INTERVISTA A
ROBERTO MARAGLIANO
SUL TESTO PRESENTATO DALLA
COMMISSIONE BERTAGNA
a cura di Lino Milita Scuolanews n° 7 del 20 dicembre 2001
per gentile concessione dell'Associazione
culturale Form&Inform
La legge n° 30 di Riordino dei cicli
scolastici, è stata approvata nel febbraio del 2000. Il 20
dicembre 2000 il Parlamento ha approvato il Programma di progressiva
applicazione delle legge. Il Governo Berlusconi, omettendo di
completare l’iter del Regolamento di attuazione, non ha dato
attuazione ad una legge dello Stato interrompendo così l’erogazione
di un pubblico servizio. La Commissione Bertagna, costituita dal
professore di Bergamo e da altri quattro esperti, in assenza di una
esplicita proposta alternativa, ha compiuto varie iniziative di
consultazione i cui risultati effettivi sono tuttora ignoti.
Anche il testo redatto dal prof.
G.Bertagna, nella sua stesura finale, era ignoto agli altri
quattro componenti della Commissione come ha dichiarato alla stampa il
prof. S. Tagliagambe.
Prof. Maragliano quali sono le Sue considerazioni in merito?
Anzitutto occorre che io faccia una premessa.
Sono certo disposto a misurarmi con quella che ormai molti chiamano la
controriforma Moratti, ma a patto che si possa riflettere,
contemporaneamente, e in forme chiare e oneste, sulla strada fin qui
percorsa e sulle molteplici ragioni dello sbocco attuale.
In altri termini, ha senso parlare del progetto Moratti solo se
assieme si parla del perché il progetto Berlinguer (direi di più: la
riforma Berlinguer) ha avuto lo sbocco che stiamo constatando. Non
vorrei che la pur legittima lotta anti-controriforma ci esimesse dal
capire cosa non è andato, cosa non ha funzionato nella riforma fatta
(o, più correttamente, nella riforma formalmente sancita).
Questa mia esigenza riflette il disorientamento non di chi si vede
sottratto adesso un risultato che giudicava acquisito ma di chi ha
avuto e ha tuttora l’impressione che quel risultato abbia cominciato
a sottrarre forza a se stesso fin dal momento in cui è stato
acquisito, cioè abbia iniziato a morire nel momento stesso in cui
veniva alla luce.
Dobbiamo confrontarci di più e meglio sulle ragioni che hanno portato
un’idea importante e feconda (il valore progressivo dell’universalità/unità
della formazione) a scoprirsi esausta nel momento in cui, finalmente,
dopo trenta e più anni di elaborazione e di tensione, trovava un
riconoscimento legislativo.
Perché, io chiedo, quest’idea si è mostrata improvvisamente
svuotata di una parte del suo senso, o almeno non così piena di
significato ideale e operativo come sembrava prima, e perché tutto
ciò è avvenuto fin dal momento del varo della riforma dei cicli, o
addirittura prima?
Se non ci si impegna in questa critica (un tempo si diceva anche ‘autocritica’),
il confronto con il progetto Moratti rischia di risultare sterile, un
semplice contentino ideologico o psicologico, un alibi.
Dunque, discutiamo di progetto Moratti ma anche di riforma Berlinguer,
e non nascondiamoci che il nuovo governo ha dovuto lavorare poco per
smantellarla, quella riforma, avendola ereditata – come ho detto e
ripeto – esausta fin dai primi vagiti.
Lei afferma, quindi, che la mancata attuazione della riforma dei
cicli non è dipesa univocamente dal governo attuale, ma deriva anche
da processi di lungo periodo preesistenti all’attuale legislatura.
Su questo delicatissimo tema ho le mie idee, come si è potuto
constatare prima, e mi spiace se, nell’attuale vuoto di elaborazione
di temi scolastici autonomi, che sembra attanagliare l’area dell’Ulivo,
queste appaiono pregiudizialmente negative. Sono negative, sì, ma non
pregiudizialmente. Se il confronto sul perché e il percome della
riforma dei cicli fosse in atto (cosa che non è), idee come le mie
potrebbero (come di fatto vorrebbero) confrontarsi con altre,
auspicabilmente più positive. In attesa di ciò, espongo un’altra
idea, che va in coppia con quella, enunciata precedentemente, sullo
svuotamento del processo di riforma, avvenuto in prima battuta per
ragioni endogene.
Questa mia seconda idea è presto detta: si tratta di un’ipotesi di
lavoro.
La riforma dei cicli potrebbe esser vista come la cartina di tornasole
dei limiti di ciascuna delle anime politiche che un tale progetto
hanno contribuito a elaborare e portare al successo (un successo
soltanto formale, ripeto). Nelle ristrettezze di un intervento
estemporaneo come questo, mi si scuserà se vado per schemi, per
sciabolate, e se individuo solo tre soggetti (del resto i principali),
dei molti che bisognerebbe chiamare in causa.
Per primo, ovviamente, il partito di riferimento dei due ministri
della Pubblica Istruzione (e le sue aree di attrazione, sul versante
sindacale e associazionistico), che si è trovato, nel pieno di questa
vicenda, lacerato da due tensioni, quella utopistica (cambiare
radicalmente l’impianto della scuola) e quella impiegatizia (non
scontentare gli insegnanti, soprattutto evitare una spaccatura interna
al corpo); non basta, a questa lacerazione si è aggiunta l’altra,
storica, tra un’anima primaria e ‘popolare’ e un’anima liceale
e ‘aristocratica’. Nella sua configurazione iniziale il progetto
Berlinguer premiava il primo corno di queste due tensioni, nella sua
sanzione e nell’inizio dell’attuazione la riforma è stata via
via assorbita dal secondo corno.
Per secondo, il partito cattolico, o meglio quel che restava (e resta)
di quella realtà. E’ questo il problema. Ho l’impressione che il
modello di scuola che abbiamo avuto fino ai giorni nostri e dal quale
abbiamo tratto idee e tensioni per il cambiamento sia stato uno dei
capolavori politici della Democrazia Cristiana (e dell’intero quadro
politico che la esprimeva): un’istituzione formalmente laica e
intimamente religiosa, pubblica sul piano della forma e privata sul
piano della sostanza ideologica, tesa ad una missione educativa (più
che di istruzione) e tanto generosa e garantista nella salvaguardia di
una figura generica di docente scolastico quanto indisponibile a
sviluppare e articolare tale figura sul piano tecnico e
remunerativo. Mutata la situazione, scomparso quel partito e
quel quadro, la scuola, quella scuola si è sfarinata. Ma si è anche
sfarinata, almeno in parte (se non altro la parte di cui stiamo
vedendo le macerie) la prospettiva di un serio cambiamento che
nascesse dal suo interno. Non sto rimpiangendo quella situazione. Sto
semplicemente dicendo che molte delle difficoltà del presente hanno
le loro radici in quella realtà. La divisione politica interna all’area
cattolica (più altri aspetti, evidenti per esempio nella ‘dialettica’,
diciamo così, tra AIMC e UCIIM, oppure nel diverso orientamento ‘politico’
tra la rivista per la scuola primaria, favorevole alla riforma, e le
due per la scuola secondaria, sfavorevoli, della medesima editrice La
Scuola) ha certamente influito sull’indebolimento della riforma
stessa, se non altro perché ha consentito alla Chiesa di intervenire
più direttamente di quanto non facesse prima (quando c’era comunque
la mediazione unitaria DC), e di far valere sommessamente prima (e
dopo sempre più platealmente, vedi oggi) i suoi interessi ideologici
e materiali, come non era più capitato dai tempi del fascismo.
Terzo soggetto, il mondo imprenditoriale, pronto a sostenere, tramite
Confindustria, le motivazioni economiche e sociali del progetto
Berlinguer, almeno nella prima fase, ma reticente, imbarazzato, diviso
e tutto sommato assente proprio nel momento in cui (a riforma varata)
più serviva un impegno attivo, e non di vertice ma di cultura, quindi
di consenso sociale. Non è dunque un caso né una novità se oggi, di
fronte al progetto Moratti, i distinguo, gli accademisti, gli
imbarazzi prevalgono sulle fanfare.
Veniamo al documento Bertagna.
Penso che si possa dire che il documento Bertagna, al di là delle
fumosità e delle contraddizioni di superficie, è l’esito naturale
del processo in cui ho visto implicati i tre soggetti di cui ho
parlato (evitando di misurarmi con altri, se non altro per ragione di
spazio), un processo, dunque, iniziato prima della fine della
precedente legislatura e proseguito, come sappiamo, con ben altra
velocità e esplicitazione nella nuova.
Lo stesso si potrebbe sostenere a proposito della scelta del Ministro
attuale di adottare un simbolo come quello degli Stati Generali.
Se non sbaglio, questi vennero promossi dall’aristocrazia con l’intento
di ridimensionare l’assolutismo della monarchia, ma le cose andarono
in altro modo, sfuggendo dalle mani degli stessi promotori.
Cosa voglio dire? Che c’è il rischio che in quel di Foligno si vada
ben al di là dei confini civili (anche se inaccettabili nella
sostanza) del discorso Bertagna.
Questa è la cosa che più temo. E intendo essere chiaro, su questo
punto.
Che sia in atto una sorta di Vandea pedagogica è difficile negarlo.
Personalmente, però, non sono tanto preoccupato per le misure (o le
contromisure) che potranno essere prese sul piano istituzionale (ci
sarà, io mi auguro, tempo e modo di tornare su di esse, in sede
parlamentare, se e quando le cose cambieranno), quanto lo sono per il
tipo di autorizzazione che viene data a idee, concetti e principi che
fino ad oggi avevano scarsissima se non nessuna circolazione, almeno
tra le persone in grado di parlare (e scrivere) pubblicamente.
Sono insomma preoccupato per le parole che si sentono oggi e per le
ideologie che stanno riemergendo, dopo un lungo periodo (una
parentesi?) che ha inizio con gli anni Sessanta.
Un edificio nuovo (o ricostituito ad immagine dell’antico) lo si
potrà cambiare, le idee no, soprattutto quelle di bassa lega, quelle
semplicistiche: una volta che abbiano conquistata una legittimità ‘ufficiale’
faranno proseliti in ogni dove, e sarà difficilissimo levarsele di
torno. Se si dà la stura a certi discorsi (tipo: non si cava succo da
una rapa; non c’è modo di raddrizzare le gambe ai cani; e via
dicendo), non ci sarà diga che potrà contenerli.
Un esempio.
Uno solo tra i molti possibili.
Prendo l’editoriale domenicale del ‘Corriere della Sera’ (9
dicembre 2001), scritto da un nome di tutto rispetto (Alberto Ronchey)
e leggo: “… è manifesto che l'istruzione pubblica versa in un
cronico malessere, o è gravemente malata negli studi medi e
superiori. Fra le cause oggettive di simili condizioni, risultano
evidenti le insufficienze dei bilanci ministeriali e delle selezioni
sia tra gli studenti sia tra i docenti. Al di là d'ogni giudizio
sulle contestazioni attuali, si deve risalire all'origine del
dissesto, che fu dovuto all'ambizione ingenua o millantatoria di
elargire l'istruzione superiore per tutti o quasi dopo la «scuola
dell' obbligo» senza commisurare mezzi e fini”.
Mi chiedo: che cosa diventerà, questa idea, una volta che verrà
riprodotta e tradotta in linguaggi più correnti e meno contenuti?
cosa essa diventerà nella bocca dell’insegnante frustrato e
appesantito dalle novità del mondo? cosa ne sarà di quest’idea
quando, com’è prevedibile, resterà solo la prima parte della frase
(l’ambizione ingenua o millantatoria di elargire l’istruzione
superiore per tutti) e cadrà la seconda (senza commisurare mezzi e
fini)?
Un’ideologia non dissimile potrebbe venir fuori dall’opera di
circolazione e traduzione in senso comune dei contenuti del documento
Bertagna. E dovrebbe risultare non diversa da quella che aveva
cominciato ad esercitare la sua azione, anche all’interno dell’Ulivo!,
con le perplessità diffuse sul varo della riforma dei cicli, o anche
prima, con il rifiuto di discutere i criteri stessi di una possibile
revisione dei saperi scolastici.
Il disegno Berlinguer e soprattutto il suo demone (fare di una
primaria lunga il centro dell’edificio scolastico) sono stati
annullati da quello che si potrebbe chiamare ‘il movimento dei
licealisti’, dai difensori di un’idea riservata (e tutto sommato
aristocratica) di formazione secondaria, difensori che stavano e
stanno tuttora anche dentro il comparto universitario (basterà far
riferimento al penoso confronto, che si è prolungato nei mesi finali
della precedente legislatura, sull’opportunità di rivedere la
formazione universitaria degli insegnanti e renderla coerente con i
cicli scolastici, conclusosi con un nulla di fatto, cioè con il
mantenimento dello status quo e quindi anche con un pesante vulnus
inferto alla riforma universitaria)
A questo punto mi si potrebbe obiettare: come mai questi ‘licealisti’,
questi ‘secondaristi’ non reagiscono oggi alla proposta di
togliere un anno alla scuola secondaria superiore? come mai non
strillano come e più di quanto non hanno fatto con Berlinguer?
Perché, rispondo, il progetto nuovo dà a questi signori (di destra e
di centro e di sinistra) quello che di fatto essi vogliono: vale a
dire una scuola aperta solo a coloro che se la meritano, una scuola
per i felici pochi.
Può spiegare meglio questo passaggio?
Lo faccio subito.
Ti tolgo un anno, dice la Moratti al licealista, ma ti libero della
zavorra costituita dagli studenti incapaci e immeritevoli (che
verranno instradati nella formazione/avviamento) ed anche dalle
materie secondarie e manesche (che andranno nelle aggiunte
dopocurricolaristiche dei laboratori).
Dice di più, dice: “sta pure fermo, che fai bene!”. Cito dal
documento Bertagna: “Negli ultimi vent’anni, tutte le
ricerche di psicologia, sociologia ed economia dell’educazione hanno
dimostrato che la causa principale dei fallimenti scolastici non è,
in genere, la scuola, ma l’extrascuola, in particolare l’ambiente
sociale e familiare di provenienza degli alunni … Il sistema
educativo di istruzione e di formazione, dunque, sebbene desideri
interpretare il ruolo di Davide, è, nel complesso, perdente davanti
al gigante Golia dell’emarginazione sociale strutturale”. Dunque,
perché darti tanto da fare? Basterà riconoscere che le cose stanno
così, né possono andare diversamente: la scuola può fare poco o
niente, per cambiare le cose. Insomma, sei nel giusto a fare poco o
niente, o ad opporti a chi vuole cambiare le cose, caro insegnante.
Noi ti aiuteremo, in questo immobilismo, e semplifichiamo
ulteriormente il tuo lavoro, liberandoti della zavorra!
In questo, la Moratti assume i contorni di una Maria Antonietta alla
rovescia: “Loro (i comunisti, ovviamente!) volevano dare brioches,
io, con il tuo aiuto di insegnante immobile, darò ai giovani che
protestano/pretendono scuola quel che effettivamente meritano, cioè
il pane!”.
Ma, al di là di questo nucleo duro del documento Bertagna, il nucleo
di pedagogia aristocratica e della vocazione che ahimé rischia di
trovare consensi in ogni dove, c’è un altro aspetto che merita di
essere segnalato con accenti preoccupati e che fin qui non ho visto
messo in luce dai commentatori. E’ la chiusura totale e ferrea del
discorso entro i recinti della pedagogia e delle istituzioni
formative. Non c’è respiro storico, né cronachistico né tantomeno
epocale, in tutte quelle pagine. Non c’è il mondo di oggi, con le
sue urgenze e le sue fratture, non ci sono i movimenti attuali delle
cose, dei soggetti, dei simboli. Dire che così ragionando si torna
agli anni Cinquanta forse non è giusto: andrebbe riconosciuto che
così si va in un luogo senza tempo.
Un luogo dove sussiste solo l’intelaiatura (e non la sostanza, si
badi bene) della scuola-scuola. E sì che da ogni parte ci dicono che
dopo l’undici settembre il mondo non è più quello di prima: qui
invece sta andando a ricostituirsi come era prima di essere prima!
Si badi bene. Su questo fronte ‘pedagogico’ il documento tocca
livelli di cinismo che mai era capitato di trovare in testi simili.
Cito di nuovo: “In una società della conoscenza, nella quale ogni
organizzazione è e si fa comunicazione e intelligenza distribuita …
la centratura scolasticistica, con tutto il tradizionale armamentario
concettuale che l’ha finora seguita (separazione disciplinare del
sapere, antinomie epistemologiche del genere cultura umanistica,
cultura scientifica, cultura tecnico-tecnologica, rigidità dei tempi
e degli spazi, classificazione degli allievi per età invece che per
altri criteri qualitativi molto più flessibili, piani di studio
impostati per coppie oppositive quali discipline comuni e di
indirizzo, cultura generale e cultura professionale, sapere gratuito e
sapere utile) non è più accreditabile”. Sul piano concettuale,
condivido pienamente questo ragionamento, ma personalmente lo intendo
come invito a cambiare impianto della scuola; qui invece viene usato
(lo ribadisco: cinicamente) per mostrare la valenza positiva dell’alternativa
alla scuola costituita per un verso dai luoghi della formazione e per
un altro verso dalla possibilità di far prevalere su tutto la logica
delle certificazioni delle competenze (insomma, ancora una volta:
gloria a Golia).
Come prevede che andranno avanti le cose, nel medio periodo?
In questi giorni possiamo vedere, per esempio sul fronte
giudiziario, come l’allontanamento dalle prospettive europee non
costituisca un problema per l’azione del governo. Molto del
cambiamento introdotto nei comparti scolastici e universitari nel
corso della precedente legislatura è stato fatto in relazione ad un’esigenza
di allineamento a standard internazionali, comunque europei. Si
pensava ad una sorta di ‘moneta unica formativa’.
Le cose, certamente, possono cambiare, anche le scelte politiche di
fondo possono mutare. Mi sembra che l’inversione di tendenza sia
già in atto.
Lo si constata apertamente sul fronte universitario.
Qui la riforma era andata più avanti di quanto non aveva fatto quella
scolastica, dunque non poteva essere fermata dal nuovo ministro. E
così è stato. Ma ci sono altri mezzi per impantanare un processo:
dal non alimentarlo, al delegittimarlo, fino al lavorarvi contro. E’
quanto mi sembra si stia facendo dal MIUR in questi delicatissimi mesi
di avvio dell’innovazione didattica universitaria. Restrizioni
finanziarie, accuse di parzialità politica rivolte agli atenei
(impegnati ad attuare, si badi bene, non un progetto dei comunisti ma
una legge dello stato!), messa in forse di quei presupposti di
continuità che garantiscono alle università, ora autonome sul piano
finanziario, la possibilità di pianificare le loro attività. Strette
come sono tra vincoli di attuazione dei nuovi ordinamenti inutilmente
capziosi e defatiganti (regalo del precedente governo) e segnali di
smantellamento e di congelamento (provenienti dal nuovo) le
università rischiano di trovarsi nelle condizioni di quei cani del
laboratorio di Pavlov che ricevevano alternativamente un rinforzo
positivo e uno negativo allo stesso stimolo e sui quali si attuava la
produzione sperimentale di nevrosi.
Cosa capiterà nella scuola? Il rischio più grosso è che avvenga
quello che sta già accadendo nelle università: disorientamenti e
lacerazioni profonde, nevrosi insomma, che potranno essere il
risultato delle azioni mirate, dirette come indirette, di
delegittimazione dell’istituzione.
Dobbiamo metterci nelle condizioni di prevenire e annullare questi
fenomeni.
Lo possiamo fare aumentando il tasso di criticità (e autocriticità)
della nostra discussione e della nostra azione.
r.maragliano@uniroma3.it
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