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Buono scuola e diritti

di Beatrice Mezzina

Il "buono scuola" della Regione Puglia provoca risentimenti e opinioni diverse. Forse sarebbe il caso di impostare la questione con laicità, tenendo chiari i punti di vista a partire da alcune distinzioni di fondo a cui far sempre riferimento quando l’accumularsi di riflessioni su un problema rischia di snaturarne la stessa proposizione.

L’idea di buono scuola è tipica di una concezione liberista e di libero mercato anche per quanto riguarda la scuola. Lo Stato è sempre meno presente nella offerta di servizi in strutture che agiscono in nome e per conto dello Stato, si prevede un prevalere di strutture private che offrano servizi di carattere pubblico in libera concorrenza; anche la scuola, intesa come un servizio offerto alle famiglie, proponendosi alla scelta attraverso l’offerta di formazione, perde progressivamente il carattere di Istituzione dello Stato. I finanziamenti in questo processo possono spostarsi verso l’utente che a sua volta compra il servizio che sceglie.

E’ un principio liberistico, per altro proposto per molti altri servizi tra cui la sanità, che mira agli utenti potenziandone il potere di scelta, che fida sullo stimolo della concorrenza e della imprenditorialità e sulla regolazione del mercato.

Non è andata sempre così e anche nei paesi in cui si è maggiormente sperimentata questa via, si torna in dietro. Di fatto, in campo culturale ed educativo, si sa che i bisogni di formazione sono più alti nelle persone già formate e che compito della scuola non è solo quello di rispondere ai bisogni ma di promuoverli, di sollecitarli, di indurli a volte. Il mercato di fatto rende elitaria la formazione e abbassa il livello dei più deboli. I ceti più forti scelgono sempre meglio e quelli più deboli di fatto non scelgono e prendono le offerte di cattiva qualità. Non a caso anche l’amministrazione Bush si pone con forza la questione della formazione negli Stati Uniti che importano cervelli da tutto il mondo e riescono mediamente a formarne non in quantità sufficienti per i bisogni della ricerca.

In Italia l’idea di buono scuola si è innestata sulla vexata quaestio - scuola pubblica e scuola privata. Con i governi ulivisti la legge sulla parità prevedeva che alcune scuole private potessero richiedere la parità offrendo particolari garanzie di qualità per diventare parte di un sistema di pubblica rilevanza; la norma cercava di quietare l’annosa questione delle scuole private soprattutto come risposta alle richieste della parte cattolica del governo. Successivamente, il buono scuola di alcune Regioni, dato alle famiglie per coprire gli alti costi delle tasse scolastiche, di fatto è risultato un grosso sostegno alle scuole private, le uniche ad avere un costo alto.

Nella realtà specifica della scuola italiana, con una scuola pubblica complessivamente di buon livello con una percentuale altissima di studenti rispetto a quelle private, non è certo preoccupante la parità per le scuole cattoliche, spesso ottime scuole di tradizione, con grandi esempi di impegno culturale. Preoccupano invece i diplomifici, quelli cui si rivolgono coloro che hanno difficoltà con la scuola pubblica per comprare un percorso scolastico con scarsissime competenze e ottimi voti.

E purtroppo, il deterrente alla scelta di queste scuole non sono le basse competenze che si acquisiscono ma le rette altissime. Quanti studenti, già da ora , alla prima difficoltà chiedono alla famiglia la scuola più facile come si fa per un motore o per una giacca di pelle, senza costruirsi il carattere e la forza di superare gli ostacoli? Quanti adulti senza diploma si rivolgono ai diplomifici, visto che in Italia è scarsamente attivata una proposta diffusa di formazione permanente sulla base delle esigenze degli adulti?

E’ con questa realtà che bisogna fare i conti, con la realtà effettuale e non con la immaginazione di essa, come diceva Machiavelli.

Il pericolo è che con il buono scuola si implementino scelte di comodo e di forte penalizzazione del livello culturale della nazione.

La scuola non è di chi la sceglie e di chi la istituisce, è un valore nazionale, non solo un servizio da comprare. La nostra scuola è ancora una Istituzione della Repubblica, è la scuola della Costituzione, garantita costituzionalmente perché non diventi appannaggio di questa o quella maggioranza; vi sono garantiti spazi di liberi comportamenti, libertà di insegnamento, pluralismo, uguaglianza e tutela delle differenze, uguale possibilità di accesso e diritto di tutti alla cultura, per elevare il livello culturale dei cittadini. Nonostante le difficoltà e i ritardi.

Allora la scuola è una questione nazionale. E’ di interesse prioritario per una società riflettere sulle finalità della scuola e sul suo ruolo di miglioramento della società, di garanzia per tutti i cittadini, anche per quelli che saprebbero scegliere poco.

Prioritario diventa il fatto che lo Stato garantisca il funzionamento di tutte le scuole pubbliche, se mai con finanziamenti mirati per quelle scuole che sono in zone più depresse e più a rischio se mai con meno laboratori o con peggiori strutture, per garantire la funzione nazionale di sviluppo culturale per tutti. Oltretutto, alcuni difetti di uniformità e apatia insiti in un sistema uniforme possono superarsi con quanto propongono i passi migliori della complessa legislazione sulla Autonomia, liberata dai lacci burocratico gestionali, che può rendere le scuole più agili e responsabili.

Da queste questioni, se pure semplificate per necessità di spazio, bisogna partire dunque per ragionare sulla proposta della Regine .

La norma della Regione Puglia che assegna fondi alle famiglie con reddito fino a trenta milioni per un sostegno allo studio indipendentemente dalla scuola frequentata, pubblica o privata, non sembra contestabile in linea di principio, né lesiva dei diritti di chi frequenta la scuola pubblica, allo stato attuale. Non è come la proposta della Giunta Lombarda che attribuiva il contributo per pagare le tasse scolastiche, di fatto finanziando solo le famiglie paganti le alte rette delle scuole private, visti i bassissimi costi delle tasse della scuola pubblica.

Si spera che i fondi messi in conto dalla Regione potranno essere utilizzati in libri di testo o strumenti didattici che pesano notevolmente sulle famiglie; è sperabile che non possano essere utilizzati come contributi per tasse scolastiche perché allora si andrebbe surrettiziamente a finanziare le scuole private, quelle più care - le peggiori spesso - che vendono di fatto i titoli di studio per cui gli studenti non comprano i libri di testo e studiano su qualche sparuta fotocopia..

Si auspica poi che la Regione Puglia sui temi dei diritti, in particolare sul tema del diritto allo Studio che come tanti temi investe direttamente la vita e i diritti delle persone, possa avere un confronto più aperto e di riflessione comune, anche con incontri di coordinamento e collegamento con le scuole e le associazioni degli studenti e dei genitori, per una politica organica e quanto più possibile condivisa che superi ritardi e carenze. Si può parlare più diffusamente di diritti della persona invece che di buoni e scegliere percorsi lineari e politiche formative meno estemporanee?

I nodi relativi alla scuola, le riflessioni e le scelte, toccando diritti costituzionalmente garantiti, non possono essere appannaggio solo delle maggioranze ed essere gestiti con buoni da supermarket..


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