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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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A proposito delle competenze:
sono fondate le preoccupazioni di Hirtt?

 

Non so fino a che punto siano fondate le preoccupazioni di Hirtt (vd. in Educazione&Scuola Approccio per Competenze di Nico Hirtt). A mio avviso, l’approccio per competenze non costituisce una resa alle esigenze dell’economia, come vorrebbe dimostrare Hirtt, ma l’esito della ricerca educativa degli ultimi anni, giustificata peraltro dalle nuove conoscenze che si sono acquisite sulla intelligenza – o sulle intelligenze – sui processi cognitivi e sull’apprendimento.

Se poi, da altre parti, si tende – o si tenderebbe – a strumentalizzare gli esiti delle ricerche ad altri fini, si tratta di un’altra questione. Ma non credo che sia interesse del mondo dell’imprenditoria, oggi, ricercare nel mercato del lavoro addetti che siano “competenti in senso stretto”, soprattutto perché le innovazioni nelle tecnologie, nella organizzazione del lavoro e nei processi lavorativi sono così rapide e incessanti che addetti così riduttivamente formati non sarebbero in grado di affrontare.

Ciò non significa, tuttavia, che l’imprenditoria, anche nelle società ad alto sviluppo, non necessiti e non ricerchi prestazioni d’opera anche precarie: il mercato del lavoro è estremamente variegato! Ma, anche in questa varietà di situazioni, non possiamo chiederci se “abbiamo bisogno di lavoratori competenti o di cittadini critici”, in quanto, in effetti abbiamo bisogno unitariamente di competenze e di capacità critiche, sia per il mondo del lavoro che per le dinamiche sociali che gli spazi democratici ci consentono ed esigono.

E non è un caso che, in sede di riforma degli esami di maturità, gli accenti sono stati posti dal legislatore non solo sulle competenze ma anche sulle conoscenze, che ne costituiscono il fondamento primario, nonché sulle “capacità elaborative, logiche e critiche” (DPR 323/98, art. 1, c. 3). Pertanto, quando G. Bernaerdt et al., citati da Hirtt, affermano che “una competenza è un insieme integrato e funzionale di sapere, saper fare e saper divenire, che permette, di fronte ad una vasta categoria di situazioni, di adattarsi, di risolvere problemi e di realizzare progetti”, di fatto alludono ad una persona che è un lavoratore e cittadino al tempo stesso competente e critico. E sarebbe solo augurabile che così fossero tutti coloro che hanno conseguito un diploma di scuola secondaria!

La linea suggerita da Hirtt sembrerebbe solo ridar fiato alle trombe dei passatisti, a chi, defensor temporis acti, privilegia le conoscenze in quanto tali, saperi fini a se stessi, liberi da ogni impatto con il fare, in quanto sarebbero maggiormente suscettibili di garantire al soggetto quel pensiero critico che costituirebbe la prima fonte della ricerca cosiddetta libera e disinteressata! Ma Hirtt e i passatisti dimenticano di considerare che tale concezione rimanda ad un modello di scuola che era strettamente funzionale, una volta, alla creazione di una classe cosiddetta colta a cui sarebbe spettato il compito di dirigere e amministrare una società di “incolti”. Ed il “libero e disinteressato sapere” dei pochi “fortunati colti” in effetti non era tanto funzionale alla ricerca scientifica e allo sviluppo economico quanto alla conservazione della società qual era e alla difesa del potere costituito. E si trattava di compiti per i quali erano pur sempre necessarie conoscenze di tutto rispetto; tant’è vero che tali conoscenze non erano “offerte” ai più, a coloro che avrebbero atteso soltanto a lavori esecutivi manuali!

La ricerca sociologica ha ormai ampiamente dimostrato quanto sia falsa l’ipotesi di una scuola finalizzata al puro sapere e quanto invece sia vero il fatto che la scuola ha sempre svolto un ruolo di supporto, se non di riproduzione, dell’establishement socio-economico, nelle classi alti ed in quelle basse.

Se poi solo gli studi cosiddetti classici costituiscano un valido strumento per l’avvio al pensiero critico e produttivo è un’altra questione. A parte il fatto che occorrerebbe assolutamente intenderci, oggi, su quale significato dare a questo tipo di studi, in qual modo implementarli, quali curricolo ipotizzare e, soprattutto, quali metodologie adottare.

Ma il punto di arrivo – o meglio, l’interrogativo – della ricerca educativa, oggi, è proprio questo: consapevoli del fatto che la formazione “per tutti”, dai tre ai diciotto anni ed oltre, è un dovere educativo, culturale, professionale e sociale primario, e che tale formazione deve consentire “a tutti” di accedere al mondo dei saperi ulteriori e degli impegni professionali, ci chiediamo quali siano le offerte educative più opportune per conseguire, consolidare e sviluppare queste finalità.

L’approccio alle competenze va in questa direzione. Consapevoli del fatto che non esiste una conoscenza “gratuita”, come non esisteva ieri e come non può esistere in assoluto, in forza di questa integrazione costante – per usare l’espressione di G. Bernaerdt et al. – tra il sapere, il fare, il risolvere problemi, il progettare, integrazione che caratterizza l’essere umano, abbiamo avvertito che la “competenza” costituisce una garanzia del conseguimento di un successo formativo più di quanto possano farlo le “rappresentazioni” formali delle conoscenze acquisite.

E’ certo che la competenza serve all’impresa e all’economia, ma serve anche alla ricerca avanzata, disinteressata o meno. E’ competente il tecnico, laddove deve essere “capace” di modificare conoscenze e competenze acquisite in forza delle innovazioni indotte e che a volte egli stesso promuove; è competente il filosofo laddove deve essere “capace” di elaborare nuove forme di pensiero, adottare nuovi metodi di ricerca, darsi nuovi traguardi!

Una delle caratteristiche fondanti delle società avanzate consiste proprio in questo: che non possono più coesistere due canali formativi, uno per il “libero professionista” ed uno per i lavori puramente esecutivi, perché non esistono più libere professioni e non esistono più lavori solo esecutivi. E’ quel rimescolamento delle carte che le lotte per il lavoro e l’evoluzione tecnologica hanno prodotto!

Comunque, è anche vero che i “lavori precari a bassissimo livello di qualificazione” a cui accenna Hirtt non mancano e non mancheranno in futuro (e lo spezzatino contrattuale propostoci dal recente dlgs sulla riforma del mercato del lavoro va in questa direzione! Si veda in questa rubrica la mia nota Dal lavoro nero al lavoro… grigio e… le ricadute sulla formazione), ma si tratta di un problema che riguarda le lotte del lavoro e della qualificazione sociale, non direttamente quello della formazione.

Se tutti possiamo pensare che l’istruzione può e deve essere una variabile per lo sviluppo socioeconomico, nessuno può pensare che ne sia la sola! E nessun governo è disposto ad investire solamente ed essenzialmente in educazione, proprio perché non c’è un rapporto diretto ed irreversibile tra educazione e sviluppo!

Le questioni sul tappeto sono tante, ma l’errore in cui cade Hirtt – se di errore si può parlare – consiste nel fatto che sembra considerare la competenza come un qualcosa di conclusivo e definitivo per un operatore. Quando, invece, non è così! Proprio in forza di quella “integrazione” di cui parlano G. Bernaerdt e lo stesso Perrenoud, la competenza è tale quando si inserisce in un ciclo continuo che permette al soggetto di andare non solo dalle conoscenze alle competenze, ma di andare oltre, alle capacità di rimettere in discussione costantemente ciò che si è acquisito e di rinnovarlo per tutto l’arco della vita, grazie a quella fluidità e flessibilità cognitiva che è nel nostro dna, ma che la scuola deve ritrovare ed incentivare in ciascun allievo. La competenza non è mai un punto di arrivo ma, se è veramente tale e non una pura e semplice applicazione di regole, uno snodo critico che ne condiziona necessariamente altri.

Per tutte queste ragioni, non ha senso tirare in ballo né l’attivismo né il costruttivismo, movimenti serissimi che hanno contribuito fortemente al miglioramento delle metodologie dell’insegnare e dell’apprendere.

Né dobbiamo imputare all’approccio per competenze la responsabilità di un’eventuale scelta politica, prima che educativa, finalizzata a legittimare e consolidare due canali formativi, uno “ricco” ed uno “povero”! Perché è sul terreno politico che tale ipotesi va affrontata e battuta, e proprio anche in forza di un approccio fondato sulla competenze, che prima di essere una applicazione metodologica è un vero e proprio fatto di cultura e di cultura dell’educazione.

Roma, 1 settembre 2003

Maurizio Tiriticco


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