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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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AFFETTIVO/COGNITIVO

di Claudia Fanti (maestra elementare)

Affettivo-cognitivo, il binomio vale soprattutto per noi maestre/i: molte e molti di noi sanno quanto sia faticoso di fronte a una classe dimenticare ogni mattina e pomeriggio ciò che si è, ciò che si è stati e ciò che si vorrebbe nel futuro per le proprie alunne e i propri alunni.

Voglio dire che la sconfitta dell’apprendimento-insegnamento è in agguato soprattutto nel momento in cui crediamo che ciò che avevamo pensato e progettato razionalmente ha più valore di tutti i "movimenti" di relazioni, ragionamenti, "avanzamenti" e "ritorni", ecc…che si svilupperanno sotto i nostri occhi nel momento in cui avremo aperto la bocca per avviare un "percorso di ricerca".

Oggi più che mai è necessario saper attendere rispetto alle programmazioni, postprogrammare e rivedere i percorsi: ciò è dovuto all’inconfutabile mutamento del modo di porsi di fronte alla scuola di alunne/i e famiglie. Nessuna delle componenti ha più quell’incanto, quel senso di reverenziale timore che fino ad alcuni anni fa contraddistingueva i rapporti.

Oggi giornata scolastica è una sfida in cui sentimenti, aspettative, ragioni contrapposte, ricerca di senso creano un’ atmosfera spesso complicata.

Proprio quando le classi sono numerose fino quasi a scoppiare, proprio quando gli inserimenti sono di vario tipo e difficoltà, necessita la disponibilità all’ascolto da parte di tutte/i le/gli insegnanti.

Per istinto e volontà si vorrebbe correre per timore di non riuscire a "far tutto", invece bisogna costruire una rete di relazioni fortissima dentro le classi: da ciò e con ciò, si potrà avere qualche speranza di riuscita, altrimenti sarà un fallimento.

Non ci sono ricette valide per tutto e tutti, ma ricorrere all’apprendimento cooperativo è praticamente inevitabile per favorire una riuscita dell’impresa, perché di impresa si tratta!

Non si può più sperare di risolvere atteggiamenti indisciplinati con il ricorso alla sanzione o con il brutto voto: si rischierebbe sempre un abbandono, un irrigidimento, un allontanamento. Non si tratta di essere "buonisti" come qualcuno potrebbe obiettare, ma di essere realisti.

E non si tratta neppure di adeguarsi ai tempi, come qualcun altro sostiene, ma, al contrario, di vincere una battaglia proprio contro l’abbassamento culturale aggirando intelligentemente gli ostacoli e creando un ambiente in cui non si veda l’ora di tornare il giorno dopo per continuare a lavorare con le/i compagne/i.

Un’ambiente di ricerca continua di soluzione ai problemi che nascono sia in campo affettivo sia in campo cognitivo, sia per ciò che riguarda i rapporti umani sia in riferimento alle materie scolastiche.

E’ antipatico sentire spot e programmi televisivi parlare di scuola nel senso di luogo in cui è inevitabile o, peggio, odioso stare. E’ antipatico soprattutto perché non è così o, per lo meno, potrebbe facilmente non essere così per molte/i!

Capita, infatti, sovente che le bambine/i non siano contente/i dell’inizio di una vacanza, perché sono ansiosi di finire un racconto, di ascoltare la fine di una lettura, di trovare la soluzione a un problema insieme con il compagno della coppia di lavoro, di partecipare alla stesura di un testo con il proprio piccolo gruppo, di correggere insieme un elaborato grammaticale che non aveva soddisfatto il gruppo, ecc…La voglia di essere a scuola in situazione non è per niente rara e fa parte della curiosità naturale delle/dei bambine/i che, se sono protagonisti dei loro apprendimenti, si divertono come …a teatro!

E’ forse il teatro quello che assomiglia di più all’apprendimento "in società": si hanno le parti individuali, ma se non c’è rispondenza tra i protagonisti, se non si aspettano i turni, se non si collabora, se non ci si incoraggia a vicenda, se non si rispettano i ruoli e non si dà senso a ciò che si fa…la rappresentazione non solo non piacerà al pubblico, ma non darà soddisfazione agli attori! Allora bisognerà ricominciare da zero per ricostruire l’interpretazione e ci vorrà più tempo per ottenere un risultato degno della compagnia!

Il timore di perdere tempo per le/i docenti è forte inizialmente, ma, poi, una volta resisi conto che ogni apprendimento, costruito in compagnia e "simpatia", viene consolidato per sempre, allora si prende fiducia e si va avanti con entusiasmo.

Come a teatro, le regole e i tempi vanno rispettati, gli attori non possono cedere la propria parte, il risultato finale va condiviso, così come la responsabilità del successo o dell’insuccesso che è sempre in agguato, ma non sarà poi drammatico se si ha la consapevolezza che si può ricominciare assieme rivedendo le interpretazioni poco efficaci!

A noi insegnanti occorrerà essere molto disposte/i a modificare le attese, i nostri calcoli sui tempi, le previsioni di riuscita di quella o quel bambina/o…

La prima scelta, l’unica possibile, perché è l’unica che verrà percepita positivamente è quella del lanciare il sasso nell’acqua e attendere che i cerchi si propaghino. I tempi di propagazione possono essere e, generalmente lo sono, molto più lunghi di quanto ci si attendeva.

Poi è alquanto opportuno fermarsi a raccogliere sul nascere le "idee", anche le più strampalate: hanno sempre un fondo di verità umana a cui aggrapparsi nei momenti in cui sembra di perdere il contatto con quella o quel bambina/o.

La circolazione di idee è il momento più proficuo da cui partire. L’adulto dovrebbe rimanere in posizione di ascolto. Al massimo si potrebbe usare qualche rispecchiamento, ma non di più.

Importante sarebbe sempre fare in modo che le idee che "circolano" lascino il "segno" scritto (cartelloni, foglietti, quaderni, ecc…); quando è il caso, anche parlato (registrazioni) e visivo (videoregistrazioni). Ciò non soltanto per valorizzare, ma anche per costruire una memoria di ciò che si va affermando. Memoria che, nel tempo, le bambine e i bambini potranno o ritenere valida, o "rinnegare" se lo vorranno, dopo aver fatto, cooperativamente, scoperte che considereranno più valide.

Dopo questa fase, una pratica che ho ormai consolidato è quella del lavoro di coppia e di piccolo gruppo (segue sempre le mie lezioni frontali e la circolazione di idee).

 

Dando come scontata la conoscenza delle modalità in cui si formano le coppie di lavoro e le regole non trasgredibili dalle/dai componenti delle coppie, ora passerò a dire i perché del mio utilizzo della fase del lavoro di coppia per attivare i processi d’apprendimento e consolidamento.

 

VANTAGGI DEL LAVORO A COPPIE E DEI PICCOLI GRUPPI

-Imparare a "reggere" il conflitto per riemergerne con soluzioni condivise.

-Confrontarsi con stili diversi di approccio ai problemi, quindi imparare strategie diverse dalla propria per trovare possibili strade d’apprendimento.

-Imparare ad attendere ritmi diversi, ma anche rendersi conto del proprio "valore" riconosciuto dal piccolo gruppo o dal singolo compagno e successivamente dalla classe nel momento della conferenza.

-Avere, nel futuro degli apprendimenti individuali, punti di riferimento nel ricordo dell’apprendimento fatto in coppia o nel piccolo gruppo: una parola detta, una soluzione esatta condivisa, un sorriso fatto dal compagno a proposito di una parola detta o di una soluzione trovata, una disputa nata per una diversità di vedute su un argomento, ecc…

-La soddisfazione di essere riusciti a portare a termine positivamente un lavoro, dopo aver faticato a condividere un percorso.

-La condivisione della responsabilità del risultato anche nel caso in cui non sia un risultato giusto: assunzione della propria responsabilità anche nel caso in cui si ritenga di non avere la "colpa" del risultato; quindi acquisizione della consapevolezza che per convincere gli altri o l’altro della bontà di un’idea , bisogna saper ben argomentare e sostenere le proprie posizioni suffragandole di "prove", "esempi", ecc…

-La presa di coscienza: a) che pure senza l’aiuto dell’adulto si possono trovare soluzioni e strategie, anche impreviste; b) che non sono il solo ad avere delle difficoltà; c) che di fronte alle difficoltà si può trovare sempre una via d’uscita.

In una metodica siffatta si apre il problema della valutazione: ecco le ragioni che mi portano a non valutare secondo gli schemi ministeriali che costringono noi e  bambine/i nelle "categorie" di "non sufficiente", "sufficiente", "buono", "distinto" e "ottimo". Una didattica (come quella delle scuole elementari) rispettosa dei ritmi di maturazione, dei tempi dilatati, del parlato, della creatività (stimolata in campi che di solito, apparentemente, non lascerebbero spazio a una costruzione del pensiero autonoma) non può usare gli stessi strumenti sequenziali di una didattica più legata alle prestazioni momentanee (unità didattica, insegnamento-apprendimento, verifica, giudizio espresso con una parola o un punteggio).

Le/i nostre/i alunne/i sono costantemente "in dialogo" con noi e con le/i compagne/i a proposito dei "risultati conseguiti", perché sono stimolate/i a farlo dalla situazione didattica in cui le/li facciamo lavorare che prevede anche molti momenti di cooperazione nella fase dell’ apprendimento. Se vogliamo una didattica che tenti di porre rimedio ai soliti mali che vediamo imperversare: disturbi dell’attenzione, dell’ascolto, della conservazione delle informazioni, della concentrazione individuale, dello studio e della memorizzazione, della relazione,ecc…, non possiamo fare finta che le/i bambine/i siano quelle/i di un altro tipo di società. Allora non si possono giudicare le/i bambine/i dimenticando il perché sono in un certo modo. Un atteggiamento di fiducia unito a un ferrea pretesa di rispetto delle regole e dell’ impegno nella relazione è premessa indispensabile e preparatoria per qualsiasi apprendimento. Inoltre, se ci interessano più i percorsi mentali che conducono agli apprendimenti che non essi stessi, accetteremo più di buon grado gli errori, quindi non potremo apporre un "voto", punteggio o altro, perché sarà più importante che l’alunna/o abbia ricercato possibili soluzioni, abbia esplorato gli strumenti che le/ gli sono stati forniti, prima insieme con il gruppo e/o la coppia delle/dei pari, poi individualmente. Qui interessa che le/gli alunne/i conservino la disponibilità a imparare e questa non può essere giudicata con dei parametri standard. Chiediamoci come sarebbe possibile il giudizio sintetico in un percorso che prevede un apprendimento mediato dal rapporto con l’altra/o in situazioni in cui si"perde molto tempo".

Si vuole poi porre l’attenzione su una valutazione interna alle/ai pari:

le/i bambine/i, nella fase della correzione e dell’aiuto reciproco, durante la ricerca dell’errore, accettano di buon grado che la/il compagno abbia commesso qualche sbaglio, anche quello più strampalato, cosa che, difficilmente, fa l’insegnante, la/il quale, istintivamente, tende a "drammatizzare" quelli che chiama "sempre gli stessi errori" ( drammatizzare non soltanto a parole, bensì con l’espressione del viso!).

Le/i bambine/i, spesso, invece, intervengono ridendo di gusto davanti agli stessi errori! Correggono la/il compagna/o sbadata/o, la/il quale, solitamente, si schermisce, corregge e, intanto, apprende!

C’è un indubbio calo dell’ansia da prestazione: non è importante soltanto la prestazione, ma ha molto valore lo sforzo per dare insieme il meglio di sé!

La valutazione per obiettivi e verifiche probabilmente dà l’impressione di avere la situazione sotto controllo, ma pare aleatoria, momentanea, spesso falsata da variabili esterne.

I genitori hanno, nella quasi totalità, capito il percorso e lo condividono. Qui si sostiene che bambine e bambini delle elementari siano molto sensibili alle argomentazioni orali, alla gestualità, alla "vicinanza" o "lontananza" delle/degli insegnanti e delle/dei pari, piuttosto che ai giudizi espressi con le "categorie" degli adulti. Per esperienza, nel passato, si è notato un interesse molto superficiale, indotto da alcune famiglie nelle/figlie/i, verso le distinzioni fra i "voti": tu quanto hai preso? il tuo compagno quanto? chi è più bravo?...ecc...

Quindi si sostiene che sia più produttiva una valutazione che si dispiega mentre si insegna e apprende, un valutazione mai conclusa, che induca le/i bambine/i a dirsi: "se anche oggi "sono in difficoltà" per questo o quel motivo,  domani, se aggiusterò il tiro con le/i maestri e le/i compagne/i, io riuscirò a risolvere i miei problemi."

Inoltre a chi e a che cosa realmente serve il far rimanere costantemente in stallo alcune/i alunne/i, cristallizzate/i dentro un unico "voto" per tutta la vita scolastica? (Spesso, lo sappiamo benissimo, si inizia alle elementari per concludere, alla fine del percorso scolastico, una strada irta soltanto di insuccessi!).

Si ritengono validi: una valutazione espressa per punti forti e punti deboli, un percorso didattico che faccia leva sui punti forti per scardinare quelli deboli... una didattica autocritica e pronta a rinnovarsi quotidianamente.

DELL’IMPORTANZA DELLA PERSONA CHE INSEGNA

Comunque al di là di ogni possibile scelta di organizzazione dell’attività didattica, dei metodi, della preparazione culturale, resta inconfutabilmente al primo posto, per importanza nell’azione insegnamento-apprendimento, l’immagine che le/gli alunne/i si formano della persona insegnante.

Per essere docente coinvolgente, appassionante, stimolante, ma al contempo giustamente non "fagocitante", non bastano cent’anni di studi e di applicazione. Ce ne accorgiamo tutti i giorni, quaranta volte al giorno, quando la risultante del nostro lavoro subisce strane impennate e brusche cadute.

Forse, il modello dell’attore che studia un’ interpretazione il più possibile "vera", nonostante nasca dalla riflessione razionale sul copione, potrebbe essere calzante per spiegare come dovrebbe muoversi l’insegnante prima di entrare sulla scena dell’atto educativo e all’interno della scena stessa, ma non è facile: l’insegnante è prima di tutto una persona che ha un vissuto non soltanto professionale, ma anche umano sfaccettato, con un bagaglio di atteggiamenti relazionali acquisiti efficaci o inefficaci a seconda delle sue esperienze, credenze, impostazioni culturali, tendenze sociali.

Quindi non è vero una volta per tutte che l’insegnante, preparata/o didatticamente, culturalmente, aggiornata/o nelle discipline e nelle strategie, sia in grado di non "schiacciare"qualsiasi alunna/o le/gli si trovi di fronte. Basta, a volte, uno sguardo in tralice per scoraggiare un apprendimento sul nascere di una/uno studentessa/studente, d’altra parte può non influire su qualcuna o su qualcun altro.

Le componenti umane del carattere, della "simpatia", della disponibilità verso tutte/i (nessuna/o esclusa/o!), della capacità autocritica, d’ascolto… potrebbero non essere tutte presenti e anche se tali caratteristiche si potessero "studiare" in qualche modo, non è detto che sarebbe semplice mantenerle sulla lunga distanza, magari di fronte a eventuali insuccessi con quella o quel bambina/o.

Dico ciò perché a volte gli smacchi a cui le nostre attività vanno incontro non dipendono dall’attività stessa o dal modo in cui è stata organizzata, ma, purtroppo, da noi stesse/i. Non solo è difficile da accettare e frustrante, bensì, spesso, non è neppure presa in considerazione tale eventualità: per cui vengono criminalizzati o la strategia o la proposta didattica o, addirittura, soprattutto nel passato, l’alunna/o!

I fallimenti non dipendono certo soltanto da noi, perché il mondo delle relazioni è ben vasto e l’affettività, che incide sull’apprendimento di ogni bambina/o, è senza dubbio già in parte condizionata dal mondo esterno la scuola, ma qui si vuole sostenere che una/un buona/buon insegnante ha senza dubbio il potere di essere trascinante e di far apprezzare lo sforzo che l’apprendimento richiede anche alle/agli alunne/i più riottosi: ovviamente si sa che i risultati non potranno essere identici per tutte/i le/gli alunne/i; in ogni caso far avvicinare alla cultura le/gli alunne/i in modo curioso e aperto sarà già un bel risultato!

Fo, 26 gennaio 2002


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