DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE
del
MINISTRO LETIZIA MORATTI
(7a Commissione Camera e Senato 18 e 19 luglio 2001)

 

L’istruzione è oggi al centro dei processi di crescita e modernizzazione delle società civili evolute. Per questo riteniamo che un grande progetto per l’istruzione – progetto che la dichiarazione programmatica del Presidente del Consiglio ha posto al centro delle politiche di Governo – debba ispirare profondamente il più ampio disegno di sviluppo e di innovazione della società italiana.

Siamo alla fine di un ciclo dell’istruzione molto confuso e all’inizio di una fase che pone in primo piano la necessità di accrescere e valorizzare il capitale umano del Paese, il suo patrimonio culturale e scientifico, le competenze intellettuali e tecniche di cui il Paese dispone. Obiettivo, che sarà, tuttavia, possibile perseguire soltanto se sapremo ridare all’istruzione un grado di qualità e di innovazione che ci porti agli standards europei dai quali ci siamo pericolosamente allontanati.

Il nostro impegno ha al centro i bisogni, gli interessi, le aspirazioni degli studenti, delle loro famiglie, degli insegnanti.

Sono loro, i veri protagonisti della scuola, che ispirano la nostra azione legata a due principi fondamentali: solidarietà ed eccellenza. Affrontiamo la complessità di questa situazione, con la consapevolezza di disporre ormai di margini di tempo sempre più ristretti per scongiurare il progressivo decadimento del nostro sistema educativo e formativo.

Il primo segnale di questo decadimento è dato dalla distanza crescente tra gli sforzi che vengono compiuti e i risultati che si è in grado di ottenere. Sforzi rappresentati da ingenti volumi di spesa, in larghissima parte destinati a coprire i costi correnti, da bassi investimenti nella professionalizzazione dei docenti, nell’innovazione didattica e nell’approntamento di percorsi formativi di elevata qualità.

Come vi è noto, i dati di una recente indagine dell’OCSE condotta nell’area dei paesi industriali denunciano, nonostante il basso numero di alunni per docente (un insegnante ogni dieci alunni contro la media OCSE di 1 su 15), il fatto che il 65,5% della popolazione adulta non supera il secondo livello alfabetico. L’Italia risulta ventunesima nella preparazione scientifica dei suoi studenti e ventitreesima in quella matematica.

Il costo per studente della scuola italiana è più alto del 15% rispetto alla media europea. Eppure, soltanto il 40% della popolazione adulta ha un diploma di scuola secondaria, contro il 61% della Francia e l’84% della Germania. I tassi di dispersione universitaria restano da noi i più alti d’Europa: Negli ultimi 40 anni su quasi 10 milioni di giovani che si sono rivolti all’università, i laureati sono stati poco meno di 3 milioni.

Dati che dimostrano come dispersioni e inefficienze allontanino sempre più il mondo dell’istruzione da quello del lavoro. L’Italia è oggi l’unico fra i grandi Paesi industriali nel quale la maggioranza dei lavoratori è rappresentata da persone che hanno completato unicamente la scuola dell’obbligo. Oggi, a fronte di facoltà universitarie che producono tassi di disoccupazione crescente, l’Italia vede aumentare progressivamente la carenza di profili professionali legati alle tecnologie informatiche e della comunicazione, settore che negli Stati Uniti produce ormai un quarto della ricchezza nazionale. Questo è soltanto un esempio della grave mancanza di raccordo tra scuola secondaria, università e mondo del lavoro. Forti elementi di disparità sussistono infatti tra l’Italia e gli altri Paesi industriali nella formazione professionale: soltanto 5 giovani su 100 scelgono i percorsi formativi dopo il diploma nonostante la forte domanda di elevate qualificazioni che proviene dal mercato di lavoro

La formazione professionale segue poi standards qualitativi che variano ampiamente a seconda delle zone del Paese.

Il divario tra l’Italia e gli altri paesi dell’Unione Europea nel campo dell’educazione e della formazione professionale produce inoltre evidenti ricadute negative sulla capacità di sviluppo economico e di innovazione tecnologica e scientifica. La recente indagine condotta dalla Commissione Europea su mandato del Consiglio Europeo per un confronto di performances tra i paesi dell’Unione ha segnalato che su mille lavoratori italiani risultano solo 3,33 i ricercatori, rispetto ai 5,28 della media europea, agli 8,08 degli Stati Uniti, ai 9,26 del Giappone. Nei dottorati tecnologici l’Italia è all’ultimo posto in Europa. E, infine, si conferma la grande difficoltà dell’Italia a tenere il passo sia nei progetti di innovazione pubblici sia in quelli finanziati anche dall’industria privata.

La gravità di questa situazione, che parte dai livelli primari di istruzione per estendersi sino alle frontiere più avanzate della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnica, è nota da tempo. Ma le sue implicazioni per il destino del Paese stanno facendosi via via più pesanti. In tutto il mondo, infatti, aumentano i livelli generali d’istruzione e si assiste al progressivo inserimento di nuovi soggetti (le donne, i più giovani) nel mondo del lavoro con la conseguenza di un rafforzamento diffuso della capacità di produrre reddito e di partecipare alla crescita del benessere. Al contempo, si rafforzano i valori meritocratici tipici di un modello di società competitiva che tende a polarizzare lo scenario socioeconomico tra i "poli di eccellenza" e vaste aree di esclusione e di marginalizzazione. L’Italia, proprio in virtù del suo più debole sistema educativo, formativo e di ricerca, è appunto a rischio di marginalizzazione.

Siamo lontanissimi dall’avere i mezzi, i programmi, le strutture per formare i giovani in modo tale da consentire loro di affermarsi, realizzarsi in qualunque paese del mondo e contribuire al progresso generale. La nuova sfida alla quale siamo di fronte è quella della conoscenza e dei talenti. E’ quella che comincia, appunto, dalla qualità dell’istruzione, a partire dai livelli medi di scolarizzazione del Paese e dall’eccellenza delle strutture scolastiche e universitarie che determinano la capacità di attrarre investimenti, di fare nascere nuove imprese, di favorire progetti di ricerca.

Il nostro progetto sarà ispirato dalla convinzione che l’istruzione italiana necessita di interventi rapidi e precisi. Le politiche dell’educazione diventano così strategiche nella creazione di una nuova formazione al lavoro. Per realizzare questi obiettivi abbiamo ottenuto nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria, politiche di investimento che favoriscano un aumento della scolarizzazione, che migliorino la qualificazione professionale di giovani ed adulti, che valorizzino le risorse umane impegnate, che sostengano la ricerca. Le risorse disponibili verranno indirizzate all’utilizzo di tecnologie multimediali ed alla valorizzazione e formazione iniziale e continua di tutto il personale della scuola. Vogliamo innescare un circolo virtuoso che consenta ai giovani di "sapere, saper fare, saper essere". Vogliamo che i giovani si formino come persone e come cittadini per realizzare il loro progetto di vita.

Oggi è più difficile ricomporre un campo d’opinione concorde su alcuni principi fondamentali, e diventa prioritario dare ai ragazzi, alle famiglie, ai docenti motivazione, sicurezze, serenità.

Ecco la ragione per cui noi sentiamo, in modo molto forte, la responsabilità di rappresentare le opinioni, le aspettative, i bisogni, anche diversi, della società nel suo complesso e, conseguentemente, l’impegno di costruire una scuola in cui tutti possano riconoscersi.

Ecco le ragioni per cui, fin dai primi giorni del mio mandato ho incontrato il mondo della scuola, in tutte le sue componenti, studenti, genitori, associazioni professionali, gestori delle scuole non statali, organizzazioni sindacali, articolazioni dell’Amministrazione centrale e periferica.

Ho ascoltato tutti, raccogliendo preoccupazioni per una scuola mortificata nella sua missione fondamentale ma anche aspettative e indicazioni volte a superare le criticità del sistema.

La stessa sospensione dell'avvio della riforma dei cicli non è stata da noi voluta per bloccare il processo riformatore. Al contrario, proprio da questo primo atto abbiamo voluto dimostrare che le riforme si devono fare coinvolgendo gli attori principali del processo e, quindi, famiglie, insegnanti e studenti.

La crisi che la nostra istruzione attraversa è legata innanzitutto alla non sufficiente qualità complessiva del sistema, ed inoltre alla mancanza di libertà di scelta da parte delle famiglie.

Nell’istruzione, come in molti altri campi, lo Stato non può essere l’unico promotore del valore del capitale umano né essere custode esclusivo dei patrimoni di competenze tecnico scientifiche.

Nell’istruzione lo Stato dovrà continuare a garantire unitariamente i principi di eguaglianza e di equità sociale, rafforzando il proprio ruolo di controllo ed indirizzo.

Il nostro progetto riparte da qui: dalla volontà di sconfiggere il pessimismo che aleggia ogni qual volta si tenti di parlare di come conciliare principi di libertà e principi di solidarietà e giustizia.

Vivian Reding, responsabile del settore istruzione e cultura della Commissione Europea, ha recentemente riaffermato che è necessario adattare i sistemi educativi non solo alle esigenze delle economie ma anche soprattutto a quelle dello sviluppo, che per noi significa sviluppo della persona nel contesto sociale.

Noi immaginiamo un sistema moderno, competitivo ed innovativo di educazione che sia soprattutto un sistema democratico, aperto, trasparente.

Noi immaginiamo un sistema di istruzione a livello europeo nei criteri educativi, ma fondato sulle tradizioni e le nostre radici culturali, professionalizzato nelle sue risorse umane, integrato con il mondo produttivo, accessibile a tutti, presente nelle aree deboli del Paese, capace di non abbandonare così tanti studenti che ogni anno preferiscono la strada al loro percorso di istruzione e di formazione. Pari opportunità di istruzione e accesso alla cultura; riteniamo che questo principio di democrazia e di giustizia sociale dell’istruzione sia un principio fondamentale del diritto di cittadinanza.

La nostra azione sarà determinata da una visione dei processi educativi e formativi che tenderà a coniugare le antiche contrapposizioni tra equità e competizione, tra valori di giustizia sociale e valori di merito, tra partecipazione e responsabilità; principi che non devono essere contrapposti ma vanno ricondotti a una visione unitaria e coerente: la solidarietà e l’eccellenza.

Diritto allo studio e diritto all’eccellenza, dunque, che significa assicurare pari opportunità di accesso all’istruzione ma anche pari opportunità per arrivare al successo. Dobbiamo immaginare un progetto che punti ad integrare le molteplicità dei poteri, delle funzioni e dei soggetti che operano nel mondo dell’istruzione e della formazione.

La pari condizione tra le famiglie – un principio che in tutti gli altri paesi tutela da tempo il diritto a scegliere i percorsi educativi più attinenti ai valori individuali e agli obiettivi di realizzazione personale degli studenti – attiene al principio di un sistema integrato nelle sue componenti statali e non, per un reale passaggio alla scuola di tutta la società civile.

Pertanto intendiamo ridefinire il ruolo dello stato centrale. Serve un sistema organizzato su tre livelli: nazionale, regionale e dei singoli istituti, con un centro che indirizzi e governi, ma senza più compiti di gestione, secondo i principi del federalismo solidale.

Al centro va riservata la definizione dei curricula nazionali, il cui contenuto dovrà rispecchiare il grande valore della nostra cultura e della nostra tradizione, elementi essenziali per la costruzione e la conservazione dell’identità nazionale. I curricula nazionali potranno essere integrati dalle regioni e dagli istituti scolastici, e in questo modo sarà possibile l’apporto delle diversità e delle ricchezze regionali e locali.

Serve, altresì, un centro che valuti il funzionamento delle scuole e i livelli di apprendimento degli studenti. Occorre per questo un servizio nazionale di valutazione del sistema scolastico nel suo complesso, autonomo e indipendente, che definisca gli standard di qualità delle scuole e operi sui livelli finali di preparazione degli studenti, al fine di migliorarli costantemente ed in modo omogeneo nel Paese.

A tal fine, abbiamo istituito un gruppo di studio presieduto dal professor Giacomo Elias, dell’Università Statale di Milano massimo esperto a livello internazionale della valutazione, e da tecnici ed esponenti della scuola e delle famiglie, con il compito di approfondire il tema dei sistemi valutativi anche attraverso riscontri con le esperienze europee, al fine di aiutarci nella messa a fuoco dei migliori modelli.

La situazione che ereditiamo registra ancora un peso burocratico e opprimente dello Stato: si continua a governare le scuole con una miriade di circolari e decreti.

Il punto di criticità maggiore nella riforma dell’amministrazione, è l’aver prodotto una proliferazione degli Uffici dirigenziali (118), con una preoccupante frammentazione delle competenze fra uffici e dipartimenti.

Le stesse Direzioni regionali stentano a decollare, per i pesanti vincoli burocratici e organizzativi.

È ancora difficile la transizione dalle strutture provinciali dell’amministrazione alle Direzioni regionali ed alto è il rischio che si costituiscano strutture intermedie (CIS), Centri di servizio amministrativi (CSA) che di fatto ripropongano i soppressi provveditorati.

Mezzi, strutture, risorse e personale vanno invece indirizzati direttamente agli istituti scolastici, in un disegno complessivo che integri il centro, le Regioni, gli Istituti.

A questo proposito costituiremo un Tavolo di semplificazione destinato a razionalizzare e sburocratizzare in maniera netta tutte le disposizioni di organizzazione interna alla struttura scolastica. Dobbiamo infatti superare l'attuale assetto dell'istruzione organizzato in chiave autoreferenziale.

Anche il decreto legge che il Governo ha varato per l’avvio dell’anno scolastico costituisce un primo passo per rilanciare il ruolo dell’amministrazione scolastica nella sua funzione di servizio rispetto alla organizzazione scolastica, ponendo al centro le esigenze dello studente e delle famiglie.

Una vera autonomia delle istituzioni scolastiche comporta, peraltro, che si prevedano al più presto organi di governo all’interno di ogni istituto.

Il Governo si appresta a presentare alle Camere un disegno di legge di riforma degli organi collegiali di istituto, ispirato a garantire la presenza degli essenziali organi di governo, lasciando alla libertà dei singoli istituti di prevedere le forme di partecipazione e organizzazione ritenute più opportune.

Rispetto, invece, agli organi collegiali territoriali si renderà necessaria una proroga alla loro costituzione, prevista per il prossimo primo settembre, per una indispensabile revisione che tenga conto sia della riforma federalista dello Stato, sia di un necessario cambiamento rispetto all’attuale struttura che prevede una serie di rappresentanze chiamate ad assistere alle scelte dell’amministrazione, senza nessun reale potere decisionale.

Veniamo al problema centrale del sistema scolastico e alle ragioni di metodo già richiamate, intendo soffermarmi sulle ragioni principali che hanno giustificano la sospensione della riforma dei cicli scolastici.

Punto centrale ci sembra essere la necessità di riavviare il processo di riforma consultando e facendo partecipare ad una discussione così importante tutti i protagonisti, insegnanti, dirigenti, genitori e studenti, facendo in modo che non siano obbligati a realizzare la riforma, ma siano loro stessi a chiarirla, giustificarla e volerla.

Tutto ciò nel rispetto delle autonomie delle singole scuole, ma anche nel reale riconoscimento delle competenze e delle corresponsabilità dei veri protagonisti del cambiamento scolastico che non può risultare solo opera di vertice.

Sullo sfondo restano questioni di organicità dell’intero sistema educativo che mi sono state rappresentate anche negli incontri avuti con il mondo della scuola.

In sintesi, i nodi più urgenti da sciogliere sembrano essere:

Ho già affidato ad un gruppo di lavoro ristretto l’esame di tutti questi punti in vista della organizzazione di quelli che potremmo definire gli "Stati Generali dell’Istruzione".

Il gruppo di lavoro, presieduto dal prof. Giuseppe Bertagna dell'università di Bologna e Torino, è costituito dai professori Giorgio Chiosso dell'università di Torino, Michele Colasanto, Prorettore dell’Università Cattolica ed ex Presidente dell’ISFOL, Silvano Tagliagambe dell'università La Sapienza di Roma, Norberto Bottani, ex ricercatore OCSE e Direttore del Dipartimento Innovazione Educativa del Cantone di Ginevra e dal Prof. Ferdinando Montuschi titolare della Cattedra di Pedagogia Speciale Presidente del corso di laurea in scienze della formazione primaria della III università di Roma.

Il gruppo di lavoro coinvolgerà tutte le componenti scolastiche attraverso la costituzione di gruppi focus, audizioni mirate, seminari di produzione, analisi di caso, comparazioni internazionali, e metterà a fuoco una serie di alternative per eventuali integrazioni o correzioni delle scelte adottate dalla legge 30. Le risposte saranno elaborate dal gruppo di lavoro in un rapporto di sintesi. Saranno convocati nel frattempo gli stati generali della istruzione, composti da rappresentanti delle famiglie, degli studenti, dei docenti, e da tecnici, che sulla base del rapporto di sintesi, mi forniranno i concreti riscontri per un nuovo piano di attuazione della riforma degli ordinamenti e per le eventuali modifiche da apportare alla legge 30. Il lavoro dovrà essere completato in modo tale da poter consentire un percorso di revisione parlamentare in tempo utile per avviare il nuovo anno scolastico 2002-2003 secondo le nuove indicazioni.

L’avvio di questo intenso processo riformatore non può essere slegato da una riflessione attenta sul ruolo degli insegnanti.

Il Governo non sottovaluta i problemi che si pongono anche perché, negli anni, lo status della docenza non è stato di fatto modificato.

Vanno avviate politiche di definizione delle funzioni del personale docente coerenti con la necessità di valorizzarne il ruolo e di riconoscerne le diverse ed articolate professionalità.

Si è consolidato, nella maggior parte del personale docente, un modello di lavoro a volte privo di significato, di natura impiegatizia non professionale, con una tolleranza eccessiva verso comportamenti, per fortuna molto limitati, incompatibili con la funzione educativa, come peraltro ci ha giustamente segnalato la Corte dei Conti.

Gli investimenti sulla docenza vanno concentrati sulla definizione di articolazioni delle funzioni, che si concretizzino nel riconoscimento di un diverso impegno professionale sia rispetto al tempo di lavoro sia in relazione all’arricchimento del profilo professionale con conseguenti riconoscimenti economici. Naturalmente in seguito ad un confronto con le Organizzazioni sindacali.

In questo senso, anche alla luce della riforma della dirigenza scolastica, appare opportuno definire, tempestivamente, uno specifico ambito contrattuale per il personale docente ed una disciplina coerente con la piena attuazione dell’autonomia delle scuole.

Intendiamo inoltre realizzare, nel confronto con le associazioni delle famiglie e con le organizzazioni sindacali di categoria, codici deontologici flessibili, che consentano alla categoria stessa di tutelare quella dignità che ad essa compete.

Il Governo sarà attento, altresì, alla questione del primo contratto collettivo nazionale dei dirigenti scolastici che attendono il riconoscimento sul piano economico e giuridico delle nuove funzioni che ricoprono dal primo settembre 2000 all’interno dell’impianto autonomistico delle scuole.

Bandiremo al più presto il primo concorso, dopo ormai dodici anni, per il reclutamento dei dirigenti scolastici.

Uguale attenzione andrà posta alla valorizzazione dell’importante funzione del personale ausiliario, tecnico e amministrativo, che sta dando un notevole contributo al processo di riorganizzazione dell’amministrazione.

Per quanto riguarda l’università la nostra azione si incentrerà sui tre seguenti obiettivi, indicati da tempo:

  1. Aumentare il numero dei laureati portandolo ai livelli europei;
  2. Fare in modo che vengano ridotti i tempi effettivi per il conseguimento dei titoli universitari;
  3. Garantire gli sbocchi professionali anche attraverso l’elevata qualità dei corsi e l’interazione con il mondo produttivo.

E' in funzione di tali obiettivi che deve orientarsi l'autonomia didattica delle università. Spetta quindi alle università nei prossimi anni recuperare decisamente quella dispersione universitaria più volte richiamata, che ci colloca all'ultimo posto dei Paesi industriali per numero di laureati e per abbandoni. C’è bisogno di creare anche in Italia, come avviene all’estero, circuiti differenti per istituti di alta specializzazione separati da quelli destinati alla formazione di base e da quelli utilizzati per la diffusione di sapere sul territorio.

Coerentemente, la ripartizione delle risorse disponibili dovrà avvenire in funzione di questi essenziali obiettivi.

Per questo il Governo si impegna a rendere più effettiva l’autonomia delle università. Dal conto loro, le università dovranno sempre più strettamente associare il concetto di autonomia con quello di responsabilità.

Al centro della nostra azione anche per quanto riguarda l’università ci sono gli studenti, i loro bisogni, i loro problemi, i loro sogni.

Nel delicato passaggio tra la scuola e l'università, gli studenti sono soli. Noi dobbiamo accompagnarli e aiutarli nella scelta dell'università, perché questa scelta condiziona tutto il loro futuro. A questo fine è essenziale introdurre anche nelle università l’accreditamento del prodotto formativo e la certificazione della qualità dei servizi, così che studenti e famiglie possano fare le proprie scelte sulla base di una chiara e completa informazione.

Gli studenti sono soli anche dentro l'università. Dobbiamo affiancarli e sostenerli in modo continuativo in tutto il loro percorso di formazione superiore, e aiutarli nella decisiva scelta del loro primo inserimento nel mondo del lavoro.

Questi sono aspetti fondamentali del diritto allo studio, che devono trovare una concreta attuazione.

Una vera politica del diritto allo studio deve preoccuparsi non solo di sostenere economicamente gli studenti privi di mezzi, ma anche di valorizzare i talenti migliori. Le nostre università devono inoltre saper attrarre i migliori studenti stranieri. A questo fine sono essenziali le politiche di mobilità degli studenti sia tra le università italiane, sia e soprattutto tra le nostre università e quelle europee, come avviene già nei maggiori paesi dell’Unione. Lo Stato dovrebbe creare un flusso di finanziamenti privati provenienti dalle fondazioni bancarie e dalle imprese destinati a sostenere cattedre specifiche, borse di studio, alti studi per macro aree.

E’ alla internazionalizzazione complessiva delle nostre università che occorre dare massimo impegno e attenzione, creando condizioni che favoriscano gli scambi e i periodi all’estero, oltre che degli studenti, anche dei professori e dei ricercatori.

Negli ultimi mesi si è acceso intorno alla riforma avviata dalla decreto ministeriale n. 509 del 3 novembre 1999 un vivace dibattito culturale, con richieste di rinvio della sua applicazione. Alcuni temono che la formula del triennio si traduca in una dequalificazione della formazione universitaria, altri un impianto troppo squilibrato verso il "saper fare", a scapito del "sapere" e del "saper essere".

Di queste preoccupazioni occorre tener conto, ponendo attenzione a che l’attuazione della riforma non si traduca in una standardizzazione dell’offerta didattica e in una sua omologazione verso il basso. La ricchezza delle università è data anche dalle diversità che convivono e si confrontano.

La riforma è dunque solo una prima positiva risposta, dopo decenni di immobilismo, ai gravi problemi di inefficacia e inefficienza che affliggono le Università. Il nuovo quadro normativo innesca un percorso di autoriforma continua dell’offerta formativa degli atenei il cui successo non dipende soltanto dalla legge e dalle norme attuative, che devono limitarsi a definire la cornice generale, bensì dal modo in cui le competenti strutture accademiche interpreteranno tale quadro in sede di concreta regolamentazione dei progetti formativi. In quest'ottica desta preoccupazione il fatto che i corsi siano stati definiti da molti atenei senza che sia avvenuta quella consultazione costante e puntuale da parte delle università con tutte le forze del mondo produttivo che la legge richiedeva. Si mantiene così nel nuovo sistema quel distacco dalle esigenze del mondo del lavoro che l’università italiana deve colmare.

Il Governo intende, pertanto, sostenere le università che intendono attuare da subito la riforma, e, nello stesso tempo, dare la facoltà di differire l'inizio dei corsi di studio all'anno accademico 2003/2004 a quelle università che ne sentono l’esigenza. Questo per tre motivi:

  1. alcuni atenei non sono ancora pronti, e intendiamo dare loro la possibilità di progettare i corsi con maggiore tempo a disposizione;
  2. alcuni ritengono - in particolare tra le facoltà umanistiche - che l'articolazione "tre più due" non sia la più idonea, e vogliamo che questo tema sia oggetto di un ulteriore approfondimento;
  3. il rinvio consentirà inoltre di monitorare il processo di riforma al fine di definire standards minimi per la attivazione di corsi e facoltà, che consentano di commisurare l'offerta formativa alle reali potenzialità delle università e delle facoltà e alle reali esigenze degli studenti e del mondo produttivo.

Una delle criticità del sistema universitario è quella delle risorse, in particolare per quanto riguarda il diritto allo studio, l'edilizia universitaria e i fondi per la ricerca . Il nostro sistema è finanziato per l'equivalente 14.267 miliardi di lire, come risulta dai dati OCSE relativi all'anno 1998, spesa che è di molto inferiore a quella della Germania (21.502 miliardi) e dell'Inghilterra (21.997 miliardi circa).

Il processo di completamento dell’autonomia universitaria, inoltre, attuato attraverso la riforma della complessiva offerta formativa, in linea con gli orientamenti europei, rende improcrastinabile un incremento del fondo di finanziamento ordinario.

Quanto alla ricerca che si svolge nelle università, gli attuali stanziamenti hanno subito nel corso degli ultimi tempi decurtazioni, mentre è sulla produttività e sulla qualità della ricerca che si misurano l’eccellenza e il prestigio delle università. Occorre quindi potenziare la ricerca universitaria, anche con adeguati investimenti, e in quest’ottica va incrementato il numero dei dottorati di ricerca, e ne vanno attentamente monitorate le ricadute professionali e la qualità.

E' inoltre necessario l’avvio di azioni preordinate all’adeguamento delle strutture edilizie e delle correlate attrezzature didattiche e scientifiche, attraverso un rilancio della politica degli investimenti del settore dell’edilizia universitaria.

Per assicurare il concreto raggiungimento dei tre obiettivi prima indicati, va costantemente monitorata l'efficienza e l'efficacia della organizzazione e della didattica. A tal fine, centrale è il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, che va potenziato e rafforzato.

Occorre inoltre superare decisamente il sistema dei controlli preventivi di tipo burocratico, attualmente affidati alla struttura centrale del Ministero e al CUN, che rappresentano un forte vincolo all’esercizio effettivo della autonomia e conservano rigidità con essa non coerenti proprio nell’aspetto più delicato e importante, che è quello della definizione dei percorsi formativi secondo la legge 127 del 1997.

Le risorse andranno complessivamente incrementate, come prima ho chiarito, ma in modo strettamente finalizzato al perseguimento degli obiettivi essenziali. Occorrerà quindi agire sui meccanismi di finanziamento pubblico, affiancando al sistema delle "quote di riequilibrio", che richiede tempi troppo lunghi (secondo stime ben note gli effetti si produrrebbero tra vent’anni), un consistente incremento di risorse che dovranno essere ripartite tra gli atenei in relazione ai miglioramenti di qualità via via realizzati.

Sembra inoltre necessaria una riflessione sui docenti, che affronti i temi della qualità della ricerca e dell’insegnamento e della relativa valutazione. Essenziale è il tema del reclutamento, che va disciplinato in termini tali da consentire agli atenei di scegliere docenti di qualità. Sembra opportuno in ogni caso, in considerazione della inefficacia dei meccanismi dei concorsi recentemente riformati, segnalata dagli atenei, provvedere ad una urgente azione di rettifica normativa recuperando il sistema del vincitore unico in luogo del vigente sistema dei due candidati idonei, anche consentendo che le commissioni possano essere integrate da docenti stranieri.

Al settore della ricerca il Governo affida un ruolo di particolare importanza per il conseguimento del grande obiettivo di modernizzazione del Paese.

Alla base vi è la profonda consapevolezza delle fondamentali funzioni che in una società industriale avanzata come quella italiana questo settore deve essere portato a svolgere: contribuire in modo determinante allo sviluppo della capacità competitiva del comparto produttivo, tramite il continuo affinamento del suo livello tecnologico; elevare la capacità formativa dei docenti universitari, chiamati tutti a ad affiancare all’attività didattica una valida attività di ricerca; diffondere nel tessuto connettivo della nostra società la cultura scientifica e tecnologica, attualmente così poco presente.

Il Governo ritiene pertanto necessario ed urgente un profondo rinnovamento del settore della ricerca. E’ una sfida ardua, se si tiene conto che:

Per superare l’attuale insoddisfacente situazione, il Governo intende porre in essere una molteplicità di azioni, che riguarderanno tutto l’articolato e complesso arco del settore della ricerca. Tali azioni, pur variamente posizionate nel tempo, verranno opportunamente coordinate tra di loro, nella visione del settore come macrosistema integrato. Al fine di promuovere la presenza italiana nei settori di alta tecnologia: aeronautica, spazio, difesa, informatica, energia, telematica, biotecnologia e nuovi materiali.

In particolare:

Con tutte le azioni che il Governo porrà in essere nel quinquennio, la spesa complessiva italiana in ricerca e sviluppo si allineerà agli standard quantitativi e qualitativi dei principali paesi europei (2% del PIL), venendo così a corrispondere agli indirizzi formulati dal Parlamento Europeo.