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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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“...incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo...”
di
carlo adelio galimberti  
                                                                              
 
                                      
SENSO E ANIMA SENZA RAGIONE
       
"L’anima non sta alla corte della ragione: l’anima è immaginifica, non coreografica."
CARLO ADELIO GALIMBERTI
 
 


Il discorso non è consueto al pittore.
Ciò non di meno esiste un argomento che può spingere il pittore a parlare: provare ad usare le parole in maniera solamente illustrativa,
perché diano cioè lume e qualità alla sua privilegiata condizione.

Provare a smascherare quell’inibente funzione delle parole quando, spesso, circondano l’opera d’arte con pretese di definizione.
E questo vale soprattutto quando le parole attorno all’arte si organizzano in sistemi d’indagine “scientifica”, di immodesto e arrogante tentativo, come si dice, di “capirla”, di scovarne le probabili motivazioni che la generano e i possibili criteri ordinativi.
E il setaccio cui viene sottoposta dai più diversi sistemi d’osservazione (sociologici, psicologici, politici, religiosi, ecc.) spesso non lascia dell’arte che il risultato che appunto lascia un setaccio: polvere.

D’altro canto se il tentativo è quello di “capire”, significa instaurare quel rapporto imprigionante (capire da captivus) che rischia d’inibire l’espressione dell’opera. E questo non per superbia dell’arte, ma per la condizione  del suo prodursi che è spiazzata rispetto ai comuni e consolidati canali e procedure della conoscenza.
Nel processo d’approccio all’esistente, la cultura occidentale pensa l’individuo come soggetto che rivolge all’esterno la proprie facoltà conoscitive, frutto delle sue condizioni culturali, psicologiche, affettive, ecc. L’individuo si comporta a propria ragione nei confronti dell’esistente.

Lo attraversa. Lo possiede. Lo usa. Il metro del proprio giudizio è imperante nel condurre l’indagine. Se mai passione lo pervade, nel soddisfare almeno il piacere della curiosità, ecco che subito il pensiero rigoroso l’avverte che per la strada della passione c’è da perdersi. Ed allora pone paletti, confini, punti di riferimento che consolidino l’analisi condotta almeno fino a quel punto; già realizza un sistema: se ne fa una ragione.

E la realtà, che è potente ma timidissima, gli si sottrae. Certo il pensiero rigoroso può possederla. Appunto. Possesso difficilmente coincide con libertà. Chi è posseduto non esiste a suo modo, ma a modo del suo padrone: ed il padrone ne perderà così le sue espressioni. Se quindi la misura della realtà è quest’individuo, può venirgliene un’immagine, solo appunto, a misura sua e quindi a quella misura fortemente ordinativa delle sue componenti dominanti: di moda, d’educazione, d’affetto, di gusto, delle patologie le più diverse. E qui la psicologia può svolgere compiti primari.
È così anche nell’operare d’arte? No. Qui avviene qualcosa fuori dall’ordinario.
 
L’artista non ha misura perché non ha metro: ha orecchio.
L’artista non ha cieche ragioni da far valere: ha occhi.
L’artista non chiama per nome, non definisce: canta.
L’artista si accosta, ascolta, circonda, corteggia, si mescola, affonda, danza con l’esistente in una spirale che la passione alimenta.

Subisce il risultato dell’opera. Non lo governa.
Tutta la sua persona è partner, non protagonista sulla scena dove si realizza l’opera. Tutte le sue componenti affettive, psicologiche, d’erudizione, fisiche, mnemoniche sono comprimarie assieme alla materia manipolata, desiderata e amata. Nessuna componente è imperante: ciascuno fa una sua equivalente porzione di lavoro immerso nella condizione apertissima dei sensi, finalmente liberati dai significati.
 
Non esistono componenti dominanti: l’artista è un ingenuo adolescente curioso, in continua modificazione e sorpresa. Non sarà mai un adulto. Vagabondo, non stabile. Senza ragione. Non pazzo: folle.

Certo, il motivo scatenante questa felicissima condizione può essere qualsiasi cosa, anche una patologia psicologica.
Ma non è la patologia la condizione necessaria ed esclusiva. È, a questo proposito, molto convincente quell’immagine di Karl Jaspers che ci ricorda come ogni perla sia il frutto di una malattia delle conchiglie, ma non per questo ogni malattia produce perle. E, in ogni caso, è la perla che si ammira, non la malattia.1 Ed inoltre, nel caso della “perla-opera d’arte”, si realizza quella condizione unica dell’operare umano per cui il prodotto prescinde dalla volontà, dalle possibili ragioni, dalle malattie dell’artista e dalle condizioni della materia in quanto nessuna di queste componenti è dominante. tutte sono governate dall’opera. Per il nostro comune sapere questo è paradossale: ma è vero.
L’opera d’arte chiede ad ogni componente dell’artista e della materia di adattarsi a quella speciale condizione che si sviluppa tra la rivelazione dei sensi della materia e la loro interazione coi sensi dell’artista. È quella condizione unica che scatta quando ci si rivolge alle cose e agli uomini non chiedendo loro cosa servano, ma bensì cosa siano.
E questo non è uso: è rispetto. E questo non è curiosità: è desiderio. E questo non è possesso: è amore. La realtà che si sente amata, dice. L’artista innamorato ascolta e agisce.
Gli stimoli si scambiano. Nessuno prevarica. L’opera condurrà ciascuno dei due al proprio irripetibile risultato.
Non c’è ragione, non c’è sistema culturale, non c’è approccio scientifico. C’è qualità che modella lo scambio amoroso tra artista e materia senza che nessun particolare aspetto dei due prevarichi. Neppure quelli psicologici. Altrimenti avremmo dimostrazioni e non spettacoli. Altrimenti avremmo spiegazioni e non ondulata e intrigante seduzione narrativa. In altre parole, avremmo un discorso sui sensi e sull’anima e non, dell’anima, la narrazione sensibile.

L’anima non sta alla corte della ragione: l’anima è immaginifica, non coreografica.
 
Spesso esce e danza coi sensi. L’immagine incarna la condizione dell’operare d’arte che agisce con la rappresentazione, a cui va restituito tutto il suo pieno significato etimologico di “far riapparire di fronte”, vale a dire di una vera e propria rievocazione liberante ogni materia dal bavaglio delle definizioni in cui vengono costrette e oggettivate. Una rappresentazione che si instaura non come azione di un soggetto (l’artista) su un oggetto (la materia, i fenomeni, i corpi, gli enti, il mondo, ecc.), perché questo significherebbe costringere il rapporto nella sfera del possesso dell’uno sull’altro e non dell’amore tra loro: l’amore che restituisce ai corpi la pienezza di soggetti e li rende espressivi.

Il corpo è muto quando è posseduto. Canta, dice ed esprime quando è amato.

Nella rappresentazione (= rievocazione della soggettività dimenticata dei corpi) l’artista opera non come colui che forma oggetti, perché in questo caso costituirebbe appunto oggetti, ossia corpi muti, ma bensì come colui che,  restituendo soggettività ai corpi, umani o delle cose, ne ascolta le mille storie lì custodite e che ora finalmente dicono: e le svela. Questo compito è svolto dall’artista-pittore con fisica coerenza al fenomeno. Infatti dinanzi alla materia (umana o delle cose), l’artista non le rivolge la parola, ma gesti. Agisce con essa, segnando, circondandola gestualmente, assecondandola con l’avvicinarsi e l’allontanarsi dalla sua progressiva rivelazione, inseguendola con lo sguardo. Sono atteggiamenti da innamorato che approfitta delle energie liberatorie del rapporto d’amore per far dire, cantare, esprimere il corpo, riunito e amato nella sua interezza. Riunito: rimesso assieme con la completezza e inesauribile possibilità espressiva; è questo lo splendido simbolico di cui l’arte ci fa munifico dono.
La miglior testimonianza di come l’opera d’arte sia la dischiusura di una corporeità polidicente, originaria, che riunisce quello che nel pensiero occidentale si è diviso, sta nella nota difficoltà della definizione di cosa sia l’arte. Attorno a quest’argomento si sono succedute diverse definizioni che hanno prodotto e rimandato a definizioni successive, quando non la si è addirittura condannata tra le attività umane meno degne d’attenzione o, al più, trattata con l’indulgenza che si concede al gioco. E questa è appunto la miglior testimonianza di come sia inafferrabile, e quindi indefinibile, l’arte. L’arte che apre la polivalenza dei corpi e rimanda ad una loro condizione originaria, abbandonata dal nostro sistema di pensiero fondato sul principio di non contraddizione che prevede la “uni-“vocabilità” funzionale di questi; l’opera d’arte che entra nel conflitto terra/mondo, lo svela e lo schiude usando la terra per mostrare un mondo (Heidegger), che nel suo mostrarsi non nasconde la terra da cui si è aperto, ma ne rimane testimone e indicatore.3
Ed infatti tra coloro che si sono posti in questa impervia impresa,4 i più hanno concluso dichiarando dell’operare d’arte: “… onde la tendenza a considerarlo determinato da fattori imponderabili o sfuggenti ai normali modi di controllo del comportamento ed agenti nel procedimento operativo nel senso di deviarlo da modi tecnici già stabiliti o normali.”.5 Quando a Paolo Veronese fu chiesta ragione dei personaggi, ritenuti sconvenienti, inseriti nella cena di Cristo, rispose ai giudici: “Nui pittori si pigliamo la licentia che si pigliano i poeti et i matti…”.6
L’opera d’arte si pone quindi come attrice della rappresentazione dei corpi. L’artista è colui che la pone in atto rispettandone le condizioni che sono quelle della relazione tra soggetti: lui e i corpi degli uomini e delle cose. Si pone al loro ascolto, per sentirne il dire, tanto quanto ne possa recepire e quindi svelare. Non chiude il soggetto nella gabbia dei giudizi (bello-brutto, vero-falso, ecc.) ma ascolta la libertà espressiva con attenzione quasi religiosa. È in questa condizione che i soggetti (si dice appunto il “soggetto” di un quadro) si liberano dalla funzionalità costringente. il loro corpo racconta le mille storie che finora ha custodito. Il corpo dei pigmenti, ogni materia apre narrazioni immaginabili, oltre la loro apparente fisicità, funzionalità, plasmabilità. L’artista li sollecita ed interroga avido ma rispettoso e innamorato. E loro dicono. Se il soggetto è il corpo umano si può giungere all’esaltazione. Credo infatti che altro non fosse la martellata di Michelangelo sul ginocchio del Mosè. Non per lo stupore di una banale perfezione di somiglianza (Mosè non c’era) ma, permettetemi questa personalissima impressione, per l’eccitazione e la rabbia di dover fermare a quel punto (la statua compiuta) tutta la narrazione ascoltata. Il grido fu infatti: “Perché non parli?”.
E proprio Michelangelo è tra le più alte testimonianze di come l’opera d’arte si ribelli alle “mortali” separazioni di corpo-anima, carne-spirito, ecc. Michelangelo che afferma che il corpo che si accinge a scolpire è contenuto nel blocco di marmo, e che si tratta solo di levare la materia superflua, sembra realizzare il paradigma platonico di distruzione della materia per giungere all’idea. E per questa sua affermazione gioiscono i separatori di corpi e di anime. Ebbene Michelangelo consegna alla Storia i “non finiti”, gli “infinibili”, in cui il corpo gronda della materia che ancora lo circonda.
Il materiale quindi non è amorfo. Il corpo delle cose e degli uomini è soggetto e contiene in sé, nella sua fisicità,  il suo dire. L’opera d’arte è talmente liberatrice di senso che il suo ascolto spesso traccia la via del racconto: molti artisti infatti dichiarano di operare seguendo il “farsi” dell’opera. Il corpo delle cose e degli uomini quali attori quindi dell’opera di gioiosa liberazione di senso dell’arte. Anche il corpo dell’artista? E qui si potrebbe dire dell’emozione dello “scoprire” che abbraccia l’artista, dell’eccitazione della rivelazione della materia, dell’esaltazione del formarsi della multisemia narrativa per le sue mani, della gioia dell’abbandono all’interazione coi corpi delle materie e col corpo dell’immagine, di tutte le sue facoltà, coinvolgente anche la psiche.
Ma anche qui, la psiche dell’artista, non è che un attore della scena, non è che una voce del coro che produrrà il suono polifonico. È a questo ruolo di compresenza, di riunione che anche la psiche dell’artista viene ricondotta per formare l’unicità ritrovata e rivelatrice dell’opera. Non è comprimaria né secondaria. È lì, con la sua storia, come con quella della materia da ascoltare, come quella del corpo di fronte all’opera da compiersi, e con gli altri mille racconti che l’interazione produrrà e quelli che dagli scontri-incontri nasceranno.
Caravaggio probabilmente era uno psicopatico; il Pontormo un ipocondriaco; Borromini un esaltato; di Michelangelo il Vasari ci racconta di come fosse stanco ed eccitato nell’esecuzione del Giudizio Universale; il Beato Angelico forse un maniaco religioso (ancora il Vasari ci dice di come puntualmente piangesse nel dipingere il Crocifisso e come non dipingesse che scene sacre); le manie religiose sembra attanagliassero anche Botticelli, eccitato dalle impressionanti prediche del Savonarola; Van Gogh appare come esempio di perdita di contatto con la realtà e di dissociazione.
Eppure in nessuna delle loro opere d’arte c’è la presenza dominante ed esplicita della loro condizione psichica. Dell’esaltazione del Botticelli non c’è traccia nella levità delle sue forme, nel Beato Angelico c’è un’azzurra serenità dilagante, nel Giudizio Universale la calma olimpica del Cristo apollineo regge senza sforzo la gran macchina della rappresentazione, l’esplosione coloristica del Pontormo è salutare vitalismo, Van Gogh dissolve  nello stile la propria condizione.

Ancora una volta quindi l’operare d’arte è quello del disporsi a dar cittadinanza al senso e all’anima che il meritorio ingombro dei corpi produce, compreso il proprio.
Quello dell’artista.
Perdutamente innamorato.
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Per la sezione didattica dell'Ist. Naz. per lo studio e la cura dei tumori di Milano
Atti del convegno "Il senso dell'umano nell'attuale società occidentale", Milano 1995

http://www.carloadeliogalimberti.it/testi/senso.htm
http://www.carloadeliogalimberti.it/index.htm
 
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