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PAGINE CRITICHE
 

 
«La pelle di San Bartolomeo» 
 
di Cesare Segre
 
Recensione 
 
 di  Gian Luigi Verzellesi
 

 
Tra scrittura e pittura .......
 
Si può cercare di tradurre un dipinto in parole (come fanno i critici e gli artisti quando parlano delle loro opere) e si può trasporre un'opera letteraria in figure traducendo le parole, di cui è fatta, in immagini spaziali (come hanno fatto gli autori di storie affrescate su chiese o palazzi). Ma che rapporti esistono tra «discorso letterario e figurativo»? A questa domanda cruciale cerca di rispondere, con invidiabile chiarezza sapiente, Cesare Segre, nel suo ultimo libro, edito ora da Einaudi e intitolato «La pelle di San Bartolomeo».
L'apostolo che fu scorticato e crocefisso in Armenia, dove aveva predicato il Vangelo, è richiamato in rapporto alle rappresentazioni figurative in cui si rende riconoscibile grazie a certi particolari (il coltello, la pelle) che consentono di individuare Bartolomeo nel repertorio dei martiri cristiani.
Ma quando si è riusciti a stabilire l'identità del martire raffigurato, il discorso interpretativo dovrebbe continuare al di là della «caccia al significato» (come diceva Gombrich) di cui si contentano gli interpreti meno dotati? Segre, nel quarto capitolo di questo suo libretto utilissimo (di 130 pagine), prende posizione contro la tendenza a separare la ricerca del significato da quella rivolta a cogliere i valori formali .
E si concentra sul contenuto semantico del testo artistico senza trascurare mai « l'aspetto sensibile della rappresentazione, di cui le arti visive non possono fare a meno» se non vogliono ridursi (come oggi spesso si riducono) a rozzi o confusi veicoli di informazione, privi di quella specifica qualità che costituisce il pregio primario d'ogni arte vera.
Per questa felicissima tenacia nel rilevare «le peculiarità dei testi visivi» (ai quali il termine linguaggio s'attaglia solo in senso metaforico), Segre, filologo letterario attrezzatissimo, si dimostra assai vicino a due maestri della critica d'arte come Longhi e Brandi, ai quali (nel terzo capitolo) dedica un'attenzione lucida e accostante, rivolta a rilevare, «da un lato l'impegno verso la massima oggettività, dall'altro lo sforzo di aderire il più possibile a quello che è il prodotto artistico con la sua natura composita, persino materica». In particolare, Segre tende a considerare l'approccio interpretativo di Brandi non d'ordine linguistico ma semiotico.
In realtà, lo studioso senese, nel corso del suo lungo e appassionato itinerario critico, ha individuato i limiti sia dell'iconologia che della semiologia: come attestano certe pagine magistrali di «Le due vie» (Laterza, 1966) e della «Teoria generale della critica» (Einaudi, 1974). La sua polemica era tesa a dimostrare come, negli interventi degli iconologi e dei semiologi, l'interesse per il significato di un'opera finisse con l'escludere o sottovalutare il valore formale o stilistico, come se non fosse costitutivo della sua qualità primaria. Ma per Segre il «significato di un quadro è indipendente dal suo valore» artistico: quest'ultimo è inscindibile dalla sua peculiare consistenza stilistica. Dunque, tra i due studiosi sussiste una sostanziale concordia di vedute, che spicca finalmente nei saggi ora pubblicati, nei quali si riconosce a chiare lettere che «la trattazione pittorica» (la concreta capacità di realizzazione) «agli effetti estetici» non è secondaria: è la via della comunicazione non verbale, che costituisce la verità dell'arte visiva, calata nella presenza fisica delle opere e irriducibile a letteratura.

«Da fervente ma rispettoso catecumeno- scrive Segre nell'introduzione- sono sempre rimasto nel nartece» (ossia nello spazio riservato appunto ai non iniziati), «lasciando ai sacerdoti i loro riti». Ma questa sorridente professione di modestia non impedirà al lettore intelligente di riconoscere che, nella fase di crisi profonda in cui versa la critica d'arte attuale, i superstiti sacerdoti, addetti ai riti, coltivano quasi sempre una storia dell'arte che, diceva Longhi, «non è più tale», sconvolta com'è dall'invasione pubblicitaria continuante. Invece Segre, intelligentissimo catecumeno eccezionale, contribuisce con questo breve libro luminoso a sollecitare (soprattutto nei giovani, sperduti nelle accademie d'arte e nelle università senza maestri) quel «Ritorno alla critica» che (proprio con queste tre parole come titolo) è auspicato, promosso, caldeggiato in un altro libro, edito da Einaudi, paragonabile a una sorta di prezioso manualetto tascabile per orientarsi, nella selva letteraria e artistica, senza lasciarsi ingannare dalla segnaletica deviante di cui si valgono i sempre più numerosi addetti a dirigere i cori della propaganda pubblicitaria in chiave modernistica. «L'importante- precisa Segre nel "Ritorno alla critica"- è non abbandonarsi passivamente alle trasformazioni» (frenetiche e rombanti che si susseguono nell'ambito letterario e artistico) «e mantenere lo spirito critico che prima o poi ci permetterà di fare il punto sulla situazione».

Nei saggi raccolti sotto il titolo «La pelle di San Bartolomeo»l'intento di Segre è rivolto a riconsiderare le «connessioni tra filosofia, letteratura e arti figurative» per giovare alla ripresa dei buoni studi uscendo dalle secche in cui s'intrattengono innumerevoli addetti ai lavori. Ne è risultato un eccellente viatico per chi voglia intraprendere un riesame veritiero della preoccupante «fase di decadenza» in cui si sono svolti i lavori della critica letteraria e artistica non solo in questi ultimi decenni.
All'occhio penetrante del «rispettoso catecumeno» non sono sfuggiti, al di là dei pregi sommi, i limiti e le omissioni di maestri come Longhi e Brandi. Ma, sotto la sua lente nitidissima, spiccano le forzature dell'interpretazione della Tempesta giorgionesca offerta da un iconologo «mirabilmente erudito» come S. Settis. E spunterebbero chissà quante altre deformazioni, o spiegazioni forzose, se quella lente si rivolgesse a riconsiderare i testi critici di Bonito Oliva, della Vettese, di Calabrese, di Carboni o altri frettolosi sostenitori delle «ultime tendenze», sulle quali Brandi, Chastel, Gombrich, E. Migliorini, e specialmente R. Klein hanno espresso fortissimi dubbi. Il "catecumeno" Segre insiste, ragionatamente, nel dire che l'arte astratta «non informa» eppure «comunica». Ma- ci si chiede sottovoce - senza un minimo di informazione, può esserci comunicazione intersoggettiva?
 
Verona, agosto 2003

dal Giornale L'Arena

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