità, camminavano a testa alta. Ho provato una vergogna profonda, di chi prende coscienza di essere un aggressore.

Perché poi questo spettacolo lo mettevi a confronto con la corruzione, gli ospedali scombinati. E ogni tanto incrociavi un ufficialetto con gli stivali, la divisa da figli di papà, con a braccetto uno straccio di ragazza, disposta a tutto per un pezzo di pane. E' lì che sono diventato quello che sono. Una sera, eravamo in 7/8, uno con le stampelle, io col braccio al collo.

Gli italiani ci portarono al binario e ci dissero che sarebbe arrivato il treno ospedale. Ci caricano su un treno tedesco, pieno di soldati, in parte arrivavano da Stalingrado. E noi 7/8 italiani finimmo tra questi nevrotici di tedeschi che ci trattavano da cani. Io avevo occupato un posto con uno zainetto: arrivò un tedesco e me lo buttò via. La tradotta ogni tanto si fermava e salivano delle donzelle della croce rossa che portavano pane, marmellata, caffè. Mai che si sbagliassero, mai che dessero qualcosa a noi italiani.

Abbiamo viaggiato 24 ore senza un goccio d'acqua. E poi siamo arrivati a Dniepro Petrovska. Dopo qualche giorno ho chiesto rapporto dal colonnello, un tipo vecchio che aveva dei gradi enormi sulle maniche. Gli ho detto che volevo andarmene: "Io soffro la fame di pane, mi dica lei, se è possibile. Qui rubate tutto". Lui gridò: "Come ti permetti. Sei un ufficiale. Tu vai via se ti lasciamo andare". "No, io scappo". "Vuoi diventare un disertore?". "No, lei non ha capito: io torno al fronte. Lì l'ambiente è pulito". Quando sono arrivato sul Don, i miei soldati mi interrogavano, volevano sapere come funzionavano gli ospedali, le retrovie, cosa ci fosse dietro. Io dicevo soltanto: "Se rimanete feriti fermatevi più che potete all'ospedale da campo del reggimento".

Poi è arrivato il freddo. I soldati erano stranamente ingrassati.

Erano gonfi perché per compensare il rancio povero avevano scoperto dei campi di patate e dei depositi di grano e allora facevano grandi polpette di patate e grano che tritavano con macinini improvvisati che si erano costruiti. Erano gonfi, stufi, stanchi. Tra raffiche di katiuscia - l'artiglieria che sparava 18-24 bombe contemporaneamente - .abbiamo cominciato a vedere dall'altra parte del Don processioni di automezzi coi fari accesi che andavano verso sud. E poi abbiamo avuto le prime notizie che a sud c'era una breccia enorme e i sovietici ci avevano accerchiato.

E arriviamo al 17 gennaio, quando comincia il ripiegamento del grosso del corpo d'armata alpino. Io mi sono fermato una notte in più sul Don con un reparto di mascheramento per far credere ai russi che erano sull'altra sponda che noi eravamo ancora lì.

Siamo rimasti tutta la notte a sparare per far credere che come tutte le notti provavamo le armi e tenevamo le stufe accese nei bunker. Il giorno dopo ho lasciato Belogorie e sono arrivato a Podgornoe, un villaggio enorme che era punto di radunata della mia divisione. Fine del mondo, caos completo, decine di migliaia di sbandati: italiani, tedeschi, ungheresi. Noi della Tridentina, qualcuno della Julia, molti senza reparto. Depositi di munizioni tedeschi che saltavano in aria, depositi di viveri assaltati, un inferno. E da lì è iniziata la trafila della ritirata: tremenda. La ritirata è durata fino al 30 gennaio, quando abbiamo incontrato i primi segni di una linea tedesca appena abbozzata.

Siamo usciti come siamo usciti, quasi ognuno per proprio conto.

Io avevo 3 slitte cariche di feriti. Ci siamo fermati un giorno o due e poi ci hanno detto che bisognava ripartire verso ovest. Il mio reparto non aveva più 342 alpini: s'era ridotto a 60/70. I muli li avevamo persi quasi tutti. Abbiamo percorso altri 700 km per raggiungere Slobin, zona di radunata della divisione. Qui abbiamo avuto una sosta.

Ormai era impossibile ricompattare anche un reparto minimo. Da Roma ci chiesero di rimettere in sesto qualcosa di italiano, ma quando ci hanno interpellati abbiamo fatto capire che non c'era nulla da fare: finito.

Tornando all'ignoranza di partenza, ricordo esattamente quando ho capito tutto: il pomeriggio del 20 gennaio, dopo due tre giorni di ritirata. Nel pomeriggio, c'era ancora un po' di luce, la mia colonna era ferma sulla piana di Postoialy in attesa di ordini. Il reparto aveva un centinaio di uomini recuperabili. Il comando del corpo d'armata, con il generale Nasci, aveva perso ogni contatto con la Cuneense e la Julia poiché non c'era più una sola radio funzionante, non sapeva in che direzione farci andare. Eravamo fermi, con 8.000 tedeschi sbandati e altrettanti ungheresi. Formavamo una scia nera lunga chilometri e larga 70 metri. In quella situazione, quasi buio, è arrivato un aereo sovietico a mitragliare. Vedevo uomini, soldati che saltavano in aria. Ricordo che i miei alpini avevano appena acceso un fuoco con della paglia. C'erano 25 gradi sotto zero. In quel momento ero lì con due colleghi, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: "Madonna santa, qui è la fine". E ho penasato: "Non credo più in niente". Ho maledetto la monarchia, il fascismo, i generali, la guerra.

Ho capito tutto, ho avuto la percezione di essere uscito totalmente dalla mia ignoranza iniziale. Però era tardi. Infatti, da allora in poi, mischiato in questa colonna rumorosa dove c'era chi vaneggiava, chi parlava da solo, chi si agitava per scaldarsi, ho cominciato a dire la mia. La memoria visiva mi fa rivedere il volto delle persone, e quel fuoco di paglia che venne spento in fretta e furia all'arrivo dell'aereo sovietico.

Quel collega che mi diceva "Chissà se a Roma sanno". Ma cosa vuoi che sappiano, a Roma ci hanno già dimenticato. Me lo sono detto tante volte dopo questo episodio: se esco vivo di qui lascio l'esercito. Non sopportavo più la divisa, gli ordini, s'era rotto qualcosa.

Guardavo la popolazione durante quelle marce: la guardavo con il rimorso di aver partecipato a quella guerra sbagliata e poi la guardavo con tenerezza, una popolazione fatta quasi tutta di anziani. Mi aggrappavo a quel mondo, il mondo della popolazione civile, perché vedevo in esso uno spiraglio di pace e forse vedevo anche la mia famiglia. Quando siamo arrivati a Slobin siamo stati tre o quattro giorni in una casa non povera dove c'era un vecchio che mi ricordava tanto mio padre: un uomo alto, severo, con due bambini sui cinque anni. C'erano due o tre stanze e a noi ne avevano assegnata una, eravamo in 3. Loro vivevano da soli. Ho cercato di avere un dialogo con il vecchio, usando quelle poche parole di russo che avevo imparato. Noi eravamo molto gentili, però lui ci faceva capire che ci sopportava, ma ognuno doveva stare al suo posto. Allora ci siamo messi a cantare, cercando di coinvolgere i bambini. Il vecchio li ha portati via. Dopo un po', però, dall'altra stanza è arrivato l'eco del loro canto.

Io mi aggrappavo a queste cose. Il mio generale aveva fatto un volantino con sù scritto "Ricordare e raccontare", ma appena arrivati in Italia non facevano che ripeterci: "No, non dite niente della Russia, degli italiani e dei tedeschi". Dalla ritirata sono tornato con tre armi. Il mio generale che sapeva delle armi, due parabellum e una pistol-machine tedesca, voleva che le consegnassi e io continuavo a dire di non avere niente e me le sono portate a casa. La pistol-machine l'avevo requisita ad un tedesco nel momento in cui ero uscito dall'accerchiamento. Avevo visto 3 o 4 tedeschi che ci sbeffeggiavano e fotografavano.

Avevo una voglia matta di saltar loro addosso. Un po' più in là c'era un bamboccetto tedesco con la faccia da suonato e la pistolmachine in spalla. Un'ora prima un mio alpino mi aveva regalato due pacchetti di sigarette che aveva preso dallo zainetto di un tedesco. L'istinto mi ha fatto andare là con le sigarette in mano: gli ho toccato la cinghia della pistol-machine e gli ho fatto capire che in cambio gli avrei dato le sigarette. Ha accettato: mi pareva di aver disarmato un tedesco. Sono tornato i Italia con quelle tre armi: mi ero messo in testa che non era finita, che sarebbero servite ancora.

Eravamo tornati in pochissimi dalla Russia, la divisione Cuneense era scomparsa sul fronte russo. I pochi reduci venivano convocati alla federazione fascista a Cuneo, dove li accoglievano facendo grandi elogi, ma con una predica finale: "Non parlate, non dite niente né dei tedeschi né degli italiani. Il fronte interno non deve sapere".

La musica era sempre la stessa: "Taci, il nemico ti ascolta".

Soltanto alla terza convocazione decisi di andare alla federazione fascista. Mi sono trovato davanti un imboscato che prima mi ha elogiato e poi mi ha ripetuto di non dire niente della Russia. L'ho aggredito, gli ho detto di non rompermi più l'anima. Io pensavo di non riuscire più a credere in nulla. Sentivo il peso di quelli rimasti in Russia. Stavo nella mia stanza, leggevo il diario, pensavo ai miei caduti e dispersi di Russia e mi mettevo a piangere. Piangevo anche per un'ora, da solo. I miei capivano che soffrivo perché vivevo le notti rivedendo la ritirata, rivivendo i combattimenti. A volte urlavo "spara, spara" e mi svegliavo di soprassalto. E' così che è arrivato l'8 settembre e il partigianato. Ma questa è un'altra storia.

In Russia ho capito che la guerra era perduta. Anche i tedeschi erano mal messi. Li avevo visti sbandati, fare i prepotenti in alcuni casi ma anche comportarsi da vinti e quindi anche sulla macchina bellica tedesca mi ero fatto delle convinzioni. Quando è arrivato l'8 settembre, ricordo in via Roma l'euforia della "guerra finita", i soldati che si abbracciavano e la gente che festeggiava. Io avevo le idee precise sul fatto che la guerra sarebbe stata ancora lunga, questa volta contro i tedeschi. Da partigiano continuavo a dire ai miei compagni inesperti di guerra, in previsione dei rastrellamenti: "Guardate che se noi spariamo bene quelli scappano come tutti". Questo per smitizzare la solita immagine dei tedeschi invincibili, straordinari, uomini d'acciaio.

Era la retorica aiutata dalla spietatezza che avevano i tedeschi nelle rappresaglie, nelle risposte, negli atteggiamenti. I tedeschi urlavano sempre. Era più forte di loro, urlavano sempre.

I fascisti erano peggio dei tedeschi. Dopo il disastro di Russia odiavo i tedeschi, li consideravo responsabili del nostro disastro. Ma quel disastro l'avevamo cercato, voluto, avevamo fatto il possibile per realizzarlo. Nel mio diario di Russia, che è trascritto nel libro "Mai tardi", quando cito i tedeschi li chiamo sempre bastardi, vigliacchi, balordi. Non c'è mai scritto "i tedeschi" e basta, c'è tutta una filastrocca di insulti. Del regime fascista non minimizzavo niente: pensavo che il fascismo ci aveva traditi, plagiati, e pensavo soprattutto alle migliaia e migliaia di morti e dispersi, gente semplice mandata al massacro in quel modo tremendo.

Mandati in guerra in condizioni di inferiorità, un crimine che gridava vendetta. Quando siamo partiti da Rivoli la voce era che andavamo sul Caucaso: arriviamo là che è tutto finito.

La propaganda rozza la metteva sul comico, diceva: "La nostra sarà una passeggiata, vinceremo in un baleno per poi scendere ad Alessandria d'Egitto dove ci ricongiungeremo con i nostri che avranno già conquistato tutta l'Africa". Discorsi da ubriachi.

La stupidità del fascismo, e i suoi molti complici, come il re che pensava a se stesso, alla monarchia, ai propri interessi, e noi eravamo là a crepare.

Insisto molto sul discorso dell'ignoranza perché non poco di quell'ignoranza, direi di massa, esiste ancora oggi: lo riscontri, lo avverti nella cronaca quotidiana. Io parlo spesso ai giovani durante le presentazioni dei miei libri. Dico loro: "Lottate contro l'ignoranza, la vostra e quella degli altri. Noi la nostra ignoranza l'abbiamo pagata cara. Nell'ignoranza si può anche vivere bene, ma nei momenti estremi non ti salva. Durante il fascismo non esisteva un solo libro che non fosse di propaganda. Oggi chi vuol capire dispone di tutti i mezzi necessari. Leggete, mettete a confronto le verità diverse, e poi trovate la vostra verità".

a cura di Loris Campetti

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http://www.aaster.it/news/futuro.htm

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http://www.archicoop.it/santandrea/remengon.htm

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http://www.eurasia-network.org/canevaroseminariobologna.htm

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Ho sempre molto fatto riferimento a un personaggio che sembra estraneo a tutto quello di cui si occupa il nostro incontro. Si tratta di Nuto Revelli. Nuto Revelli è un raccoglitore di storie orali, che ha svolto un lavoro di grande importanza in quella che può essere chiamata la riparazione dell’offesa. Il suo percorso inizia dalla partecipazione, come giovane ufficiale degli alpini, alla campagna di Russia, rimanendo ferito – forse più nell’animo, ma profondamente - per tutto quello che viveva e che vedeva attorno a sé. Gli altri sembravano vivere con la naturalezza dell’indifferenza il massacro di una guerra insensata, che invece per lui era un interrogarsi sulle ragioni di una storia così perversa, inutile e angosciosa: massacrati e massacranti per ragioni che nessuno conosceva.

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http://www.inclasse.it/lettura_schedalibro.php?ID=188

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http://www.cuneo.net/istituto-resistenza/archivio.htm

..................Fondo divisioni Giustizia e Libertà composto da Carte Nuto Revelli (a cui sono aggregate le Carte Archivio II Settore, le Carte Archivio II Banda, le Carte Archivio L. Berutti, le Carte Archivio Divisione Littorio bb. 28). Il materiale è stato depositato in fotocopia da Nuto Revelli, ufficiale degli alpini e comandante partigiano, che ha raccolto numerosi documenti con una precisione quasi diaristica cosicché è possibile ricostruire anche minutamente gli avvenimenti che hanno coinvolto le unità partigiane a cui apparteneva. Le Carte conservano relazioni di fatti d'arme, corrispondenza con i comandi ed una documentazione minuta sulle relazioni fra gli uomini, la disciplina, la giustizia partigiana, i rapporti con la popolazione e con gli alleati.........................


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