RUOLO DELLA FAMIGLIA E RESPONSABILITÀ DELLA COMUNITÀ
Il dialogo tra famiglie e servizi: un diritto dei bambini?

di Francesca Vassallo

 

Nell’attuale dibattito sui servizi per l’infanzia, un ruolo centrale acquista sempre più la famiglia, nonostante quest’ultima conosca oggi una forte crisi al suo interno.

Questa maggiore attenzione rivolta al nucleo familiare  e alla genitorialità nasce dalla considerazione che il processo di integrazione sociale, che il bambino e la bambina sperimentano nei primi anni di vita all’interno delle strutture socio-educative a loro destinate, è segnato in gran parte dai primi legami affettivi vissuti in famiglia.

La comunità, le istituzioni, la cultura dell’infanzia, nel progettare e promuovere interventi a favore dei bambini, sono chiamate ad assumere le proprie responsabilità, guardando al rapporto con la famiglia non come ad un aspetto marginale, ma come ad un impegno decisivo per la qualità stessa dei servizi.

Occorre interrogarsi sulla specificità delle funzioni e delle competenze che famiglia e comunità assolvono nel delicato passaggio dei bambini dalla dipendenza all’autonomia, dalla “casa” al gruppo sociale, ma soprattutto, dato  il tema del nostro incontro,  sui rapporti che di fatto si stabiliscono tra genitori e operatori all’interno dei servizi socio-educativi.

Se è vero che la famiglia ha il compito di tutelare il bambino e la bambina nei loro bisogni primari, rafforzandone l’identità e la stabilità affettiva, e la comunità quello di elaborare interventi in grado di sviluppare le potenzialità infantili e consolidare la dimensione sociale, è pur vero che  le funzioni esercitate dall’una e dell’altra non possono mai essere così nette e differenziate, perché innanzitutto esse non lo sono mai per i bambini nei primi anni di vita.
I bambini molto piccoli hanno uno sguardo globale sulla realtà e le loro esperienze non sono mai del tutto settoriali: così come quando vanno all’asilo si portano con sé “pezzetti” di casa che li rassicurano, allo stesso modo, le sensazioni e gli stimoli vissuti all’esterno si prolungano dentro le pareti domestiche e nei rapporti familiari.

Questo non può che spingere a guardare come fatto positivo uno scambio e un dialogo tra coloro che entrano in una relazione significativa con i bambini in età prescolare: quanto più si cerca di condividere competenze e responsabilità, tanto più efficacia acquista un’azione educativa.

RISORSE E LIMITI DELLE STRUTTURE PRIVATE

Le mie riflessioni prendono lo spunto  da una lunga esperienza con la prima infanzia, maturata soprattutto in ambito privato, all’interno di strutture nate con l’obiettivo di sollecitare l’espressione e la comunicazione dei bambini molto piccoli  attraverso il gioco e le storie,  con una particolare attenzione al rapporto con la famiglia.
Una maggiore libertà progettuale e operativa, di cui non sempre dispone chi lavora all’interno dei servizi istituzionali, mi ha dato l’opportunità, nel corso di questi anni,  di  offrire risposte e spazi più flessibili ai diversi bisogni legati all’età infantile e di valorizzare le figure genitoriali che,  in una struttura più rigida, rischiano di essere un po’ penalizzate.
Questo è da considerare un aspetto positivo dei servizi privati: quando essi nascono  da un’attenzione  reale  al bambino e alla bambina  e da competenze specifiche, hanno delle possibilità in più per attuare interventi svolti non solo con tempi e metodologie più elastiche e rispondenti alle diverse esigenze, ma anche con una maggiore apertura alla comunicazione con le famiglie.

Purtroppo però, nella nostra realtà territoriale, spesso l’ orientamento delle strutture private che si rivolgono ai bambini in età prescolare è di fatto connotato da  una sorta di “chiusura”. E’ sempre più diffusa, infatti, la tendenza a sganciare le iniziative private da una seria cultura dell’infanzia e dei servizi (indispensabile per salvaguardarne la qualità), per privilegiare unicamente interessi di tipo imprenditoriale.
Nell’ambito del privato ci troviamo di fronte ad un moltiplicarsi di “baby parking”, asili nido, scuole materne, centri ricreativi, sui quali non esiste, di fatto,  alcun tipo di controllo, né in ordine ai contenuti né circa la  professionalità degli operatori. D’altronde, da parte di queste strutture, manca l’interesse a confrontarsi con la comunità, ed è significativo che, nel migliore dei casi, l’unica attenzione venga rivolta ad aspetti quali la sicurezza, l’igiene, l’alimentazione, cioè unicamente alla crescita “fisica” dei bambini, senza alcuna considerazione per la loro “mente”.

Questa visione privatistica dei servizi, che è possibile riscontrare anche all’interno di certe strutture istituzionali, talora altrettanto chiuse in sé stesse, corrisponde ad una mentalità,  oggi molto diffusa anche  nelle famiglie, che tende  ad evitare qualsiasi confronto costruttivo con l’esterno, con una sorta di irrigidimento sui propri principi educativi Da ciò deriva uno stile familiare che non aiuta il bambino e la bambina a costruire autonomamente una propria identità e li porta ad imitare in maniera conformistica modelli prefissati da altri nonché a ripiegarsi narcisisticamente su di sé. Tale stile educativo è spesso unito ad un atteggiamento eccessivamente protettivo, che rende i bambini insicuri e incapaci di affrontare le  “prove” che la vita impone.

Famiglie e servizi, in  quest’ottica, diventano complici  di un orientamento culturale che non ha alcun interesse a fissare percorsi educativi in cui vengano valorizzate le potenzialità dei bambini, venga sviluppato il loro senso critico e siano promossi valori quali la condivisione o il rispetto delle minoranze.

La chiusura  e la separazione, che il bambino e la bambina dovessero sperimentare nei primi anni di vita nel rapporto tra famiglia e comunità, avranno molta più  presa sulla loro sensibilità di quanto non possano avere, negli anni successivi, tutti i “ discorsi” che insegnanti o genitori potranno fare sul valore della solidarietà, del dialogo o della “pace”.

RUOLO DELLA FAMIGLIA ALL’INTERNO DEI SERVIZI

Sulla base di queste considerazioni, credo che l’oggetto di questo gruppo di lavoro, cioè l’invito a ripensare al ruolo della famiglia all’interno dei servizi, parta da precise valutazioni e preoccupazioni rispetto alla crisi che essa attraversa e dalla necessità di definire le funzioni  della struttura familiare nei confronti delle altre agenzie educative, cui i bambini fanno riferimento
Ci troviamo oggi di fronte ad una molteplicità di forme familiari rispetto al passato: famiglie ricomposte, affidatarie, monoparentali, ecc..: ciò ha determinato una trasformazione ed una confusione di quelle dinamiche  e di quei ruoli che nel nucleo tradizionale erano più facilmente riconoscibili. Questo cambiamento, unito ad una generale caduta delle motivazioni e delle funzioni genitoriali, ha reso più problematico il compito educativo nelle famiglie, che sempre più tendono a delegarlo ad altre strutture, come gli asili nido o i centri ricreativi, nei quali vengono inseriti i figli nelle diverse fasi della crescita.

Questo, di fatto, determina una situazione in cui i servizi vengono investiti di compiti che vanno oltre a quelle funzioni che il servizio stesso istituzionalmente è chiamato ad assolvere nei confronti dei bambini.
In molti casi il grande compito della comunità e degli operatori è oggi quello di sapere riconoscere tale disagio delle famiglie e di leggere, dietro un apparente assenteismo o indifferenza di queste ultime, un forte bisogno di chiarezza, di sostegno e di collaborazione  con quanti hanno in carico  i figli.
La maggiore o minore attenzione rivolta a questo problema da parte delle strutture si rivela decisiva non solo per la qualità degli interventi, ma anche per un eventuale ripensamento dei compiti genitoriali.

In questa situazione, le strutture di servizio possono assumere, nei riguardi delle famiglie, diversi tipi di atteggiamento:

a) Il rapporto con le famiglie può essere inesistente: gli operatori del servizio guardano, in questo caso, agli utenti (i bambini) come soggetti avulsi da un contesto relazionale familiare; si punta unicamente all’aspetto tecnico, cioè a garantire determinate prestazioni, prescindendo dai legami affettivi dei bambini. Questo determina o una rigidità del servizio, contrassegnato in certi casi da una progettualità che non tiene minimamente conto della vita reale degli utenti, oppure, al contrario, uno svuotamento dei contenuti degli interventi attuati dal servizio, perché quest’ultimo viene deresponsabilizzato dall’assoluta mancanza di un confronto con la famiglia.

b) Il rapporto con le famiglie può essere poco influente: in questo caso alla famiglia viene riconosciuto nei confronti del bambino un ruolo significativo, ma operante in un ambito diverso e parallelo rispetto a quello sociale, cosicché il servizio concepisce il proprio intervento come aggiuntivo rispetto a quello della famiglia; un rapporto in cui ognuno fa la sua parte.
In questa prospettiva alla famiglia viene restituita una funzione e può esservi una relazione con il servizio, ma si esclude l’idea di un dialogo costruttivo tra i due contesti.

c) Un rapporto di interazione tra famiglia e servizio è quello che meglio può  garantire un percorso di crescita e di autonomia del bambino e della bambina. Secondo quest’ottica ogni intervento non si esaurisce in se stesso, ma è sempre parte di un più ampio sistema di relazioni. Come dicevo all’inizio, così come nella “vita sociale” i bambini portano se stessi con tutti i legami per loro più significativi, allo stesso modo, nel ritornare in famiglia essi determineranno in quell’ambiente delle trasformazioni, dovute al fatto che la loro crescente autonomia, per le esperienze vissute all’esterno, solleciterà i familiari a modificare i propri comportamenti.
Il servizio sarà allora spinto a progettare interventi non semplicemente sulla base di ciò che si ritiene utile per l’utente, ma anche sulla base dei messaggi che arrivano dalla famiglia. In questo senso la consapevolezza che un servizio offerto ad un individuo ha una ripercussione non indifferente sulla sua storia familiare dovrebbe essere per gli operatori un incentivo ad operare con maggiore senso di responsabilità e, contemporaneamente, ad avere uno sguardo più ampio, un atteggiamento meno burocratico e più aperto alle diverse esigenze legate alla sensibilità infantile.
Creare dei progetti su una base di maggiore flessibilità senza compromettere la professionalità non è sempre facile; è più semplice puntare sulle “cose da fare” e sulle tecniche da adoperare, piuttosto che curare le relazione umane, che impongono in molti casi di rimettere in gioco i propri schemi operativi.
Chi lavora quotidianamente con bambini piccoli sa quanto l’attenzione e la disponibilità  data alle famiglie si rifletta positivamente non solo sulla “salute del bambino, ma anche sull’andamento delle attività e sul clima complessivo.

IL PUNTO DI VISTA DEI BAMBINI

Mi sembra inoltre importante sottolineare il fatto che l’esigenza di un dialogo tra famiglie e servizi non nasca soltanto da simili considerazioni teoriche, ma anche da precisi messaggi che i bambini inviano, rivelando attese e disagi legati a questa sfera. Gli orientamenti pedagogici più incisivi nell’ambito dei servizi per l’infanzia sono quelli che prendono le mosse da un ascolto serio dei bisogni dei bambini, i quali, attraverso il gioco, manifestano  con molta evidenza i loro stati emotivi legati, per esempio, al passaggio dalla casa alla scuola.
Più il contesto in cui il bambino è inserito dà spazio al linguaggio ludico, più  emerge il mondo interno, che il bambino non è ancora in grado di esprimere verbalmente.
E’ il gioco simbolico a rivelare, spesso con molta chiarezza  il bisogno/desiderio di mettere in contatto la casa e la scuola, il “dentro “ e il “fuori”: agli occhi dei bambini non ci sono due mondi isolati e divisi (è questa semmai una paura da cui si sentono minacciati), ma un’unica esperienza dalla quale vorrebbero sentirsi contenuti e accompagnati , pur sapendo ben distinguere la specificità e la funzione di ciascun contesto relazionale in cui sono inseriti.
Uno scambio ed un’intesa tra casa e servizi sono estremamente rassicuranti per il bambino e per la bambina, e contribuiscono positivamente a costruire la loro identità nei primi anni di vita.

 E’ interessante poi osservare come nei giochi di finzione, la casa, la dimensione domestica, rappresenti la parte interna, “solitaria” del bambino  e della bambina, mentre il parco, le strade, la scuola esprimono la loro parte “sociale”, il contatto con il mondo.
Solitudine e socialità sono due risorse importanti in un percorso di crescita e di autonomia; esse vanno ugualmente curate e alimentate, non solo  attraverso  un aperto ed equilibrato rapporto tra famiglia e servizio (che, nell’esperienza infantile, esprimono rispettivamente queste  due dimensioni), ma anche creando spazi di apertura all’interno della famiglia e spazi di solitudine all’interno del servizio. Questo può significare, ad esempio, dare attenzione all’ospitalità e all’accoglienza in famiglia e attenzione all’individualità ed alla riservatezza del bambino nell’ambito dei servizi. Il rischio, infatti, che molti bambini oggi corrono, è quello che una sana esperienza di solitudine venga trasformata in isolamento e ripiegamento, oppure che la naturale inclinazione alla socializzazione degeneri in uno stato di confusione e di alienazione che  mette in crisi la loro identità.

DUE ESPERIENZE TERRITORIALI DI INTERAZIONE TRA FAMIGLIA E SERVIZIO

L’esigenza di trovare forme di incontro tra le figure genitoriali e gli operatori che, non si riducessero semplicemente a sporadici colloqui sui figli, ma che diventassero parte integrante di progetti per la prima infanzia,  ha trovato, nella mia esperienza professionale, una precisa concretizzazione almeno in due casi.
Come dicevo all’inizio, tante volte l’operare al di fuori dei servizi istituzionali presenta dei grossi vantaggi sul piano di una maggiore flessibilità, che rende più facile anche la sperimentazione di nuove linee di intervento, alla luce dei bisogni e delle opportunità che di volta in volta le situazioni presentano.

1) Il “Corso di Primavera”: una via verso la progressiva socializzazione dei bambini di 1/3 anni alla presenza delle loro famiglie.

Si tratta di un intervento svolto in ambito privato, che ha l’obiettivo di accompagnare il bambino e la bambina nei primi contatti con il gruppo e con la struttura, alla presenza  di operatori  esperti nel gioco e nella relazione, ed alla presenza della mamma, del papà o di altra figura familiare di riferimento.
Questo corso si articola in circa quindici incontri, tenuti nel periodo della primavera presso un “Centro del Gioco” per bambini in età prescolare, ed accoglie gruppi di 8/10 bambini alla loro prima esperienza “ sociale”.  Il gioco libero, con angoli di attività differenziati ma comunicanti, è lo strumento attraverso cui passano le  relazioni e attraverso cui i bambini sperimentano le loro potenzialità. Agli adulti presenti viene chiesto di condividere l’esperienza ludica con una partecipazione discreta e attenta; un particolare rilievo viene dato alla lettura dei libri a voce alta, rispettando i tempi di ascolto dei singoli bambini.
La famiglia, in questo caso, costituisce quel supporto affettivo necessario perché il bambino e la bambina accettino di trovarsi in un luogo estraneo da condividere con altri, ma ha anche la funzione di suggerire indirettamente agli operatori presenti alcuni accorgimenti, che rendono più facile accostare ogni singolo bambino con le sue caratteristiche personali.
Gli operatori, oltre a curare la qualità dell’intervento avvalendosi di  mezzi e spazi adeguati, implicitamente forniscono ai genitori degli strumenti con cui sia possibile comunicare con i propri figli  attraverso il linguaggio ludico e un interesse condiviso verso altre persone fuori dagli affetti familiari.
In questa esperienza è proprio la compresenza  di famiglia e operatori  che crea i presupposti perché il bambino e la bambina possano vivere con maggiore fiducia e serenità la dimensione sociale, distaccandosi gradualmente dalle sicurezze domestiche. L’interiorizzazione di un primo modello positivo di integrazione sociale potrà, in una certa misura, tutelare i bambini nelle successive esperienze fuori dalla cerchia familiare, creando le condizioni per trarre il massimo vantaggio dai servizi in cui verranno inseriti.
Credo che questo tipo di intervento potrebbe riproporsi, con modalità analoghe, anche all’interno delle strutture pubbliche, soprattutto nella fase di ingresso dei bambini.

2) Lo “Spazio-gioco” nel Quartiere Albergheria per bambini e bambine di 2/5 anni e per le loro mamme.

Il secondo intervento, che è in corso da più di dieci anni, si svolge in un  contesto territoriale molto diverso . Si tratta di un quartiere multiproblematico del centro storico di Palermo, con grosse sacche di povertà e di degrado socio-culturale, cui si aggiunge l’inadeguatezza dei servizi istituzionali rispetto ai bisogni del territorio. Il volontariato locale, nel settore minorile, si rivolge prevalentemente a bambini già scolarizzati, con interventi spesso saltuari e non sempre qualificati, nei quali le famiglie rimangono il più delle volte tagliate fuori. E’ certamente estremamente difficile svolgere all’interno di questo quartiere, come in altre zone della città, un’opera di risanamento sociale e di promozione umana che parta dai nuclei familiari, dove i problemi sono molteplici e spesso insolubili; ma è proprio questa estraneità delle famiglie rispetto ai progetti territoriali in cui sono coinvolti i bambini che determina il più delle volte l’inefficacia dell’azione socio-educativa.
C’è da aggiungere che la maggior parte degli interventi, ad eccezione dell’asilo nido che è superaffollato, è rivolta prevalentemente ai bambini della scuola elementare, con attività di supporto scolastico o di animazione estemporanea e discontinua.
Alla luce di queste due considerazioni (cioè la necessità di trovare degli spazi di accoglienza per la famiglia, e la mancanza di centri di aggregazione e di gioco per i bambini più piccoli , quasi sempre costretti a stare in abitazioni fatiscenti o nella strada), è nato il progetto di volontariato “Spazio-gioco”, di cui sono responsabile, che viene gestito grazie alla collaborazione di un gruppo di operatori anch’essi volontari , ed è rivolto a piccoli gruppi di bambini sotto i 5 anni ed alle loro mamme.

Vorrei mettere in evidenza due aspetti di questa iniziativa:

1) Essa nasce a fianco di un servizio socio-sanitario che opera sul territorio da più tempo e che costituisce  un punto di riferimento per molte famiglie del quartiere. La collaborazione con questa istituzione sanitaria, che si occupa della salute in senso lato, con una particolare attenzione alle mamme in difficoltà, ha creato le condizioni per rafforzare il valore e la funzione preventiva del gioco e della comunicazione, presentati alle mamme come occasione per una crescita sana dei bambini, ed ha permesso di entrare più facilmente in un rapporto di fiducia con alcune famiglie del quartiere.
2) Nell’accogliere insieme bambini e bambine con le loro mamme (è più rara la presenza dei papà), in un contesto di gioco e di “leggerezza”, si innescano delle dinamiche importanti all’interno dei piccoli nuclei familiari presenti, che nel tempo, lasciano dei segni . Da un lato  viene data indirettamente alle giovani mamme  o ai papà, ai quali è stata negata quasi sempre un’infanzia, l’opportunità di recuperare per se stessi una dimensione di accoglienza e di ascolto che essi normalmente non conoscono; d’altra parte viene data ai genitori l’opportunità di guardare con maggiore interesse e simpatia i propri figli, scoprendo in essi capacità che, nello squallore di un esistenza fatta di stenti e di violenza, non è possibile vedere. Questo non può che accrescere nei bambini qualcosa di cui essi, in questi contesti, sono normalmente privi, cioè l’autostima e la fiducia nelle proprie risorse, che sono presupposti fondamentali affinché l’inserimento nella scuola sia meno problematico.

Sulla base delle premesse generali e di queste due esperienze personali, credo che uno dei servizi più importanti che possiamo fare nei confronti dell’infanzia, qualunque sia il contesto culturale e ambientale ci troviamo ad operare, è quello di cercare, di sostenere e valorizzare le funzioni genitoriali, che accompagnano il bambino e la bambina nella fase più fragile della loro esistenza, rispettando e non demolendo quel naturale  ed insostituibile legame che ogni bambino instaura con le prime figure affettive con cui entra in contatto.
Afferma Winnicott: “C’è qualcosa nella madre che la rende particolarmente adatta alla protezione del  figlio in uno stato di vulnerabilità, e che la fa capace di rispondere positivamente  ai concreti bisogni di questo. La madre può adempiere a questa funzione se si sente sicura; se si sente amata nei suoi rapporti con il padre del bimbo, e con la propria famiglia; e inoltre se si sente accettata in quel più vasto ambiente che circonda la famiglia e che è la società”.

Questo pensiero dovrebbe far riflettere molto sulle accuse che vengono mosse oggi, spesso con leggerezza, a tante madri, ritenute del tutto inadeguate ad adempiere la loro funzione genitoriale, soprattutto in quelle realtà territoriali maggiormente degradate. E’ un invito ad interrogarsi sulle responsabilità che la comunità, le istituzioni, ognuno di noi può avere in un’opera di risanamento sociale; tali interventi, piuttosto che tendere all’allontanamento, spesso definitivo, dei bambini dalle loro famiglie e dal loro ambiente, dovrebbero mirare, attraverso un’opera di recupero e di sostegno domiciliare, ad un rafforzamento del nucleo familiare.
Questa strada è certamente più complessa e più delicata da percorrere, ma, tranne che in casi eccezionali, deve essere privilegiata, poiché è l’unica che permetta di salvare l’identità della famiglia e del bambino, nel loro naturale diritto ad una reciproca appartenenza.