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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Note al Progetto "Buonsenso per la Scuola"

di Gabriele Attilio Turci

Il richiamo che  proviene alto, insistito, dalle pagine del documento è, fondamentalmente quello di agire, citando Bertagna,  sotto  la matrice dello Zelos, antitetico allo Ftnonos che,  non a caso, si chiarisce che etimologicamente sta per  “invidia dell’avversario”.

Non basta: anche  la struttura ideologica deve essere lasciata da parte per sfrondare ogni pregiudizio sia in campo pratico che nella discussione teorica.

Pasquale D’Avolio, in una prima appassionata, densa e ragionata risposta (vd. I Rischi e la Sfida) prova a stare a questo gioco, anche con una certa naturale disinvoltura, premettendo, certo non a caso, una citazione gramsciana a sostegno del suo Zelos.

Ora la citazione parla di ricerca scientifica e certo per la scuola essa è cosa buona e giusta pur se qui siamo in un campo multifattoriale dove la politica, l’ideologia come senso del sé e del collettivo, la spiritualità dei singoli, le storie, i percorsi, si aggrovigliano inesorabilmente.

Non può essere che così. Ogni cultura ha le sue scuole, spazi non separati ma tuttavia rituali, dove il collettivo proietta l’immagine del suo futuro. In ogni cultura il governo della scuola è sempre stato avvertito come essenziale dalle classi dominanti.

La cosa in sé non è scandalosa, è sicuramente storicizzabile, e in una società repubblicana e democratica, o che almeno tende ad esserlo,  la gestione dei controlli d’indirizzo può certamente essere sufficientemente corretta.

Tutto questo per dire che l’impianto ideologico non è a prescindere e non è neppure malvagio che sia evidente, anzi è decisamente opportuno che non sia nascosto.

Tutto il documento del Collettivo, cui questo termine un po’ sessantottino starà forse stretto, è sicuramente intessuto da impronte e schemi ideologici molto precisi.

Vi si può scorgere, quanto a sguardo economicistico, la scuola di Hayek; il principio di sussidiarietà poi, in senso economico, politico e culturale, sottende ogni pagina, quantomeno sino al capitolo 1.1.3. e qua e là nei capitoli 2 e 3.

Così come, apertamente,  si proclama l’adesione convinta  agli accordi di Lisbona e per converso al Libro Bianco sulla scuola della UE, piuttosto che far emergere qualche contenuto sviluppato nella cultura della politica educativa in Italia magari, perché no, all’interno delle tradizioni e pratiche cattoliche o di quelle liberal-socialiste.

Il gruppo redazionale è, con evidenza, un collettivo di pensatori liberali, la cui provenienza, per alcuni, dal mondo della sinistra storica, è oggi ininfluente.

Per gli uni e per gli altri, Pasquale d’Avolio rigetta il termine di “traditori”. Sono d’accordo, fra l’altro, nella sinistra storica, vasta è stata la schiera  di coloro che, individualmente o come organizzazione, svolsero il ruolo di soggetti “opportunisti”, nel senso bordighiano del termine, quindi politico, marxiano e non, pertanto, in senso etico, più semplicemente potrebbero essere definiti come i regolatori dell’esistente.

I tempi presenti mostrano una legione di simili soggetti politici, complice anche la presunta caduta delle strutture ideologiche che, semplicemente, stanno inesorabilmente riproducendosi come i polloni ai piedi d’un albero, numerose, molteplici, fitte, solo apparentemente simili.

Certamente le ideologie dei tempi presenti non sono assolutamente le stesse di soli quaranta o cinquant’anni fa, tuttavia ne sono figlie o figliastre, derivazioni che promanano come un fiume carsico, illudendo, talora, d’essere totalmente cosa nuova ma sovente si tratta d’abiti dismessi da un pezzo che ricuciti e rimodellati, rivoltati e rilavati, mostrano talora tessuti e fibre resistenti nella storia.

Non pare pertanto condivisibile questa  condivisione della morte delle ideologie o quantomeno della necessità di un loro superamento che pare trasparire a tratti dal documento del Collettivo.

Una spia di questa posizione appare, fra l’altro, anche  nel cap. 1.1 (allargare il consenso…) dove l’accettazione del modello culturale e politico del sistema bipolare appare come un dato di fatto ineludibile, definitivo e forse anche indicatore di progresso.

Per chi concepisce la politica come l’arte della mediazione, non sono ininfluenti i sistemi costituzionali e i rispettivi criteri di ricerca della rappresentanza.

Chi scrive è persino convinto che da una visione bipolare della politica, derivi anche una visione dell’educazione e della scuola che, necessariamente, contrasta con quella derivante, per esempio, da una visione proporzionalista e fondante sulla politica come ricerca del miglior compromesso fra le parti.

Dirò di più, a mio parere e in contrasto con quanto affermano  i redattori del Progetto, in linea di principio le politiche dell’istruzione e della formazione non possono stare nel campo delle  opzioni “partisan”.

La scuola, le sue prospettive, il progetto sul futuro che in essa è deposto non possono essere lasciate ad una parte politica per vedere poi l’effetto che fa.

Certamente nella storia del regno italico prima,  tralasciando la parentesi dittatoriale, e venendo poi  alla fase repubblicana, la scuola ha via via assunto la faccia che le classi di governo le sostanziavano, in questo senso certo può dirsi che avemmo una scuola liberale,  come poi una scuola democristiana, prima che si potesse dire, ed ancora non si è potuto del tutto, che  si fosse di fronte ad una scuola repubblicana.

Le accuse che, ad esempio, don Milani produsse sull’esclusione scolastica, provenivano certamente da una scuola privata ma che era tale per necessità, che voleva che il pubblico si sostanziasse sulle radici costituzionali, che la scuola di stato, insomma facesse il suo mestiere.

Lo stesso dicasi per le posizioni, certamente non maggioritarie, ma non minori ed  egualmente significative dello MCE, della scuola dei laboratori. Tutte queste esperienze concorrevano a tracciare un filo rosso dove la visione della scuola repubblicana fosse un percorso di crescita civile, un’arena di confronto sociale, una messa in campo delle strutture ideologiche.

Non  per caso nel nostro paese e solo in questo, raffrontato all’Europa, si sono prodotte leggi di attenzione ed inclusione dei cittadini portatori d’handicap all’interno del tessuto scolastico. Questi impianti legislativi non erano e non sono  appendici ininfluenti di un sistema ma ne sono direttrici, indirizzi, progetti, indicazioni di senso e di prospettiva, non è per caso, quindi, che su questi elementi, sulla loro concreta attuazione, da anni, anche con il centro sinistra, si abbatta la scure delle ristrettezze di bilancio, del ridimensionamento, sino alle incredibili, persino  arroganti ed offensive parole, del cosiddetto esperto ministeriale Draghi.

Tuttavia si dovrà almeno concedere che ad una posizione che accetta supinamente che un’opzione partisan prevalga sull’altra, intorno alla definizione del sistema scolastico, possa almeno coesistere una posizione che quest’ultimo vorrebbe  poter credere e vedere quale espressione del cammino di un popolo, luogo dove si fondono gli opposti, non per un facile irenismo, ma perché spazio di ricerca, costruzione di percorsi dove si privilegi la curiosità intellettuale, amore per la vita, rispetto per l’altro, sia esso lo straniero o il differente da sé.

Come da questa lunga premessa può evincersi, vi sono nel documento almeno tre piani di osservazione: quello della discussione scientifico-pedagogica, quello del modello politico, quello della dimensione etica.

Tralascio, per il momento quest’ultimo che soffre poi della minor citazione. Mi riservo di riproporlo alla fine in quanto voglio che le mie osservazioni, pur critiche, siano accolte, per quanto possibile, con pensieri il più possibile scevri da pregiudizi.

Proseguo quindi sul piano politico dove vorrei ancora osservare come la presa di posizione unitaria di uomini che sembrano provenire d’ambiti culturali differenti sembra porsi sulla traccia dell’ideologia dello spirito “bipartisan”, suggestiva, per certi versi, ma qui non siamo, come nel ’46, in una fase costituzionale successiva ad una rivoluzione o ad un bagno di sangue, qui ed ora, siamo immersi in una palude di oscuri poteri contro i quali non solo il mondo della scuola sembra muoversi come don Chisciotte e Sancho Panza.

Bisogna tuttavia, prima di tutto, affermare chiaramente una cosa che andrebbe gridata dai tetti: sia la riforma Berlinguer che quella Berlusconiana, nel quadro di una oggettivabile continuità, (ottimo a questo proposito il bel, pur se rassegnato, saggio di Paolo Ferratini) puntano prima di ogni altra cosa ed in modo assoluto, definitivo ad una drastica diminuzione delle spese attraverso una taglio del personale.

Vien da pensare che sia in questo senso che Giuliano Ferrara definisce “strategica” la riforma morattiana della scuola.

E’ già stato dimostrato come, conti alla mano, nella scuola italiana, dalla gestione delle mense, al recupero scolastico, al sostegno alle situazioni di handicap, il personale docente sia in prima linea a fronte di servizi similari, gestiti in altri paesi o dalle amministrazioni comunali, o da quelle regionali. Solo questo dato ridimensiona  in maniera estremamente significativa il cosiddetto  abnorme rapporto docenti/allievi.

Un elemento di forte continuità, presente platealmente in entrambi i progetti di riforma,  manifesta quanto si afferma: l’attacco forsennato alla scuola primaria.

Questa che aveva ottenuto, negli anni, preziosi riconoscimenti da organizzazioni sovranazionali oltre che dalle famiglie, scopriva di dover riformulare tutta se stessa a fronte di una notevole restrizione dei posti di ruolo e di modifiche significative dei criteri organizzativi e didattici.

Non c’è stata ragione: si era deciso di tagliare e ora si procede. Aumento sconsiderato degli allievi nelle classi, anche in presenza di portatori d’handicap, diminuzione del personale loro assegnato, lotta senza quartiere al Tempo Pieno, Tempo Prolungato, ecc.

 Sul numero degli allievi per classe viene in mente la vecchia osservazione del militare Baden Powell, fondatore dello scoutismo: “io credo che si riesca a lavorare bene con sedici ragazzi, solo così si fa educazione, diversamente è addestramento militare….” (dal Libro dei capi). Peccato che un militare, cresciuto in età vittoriana, avesse più buon senso e sensibilità di tanti  “maitres a penser” seguiti negli anni.

Nessuno sente ragioni, ma questi pensatori del buonsenso hanno mai provato a stare in continuità dentro una classe? Hanno sperimentato in questi ultimi dieci anni, quanto la popolazione scolastica sia mutata di senso, di interessi  e di capacità di applicazione al lavoro?

Certamente vi sono elementi che possono essere rivisti, si può discutere, ad esempio sulla presenza dei docenti nelle mense scolastiche in funzione di vigilanza. Non si vuole che questo servizio sia più appannaggio della classe docente? Ebbene lo si dica apertamente, ma altrettanto apertamente si riconosca quali sono le conseguenze, sia in termini di modificazione dell’impianto educativo (quante cose si apprendono  a mensa con gli allievi!), sia  in ordine alla modifica delle piante organiche (perdita di posti nello stato,  necessità d’istituire posti da parte di enti locali). Se poi lo stato non garantisce più il servizio chi se ne fa comunque carico come lo  amministra economicamente?

La questione delle mense non è poi così leggera, almeno dal punto di vista degli allievi; questi  vi consumano cibi per larga parte dell’anno. Si vorrebbe, da parte del potere politico, che anche sull’educazione alimentare, la scuola promuovesse campagne di prevenzione sanitaria, ma qualcuno ha mai fatto uno studio approfondito su come tali ambiti scolastici siano  gestiti quanto a spazi, tempi, suppellettili, tralasciando talora anche i menu? E che diventeranno le mense scolastiche se finiranno in appalto a servizi dotati di personale ultraprecarizzato? Si ha coscienza di come procede la manutenzione ordinaria e straordinaria nelle scuole? Attraverso quale personale e con che mezzi e sovente anche  risultati?

D’altra parte questa generazione non sembra né avere fame di pane e companatico,  né fame  di cultura. Basti un solo esempio: il rifiuto del cibo nelle mense, la schizzinosità, la rigidità mentale che porta a rifiutare il gusto ed il sapore  nuovo, la facilità con cui si gettano e distruggono bicchieri, piatti in plastica ed il loro intatto contenuto.

Certo, come sempre, il dato non è generalizzabile, ma è una traccia molto ben presente e mostra un disagio ed una sofferenza cui la scuola vorrebbe rispondere ma cui può opporre, sovente, timidi vagiti, eroismi individuali, aggiustature momentanee, abbandonata in questo travaglio da enti locali strangolati e da una politica  che dedica più tempo all’acquisto di  carri armati e caccia-bombardieri, utili, come si sa alla crescita ed alla vita delle persone.

Tuttavia alcune contraddizioni sono presenti in questa politica di tagli forsennati: i finanziamenti alla scuola privata e il riconoscimento giuridico degli insegnanti di religione.

Parlare di queste cose  a chi considera tali temi delle “dispute” superate,  discendenti da  “…contrapposizioni ideologiche invecchiate ed immagini di una realtà che non ce più…” è francamente cosa ardua, tuttavia avendo già sperimentato tale fatica anche con forze e soggetti del centro sinistra, non ci si scandalizzerà più di tanto, tuttavia vorremmo consigliare a tutti di considerare con più attenzione i valori fondanti della scuola di stato che appunto non dovendo essere, a differenza delle private, scuola di tendenza dovrebbe salvaguardare come un bene prezioso lo spirito laico che piuttosto  poteva e doveva condurre  ad una diffusione di massa della conoscenza della cultura religiosa attraverso l’istituzione (facilmente all’interno del corso di storia, attraverso un orario più dilatato) della disciplina di storia delle religioni.

In questo una riforma della scuola sarebbe veramente rivoluzionaria: come è oggi possibile avere cittadini che  non solo non hanno mai avuto occasione di leggere il Corano o i testi vedici, ma di più e con vergognosa ignoranza, nulla sanno dei testi sapienziali,  della genesi dei vangeli,  di tutto quel tessuto  e di quel respiro spirituale che da oriente muove nel mediterraneo e ha scosso le coscienze da almeno tremila anni. C’è veramente da preoccuparsi se si pensa al monte ore complessivo che la chiesa cattolica accentra monopolisticamente nella scuola con risultati culturali, quanto a competenze e conoscenze, decisamente poi irrisori o disprezzabili.

La difesa del finanziamento delle scuole di tendenza, pateticamente difeso dal  “collettivo” come escamotage anche per spendere di meno, dovendo rispondere ad un dovere costituzionale di assicurare la formazione scolastica a tutti i cittadini (art. 33) e, maggiormente,  l’obbligo di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza di tutti i cittadini (art. 3), è un maldestro tentativo di far passare modifiche sostanziali del dettato costituzionale, mascherandosi anche dietro obblighi internazionali quali sarebbe il Concordato.

Nessuno, in Italia, ha mai pensato, anche in termini concordatari, che il problema poteva risolversi, come in Francia, concedendo un  pomeriggio alla settimana di sospensione delle lezioni per dar modo alle varie confessioni religiose di esercitare, presso le loro sedi,  opera di formazione  morale e religiosa. La messa in ruolo dei docenti di religione è certamente una forzatura del Concordato, anzi un vero e proprio concedere quello che non c’è, un tentativo di far diventare curriculare una materia che tale non doveva essere.

Quando poi anche le comunità mussulmane chiederanno identico trattamento il cerchio sarà completo, salvo magari finanziare, come in Belgio, direttamente le loro scuole coraniche ed i loro docenti.

Sul piano delle contro-osservazioni politiche alle  tante asserzioni che  politicissime sono ed abbondano nel testo, va sottolineato che le critiche ad una “…lunghissima stagione consociativa,,,” portatrice di immobilismo dovrebbero spiegare come mai si sono prodotte le riforme della scuola media unica, le due fondamentali per la scuola elementare,  gli ordinamenti per la scuola dell’infanzia.

Va da sé che  riforme non vi sono state nella scuola media superiore salvo le turbinose pagliacciate per l’esame di stato che hanno finito, via via, ministro dopo ministro, per accontentare gli appetiti delle scuole private, eliminando ogni forma di controllo.

In questo quadro, procedendo puntualmente  capitolo per capitolo va segnalata la smithiana professione di fede nel mercato, nella sua mano invisibile che attraverso un mix di flessibilità, competenze multifattoriali, abbandono del “lavoro fisso… oggi il lavoro ha caratteristiche di flessibilità ed instabilità..” (cap. 3.2) (non si è dimenticato proprio nulla!), disegnano  una scuola che deve scoprire fra i suoi fini primari proprio il farsi partecipe di politiche nazionali e transnazionali che puntano proprio a disgregare la forza lavoro, a porla in una posizione  di forte subordinazione e, pertanto, la scuola viene vista come il luogo dove tale prospettiva è accettata come un  fatto in sé, immodificabile, naturale.

Una volta si parlava a questo proposito di falsa coscienza, oggi si deve ben dire che ha invaso le teste di tanta parte della cosiddetta intellighenzia  del paese.

A parte il fatto che fa sorridere il pensare che un medico si metta a far scarpe o a portar lettere o che un avvocato o un giudice avviino una panetteria, la realtà è prosaicamente più banale: una selezione di classe che comunque ritornerà perché non saranno l’avvocato, il medico, l’ingegnere che dovranno cambiar mestiere, ma la moltitudine  di uomini e donne  addetti  alle mansioni di grado più semplice, tra le quali, va detto con riconoscenza, i nostri includono anche i docenti (vedi cap. 3.3) che potranno, una volta espulsi dal bozzolo caldo della scuola di stato, applicarsi nel “…settore della formazione permanente,  in quella professionale di secondo livello o, più genericamente, nella formazione extrascolastica…”

Volendo  precisare ancora si ponga attenzione  alla citazione  della parola “economia” nel contesto della breve analisi sul postfordismo (cap. 1.5).

Ora l’economia non è una parolaccia, l’economia di una nazione è giusto stia a cuore a tutti i suoi abitanti, così come la scuola, particolarmente quella più vicina a quelle che saranno le scelte per la vita, è bene sia vigilante e  ricca di opportunità, tuttavia, lo si consenta, non convince del tutto  quella  affermazione  concernente il “soggetto/lavoratore”, fra l’altro è anche poco simpatica e vien da domandarsi: è da attribuirsi a tutti tale qualifica o piuttosto è riservata  a coloro che saranno immersi nella specializzazione flessibile, nell’organizzazione piatta,  nelle sfide della qualità del prodotto?

Non è che per altri e ben più garantiti settori del mondo del lavoro si debba invece parlare di quella che io definisco la “sindrome di Piero Angela”? (per comprendere il suo manifestarsi basti pensare al lavoro che svolge il figlio di Piero Angela…). Insomma la scuola non può essere la vestale del presente storico, come neppure del passato. Io credo dovrebbe saper pensare il futuro e quando questo è da alcuni prospettato oscuro ed opprimente, perché la scuola deve solo cercare di adattarvisi?

Gli autori del Progetto citano (cap. 3.2)  un don Sturzo del 1950 “in Italia non solo non è libera la scuola in genere, ma non è libera neppure la scuola che dipende dallo Stato. Questa è burocratizzata, dalle elementari alla media e sotto molti aspetti anche alla universitaria. Libri di testo, tasse scolastiche, nomine di insegnanti, trasferimenti, esami, concorsi, licenze, permessi, pensioni, tutto è statizzato. Non c’è nessun momento della scuola che non sia regolato dall’alto, uniformizzato, mortificato. Quell’esercito di insegnanti alti e bassi (sotto il fascismo vestivano divisa militare) che dipendono dal Ministero della P.I. non debbono avere cervello proprio o volontà propria. Debbono pensare o volere come pensa e vuole la burocrazia centrale”. La citazione serve, agli autori, di premessa per arrivare al finanziamento delle scuole private. Qui mi par giusto ricollocarla in un contesto più proprio, in una descrizione della scuola che non può mai essere di regime, o almeno deve sforzarsi d’esserlo mai.

Se queste parole le avesse scritte o pronunciate Francisco Ferrer, difficilmente qualcuno avrebbe potuto trovarle estranee al grande pedagogista!

Tralasciando altre innumerevoli osservazioni attinenti e convergenti con quelle appena sostenute, anche per  entrare direttamente nei temi, va ora affrontato il terzo piano di discussione: quello  didattico-pedagogico.

In questo piano è possibile la concessione di qualche centratura dei problemi. E’ innegabile una cesura fra la scuola e la cultura generale del paese. Vi sono certamente altri soggetti, oltre alla scuola, che cooperano alla formazione dello sguardo sul mondo.

Dire che i media, la televisione in primo luogo è uno di questi attori, è affermare cosa risaputa e sperimentata. Che la scuola non sia più vista come  l’unico spazio di  elevazione sociale, anzi talora è vissuta persino come un fastidioso impaccio, è altrettanto notorio. Si potrebbe persino giungere a dire che la scuola debba essere concepita come uno spazio dove la riforma di sé  stessa è sempre in divenire.

Nel documento la parte dedicata ai temi pedagogici è probabilmente quella che meno presta il fianco a critiche insistenti. Probabilmente  ciò è dovuto all’ambito professionale degli autori e qui vorrei sottolineare che ciò è un bene.

L’ambito pedagogico didattico, infatti, può essere un buon punto di partenza per verificare  l’esistenza di punti di contatto pur tra prospettive ideologiche diverse.

Del resto proprio questo è sempre stato il dato positivo della scuola di stato. La  collaborazione tra professionisti di diversa opzione culturale e politica. Un atteggiamento ed un abito mentale costruiti più nella scuola primaria ma che iniziavano anche a dar mostra di sé nella scuola media inferiore ed anche  in esperienze significative di istituti liceali e tecnici.

Sotto questo profilo credo debba essere registrata favorevolmente la dichiarazione che i membri del collettivo fanno d’essere disponibili alla ricerca di punti di prospettiva comuni per avviare un movimento di riforma che comunque ha la necessità d’essere avviato.

La preoccupazione, che spero sia in essere anche agli estensori del documento, e che in altre sedi m’ha fatto produrre anche osservazioni ben più critiche e sferzanti di quelle qui presenti, è che dietro una tale posizione non si nascondano quelli che intendono forzare la mano, regolare i conti di sconfitte a loro parere subite,  volgere  la prua verso il passato di una scuola selettivamente di classe, più da statuto albertino che da repubblica postfascista.

E’ pertanto opportuno, metodologicamente, tracciare le linee di convergenza e quelle di divergenza cercando di evidenziare i rischi educativi che si pensano connessi alle seconde.

Centrali sono, nel documento, la questione della formazione professionale,  dell’abbandono scolastico, della dispersione.

Non si può che convenire sull’esistenza patente di tali temi a significazione di un reale fallimento della  scuola statale in questo campo. Certamente le colpe non sono solo dentro l’istituzione, ma è certo che dopo la grande riforma della scuola media unica non si è apprestato un percorso che meglio definisse fasi, sviluppi, direttrici dell’orientamento.

Che qualcosa sia inceppato è segnalato da tempo. Bene fanno gli estensori del progetto a segnalare (cap. 1.6) gli elementi drammatici di una esclusione, di fatto, dai diritti costituzionali, occorrerebbe chiedersi se le soluzioni stiano tutte dentro le ipotesi di riforma sino ad ora formulate.

Porre mano ad una riforma che deve mediare anche con le modifiche già in atto, al titolo V della Costituzione non è cosa semplice, ma non è neppure impossibile.

Certamente occorre riformulare le strategie di approccio alla formazione professionale partendo in primo luogo dal superamento culturale e di senso della cesura fra il sapere ed il lavoro, operazione questa che deve investire tutta la scuola, partendo dalla primaria ma con necessità di rimodellamento profonde nella scuola media inferiore, in primo luogo, e nei cosiddetti bienni di collegamento pensati da Berlinguer e fatti propri, solo in parte, dalla Moratti. Ovviamente il discrimine  rimane quello di non formulare ipotesi di  apprendistato gratuito legalizzato, anzi questo è il vero problema.

Se si pensa alle idee che Ernesto Rossi formulava intorno ai cosiddetti “lavori di massa” ci sono spazi per una educazione al lavoro, intesa come acquisizione di competenze organizzative, approccio ai problemi sociali e di relazione anche sindacale, tali che  attività di tutela ambientale, conoscenza del territorio, appoggio  nelle relazioni sociali,  potrebbero essere utilmente svolte da una organizzazione del volontariato giovanile che assumesse anche il coordinamento di una relazione efficace scuola-lavoro.

Certamente occorre anche una dimensione pratica dell’esercizio del sapere tale che, come affermava il Dienes: “…si possono conoscere i polinomi, ma se non so costruirmi una cuccia per il cane, non so nulla di matematica…”. In questo la scuola dei licei è estremamente carente ma occorre convenire che  introdurre elementi di laboratorio, intesi anche come fruizione pratica di conoscenze offerte anche dal territorio, costa in termini di tempo ed anche di denaro.

Riportare il lavoro nella scuola non è poi una novità, in Italia vi fu un tentativo, anche persino durante il fascismo, promosso sotto il ministero Bottai e che fu teoricamente redatto dal Mazza  in un corposo testo: “la disciplina della squadra”.

Successivamente  le aree di pensiero pedagogico innestate sui filoni delle scuole attive francesi o di impronta marxista sollevarono metodologicamente il problema, proponendo e vivendo, spesso, la realizzazione di esperienze di scuola dove il lavoro inteso come esperienza del crescere nel fare e del pensare nell’agire, era presente e centrale.

Il tema quindi non è nuovissimo, l’urgenza c’è tutta, di più  in questa scuola che, repubblicanamente, dovrebbe  tendere al completo sviluppo delle potenzialità d’ogni cittadino.

Il documento dei redattori del Progetto  si limita a fornire criteri generali più che a scendere nei dettagli, quasi fosse una bozza di stesura di principi informatori.

Proprio quello che una legge di riforma dovrebbe essere, lasciando poi alle singole scuole il dovere di attuare quegli stessi principi, in un quadro di efficace fornitura di mezzi e sistemi.

Il di più che è presente sinora negli intenti legislativi e che  anche il Collettivo sembra prediligere è la significativa apertura al mondo dell’impresa.

Ora ciò di per sé  non può essere inteso come un criterio diabolico, chi scrive ritiene che l’impresa non sia un male in sé, il problema è capire a che titolo, con quali progetti, secondo quali fini, l’impresa ha interesse ad entrare nel mondo della scuola.

Quest’ultima ha mostrato di non credere, quantomeno tra la componente insegnanti,  in un simile approccio, temendo che siano così introdotti i meccanismi di certificazione della qualità o della divisione del lavoro tipici dell’impresa.

Si afferma  inoltre che l’impresa non può trovare nella scuola un bacino per allargare i profitti di gestione.

Certamente queste osservazioni sono convincenti sul piano della tutela e della salvaguardia dei diritti del lavoro, che sono, innanzi tutto, i diritti dei lavoratori.

L’introduzione di contatti tra il mondo delle imprese o delle strutture  anche pubbliche di servizio nella scuola non potrà e non dovrà mai portare all’introduzione della figura di lavoratori di serie b. Gli studenti restano, tali anche  nella loro fase di conoscenza dentro l’impresa.

Non dovrà mai darsi una loro funzione suppletiva della forza lavoro, questo è certo, anche se  dovranno darsi criteri diversi fra chi sceglie percorsi più diretti al proseguimento degli studi in ambito universitario e chi, invece, intende, da maggiorenne, terminato l’obbligo scolastico, entrare subito nel mondo del lavoro.

In questi casi  a fronte di stage di formazione che,  di fatto, introducano elementi di sostituzione  di personale,  dovrà essere riconosciuta agli allievi una fase di apprendistato da  porre in credito all’atto dell’assunzione al lavoro e che dovrebbe anche vedere riconosciuto l’aspetto di  riconoscimento economico tale e quale  quello stabilito da norme contrattuali.

L’ambito della certificazione di qualità e delle valutazioni  sia del percorso scolastico che dei processi didattico-educativi è invece una  questione più complessa che ha visto aggregare, anche in modo significativamente trasversale, quasi tutta la componente docente in occasione del famoso “concorsone” pensato dal ministro Berlinguer.

Se in quel caso l’idea era stata malamente proposta e peggio realizzata (con oggettivi interessi di alcune componenti sindacali pronte a gestire corsi di formazione “certificati”) si mantiene il problema di un servizio dello stato, di importanza strategica, che cerchi, da parte sua,  costantemente di sfuggire a controlli.

Qui non si tratta di concepire bismarkianamente i rapporti tra i conduttori del servizio e gli amministratori pubblici.

Certamente occorre superare una diffidenza reciproca ormai tragicamente depositata ed incrostata fra la classe docente e quella politica. In primo luogo è indispensabile che quest’ultima sappia assegnare ai docenti la consapevolezza della centralità strategica del loro lavoro. Questa consapevolezza si acquisisce se si avverte che tale centralità è identicamente avvertita dall’utenza e dal contesto sociale.

La cosa non è semplice da realizzare; da una parte occorrerebbe un potere politico con un’enorme  autorevolezza etica e culturale e, spiace dirlo, non siamo affatto in tale dimensione, da un’altra occorre ricostruire il tessuto, la trama di rapporti fatta anche di non detto, di leggende metropolitane, di fatiche, di angherie, di frustrazioni e di pesante burnout come recenti ricerche hanno avvalorato.

Un percorso tutto in salita dove, quando il docente vede tra i cespugli l’ombra del valutatore, spara a vista  raffiche di dissenso e di frustrante diniego.

Ma i problemi rimangono tanto che, giunti a questo punto, occorrerà seriamente prendere decisioni drastiche.

Ma queste possono andare solo nel senso di un  investimento, economico e professionale, sulla scuola.

Tuttavia sarà bene evitare di cadere dalla badella alla brace. Penso che molti conoscano il saggio del professor Ken Jones  (dell’Head Department of Education dell’Università di Keele) a proposito delle riforme scolastiche in Gran Bretagna e del disastro conseguente ai nuovi criteri di valutazione.

Il sistema educativo si è strutturato lungo linee mercantili e di stratificazione sociale mentre “…l’idea di “performance” ha  informato di sé sempre più vasti settori di popolazione…”

Una concezione dell’istruzione, pertanto, di tipo darwiniano che considera e tratta le politiche di inclusione quale meccanismo di introiezione (Nikolas Rose lo definisce di “responsabilizzazione”) di logiche di accettazione di principi di coesione sociale a fronte di una  esplosione delle differenze di status.

Siccome molte delle politiche del New Labour sembravano ispirare il ministero Berlinguer, tanti, nella scuola, sono preoccupati, anche e non di meno, se cambiasse l’attuale maggioranza.

A conforto di questa tesi ci sono elementi, anche sulla politica sindacale e del personale, che sono significativamente simili, nel documento del Collettivo, a quanto hanno sino ad oggi promosso  in Gran Bretagna.

Forse si vuole arrivare anche qui a svilire completamente la funzione docente fimo al punto da non prospettarla più come un obiettivo professionale interessante e soddisfacente, tanto che in questi ultimi due anni si sta verificando la difficoltà di trovare cittadini inglesi che vogliano accedere alla carriera, riducendosi così a pescare fra la mano d’opera di immigrati, specie delle ex colonie.

Non credo che  questi cattivi pensieri muovano il Collettivo, sarebbe bene, però, che lo stesso esprimesse una sua opinione su quanto va accadendo nella politica scolastica dei paesi anglosassoni.

Del resto ci saranno, anche alcuni livelli  significativi nelle indagini sulle competenze degli allievi, ma nessuno ha mai misurato e confrontato  il grado di violenza esistente nelle loro scuole.

Fino a prova contraria, assalti all’arma bianca ai nostri professori, o necessità di ispezioni con metal detector non sono il pane quotidiano della scuola italiana.

Non è un caso poi  che il documento parli in modo diffuso della funzione docente. Molti dei nodi sono lì dentro. Nessuna riforma avrà successo se la  parte docente o non la sentirà come parte di sé o la equivocherà o la avvertirà come un sovvertimento di valori e di senso.

D’altra parte non credo sia neppure una garanzia far decidere ai docenti le linee della riforma, piuttosto si tratta di ascoltarli seriamente, cosa che sinora si è fatto malamente o in modo artefatto e pilotato e trasformare la fase di ascolto in una prima messa in crisi dell’attuale ruolo dei docenti. Il primo richiamo alla consapevolezza deve venire da qui, un sentirsi protagonisti per l’assunzione di nuove responsabilità.

Il problema della valutazione sta tutto in questa prima fase, dove o si arriva a capire che a responsabilità educative e didattiche devono corrispondere criteri di tutela assolutamente non autoreferenziali o il meccanismo di anonimia sociale che ha investito i docenti si avviterà sempre di più in un’infernale marginalizzazione.

Certamente avrebbe giocato a favore di una simile percorso, avviare larghe sperimentazioni dei processi riformatori, fondare momenti di formazione del personale  sull’analisi costante di queste sperimentazioni, attraverso la messa in campo pubblica di dati, relazioni, inchieste giornalistiche (non quelle pilotate dai padroni del vapore!).

Sicuramente i risultati, quanto ad eventuale consenso di massa, non si sarebbero fatti attendere, posto che gli effetti riformistici fossero stati buoni.

Si  è scelta, da Berlinguer in avanti, l’opzione del mosaico, tale per cui in luogo di avere alla fine il rigore della definizione bizantina, si è ottenuta solo un raffazzonato effetto patchwork, insinuando anche l’idea che si volesse, talora, darla da bere ai gonzi.

Magistrale, in questo senso, la “geometrica potenza” della cosiddetta “onda lunga” o lo zoccolo duro del 20% di bravi docenti, vincitori del concorsone a punti…

Una cosa però si può concedere agli estensori del documento: la metafora di Bertoldo riferita ai docenti.

Questa esprime efficacemente la situazione nella scuola anche se, a conti fatti, oggi la scelta di alberi a cui impiccarsi s’è fatta molto ridotta.

Piuttosto rimane un abito mentale che riesce di difficile se non impossibile digestione per tutta l’utenza che, io dico a ragione, non comprende perché chi valuta ogni momento la vita di altre persone, indipendentemente da quale sia il suo metodo ed i suoi principi, rifiuti poi di assoggettarsi a forme di tutela della sua professionalità.

Sì, ribadisco: tutela della professionalità. Dovrebbero essere i docenti stessi a pretenderlo. Un meccanismo che li aiuti  ogni giorno a rimettersi in gioco e fornisca una autorevolezza sociale di cui hanno costantemente bisogno.

Da questo quadro, non a caso si può procedere nell’analisi di una nuova funzione emergente nella prospettiva morattiana, sostenuta assai in ciò anche dagli estensori del documento: la funzione tutoriale che, quanto a funzioni punta a richiamare il senso dell’agire didattico quale dovrebbe porsi per ogni docente. Appunto, per ogni docente!

Non si capisce perché attraverso tale funzione si cerchi di gerarchizzare la scuola.

Chi proviene da esperienze di collegialità diffusa e sostenuta, fatica a capire la dimensione di tale delega, tale sarà in fondo il risultato finale.

Diversa sarebbe stata la questione se fosse stata posta come la ricerca di attivazione di gruppi d’osservazione del lavoro, attraverso l’analisi dei casi, un po’ come accade in alcuni ospedali americani dove la valutazione del lavoro svolto è esperita attraverso l’analisi delle metodiche adottate, attraverso il confronto di idee, di ipotesi anche alternative, nella consapevolezza che, salvo casi estremi e di dolo, il lavoro del medico, come quello del docente, procede per salti, tentativi, esperimenti, si appoggia sull’esperienza e il confronto con altri  come il bravo artigiano.

Se introdurre il tutor avesse significato solo mettere a punto fasi di coordinamento tecnico, non rigide ed intercambiabili,  si sarebbe evitato di dar fiato da una parte a chi spera di fare i conti la  riforma della scuola elementare per reintrodurre criteri  verticistici  fra i docenti, da un’altra a chi invece, molto più prosaicamente e sicuramente, spera di  introdurre i criteri della flessibilità del lavoro attraverso la costituzione di un corpo docente d’elite ed uno di rincalzo, variamente adattabile e ripescabile anche con contratti a tempo.

Tutte queste preoccupazioni sono da sfatare in modo molto preciso, se si vuole che sul tutor si discuta con pacatezza.

Vorrei a questo proposito fare un esempio molto indicativo, appoggiandomi ad un’esperienza di scuola fra l’altro non pubblica, volutamente non statale: la scuola fondata da Alexander Neill, Summerhill.

E’ indubbio che Neill fosse il tutor nella sua scuola, ne sono esempio le sue testimonianze, il ruolo dei docenti, cui del resto egli assegnava, come a se stesso, una posizione orizzontale rispetto al rapporto con i bambini, la sua stessa concezione di scuola.

La funzione tutoriale  egli la esplicò più che nelle famose “lezioni private” o “conversazioni al caminetto”, piuttosto nella consapevolezza del suo imperativo morale di dover  gestire quella scuola così come essa era: una dedizione di biofilo, di amante cioè della vita, tali, in definitiva dovevano diventare per lui i bambini che quella scuola frequentavano e che, a distanza di più settant’anni, ancora frequentano sotto le amorevoli cure della figlia  di Neill, Zoe.

Ma sono queste le prospettive reali? Non pare, nel cap. 3.1.n. si affronta già la presenza del tutor, se ne individuano svariate funzioni di “…orientamento, sviluppo di capacità personali, recupero e sviluppo degli apprendimenti, fasi di stage, alternananza formativa…”, si afferma come vada assicurata, in proposito, la formazione del personale.

Più avanti poi cap. 3.3, si approfondisce ancora suggerendo differenziazioni stipendiali fra chi ha scelto autonomamente o per decisione collegiale di rimanere solo insegnante e chi è disponibile ad accedere ad altre attività di coordinamento, tutorato, gestione dei progetti.

Non è chiaro se  la necessità d’introdurre elementi di discontinuità o di rischio si riferisca qui a tutti docenti o la si intenda solo per quelli disponibili alle altre attività.

La cosa, detta fuori dai denti, può aver il sapore di un ricatto. Del resto è stata pensata già per i dirigenti scolastici e non pare affatto banale parlare ormai, nel loro caso, di lavoratori fortemente ricattabili sul piano politico. E’ in fondo quello che qualcuno propone anche per i giudici.

C’è d’altronde un punto di vista che, quantomeno al sottoscritto, risulta francamente insopportabile: l’idea che chi si dedica unicamente all’insegnamento goda di una posizione privilegiata al contrario di chi si appresta a funzioni non strettamente centrate sugli allievi.

Ora nessuno credo discuta che a fronte di un maggior carico orario, maggiori debbano essere i riconoscimenti economici, ma se questi devono derivare da una sorta di promozioni sul campo” guadagnate coi gagliardetti per ore trascorse a redigere relazioni, programmare progetti, incontrare esperti, genitori, funzioni del territorio, allora non siamo più d’accordo.

Chi scrive ha una vastissima, annosa, personale esperienza di tutto ciò, avendo svolto praticamente di tutto nella scuola; dal formatore in corsi d’aggiornamento al coordinatore di commissioni, dalla gestione delle cosiddette funzioni obiettivo alla collaborazione nello staff del dirigente scolastico, dal rappresentante d’istituto a quello sindacale, eppure, lo si ribadisce, un’ora di lavoro con la classe è sempre  comunque più defatigante e stressante di un’ora qualsiasi svolta nelle situazioni sopradescritte.

Qualche tempo fa una ricerca universitaria aveva scoperto che dopo il lavoro dei piloti di aerei intercontinentali, preso a modello per l’alto livello di stress, seguiva quello dei docenti.

Peccato che i piloti cessino presto la carriera, per ovvi motivi di salute e di sicurezza, mentre di converso lo stipendio degli insegnanti non è neppure lontanamente paragonabile a quello di un pilota di linea!

Certamente conosciamo tutti casi di docenti che si sono creati bozzoli caldi nella scuola, giungendo a lavorare col motore al minimo e stando per lo più sottocoperta, ma non è poi così difficile individuare tali soggetti e creare meccanismi utili ad una loro aperta riqualificazione o slittamento su altri settori d’impiego.

La maggioranza, se utilmente inserita in un progetto di grande respiro, (di cui avverta la non artificiosità storica) certamente è pronta a giocarsi anche con gioia e occorre portare rispetto a chi  decide di dare tutto se stesso solo nel rapporto con gli allievi.

Poi, è vero, bisogna imparare a mostrare a questi docenti come la scuola, i loro allievi stessi, il paese, abbiano bisogno delle loro teste, delle loro mani, dei loro cuori  per lanciare l’ancora più avanti, per provare a pescare su nuovi fondali.

Allora può essere più facile convincerli a sperimentare anche forme collaterali di lavoro aggiuntivo, egualmente remunerato, dove il docente è il professionista che sa anche ben progettare la casa dove  lavora.

Insomma, tirando un poco le fila, di questo abbiamo bisogno; di una scuola che si opponga, non con editti o parole d’ordine, ma con la vita stessa, alla necrofila imperante, fatta di abusi contro se stessi e gli altri,  contro il tempo, contro l’ozio, contro quella “cultura del silenzio” che è lo stato di oppressione di un mondo disumanizzato dove manca la coscienza di se stessi, così come ben indicava Paulo Freire.

Dobbiamo domandarci se la scuola serve a conformare gli allievi ad una particolare concezione sociale e morale. Se ciò accadesse qualunque fossero le intenzioni dei docenti, ci troveremmo di fronte a quella necessità di prendere atto che si vive una dimensione dove la riuscita sociale delle persone dipende  dal livello, dal numero, anche dal prezzo dei corsi di studio che queste consumano.

“…Una società che istituzionalizza i valori, identifica la produzione di beni e servizi con la richiesta dei medesimi. Nel prezzo del prodotto è compreso il condizionamento che ti porta ad aver bisogno di quel prodotto.

La scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così com’è…” Ivan Illich - Deschooling Society.

Siamo approdati a questo punto? Forse che non consideriamo i bambini oggetti piuttosto che soggetti del processo sociale?

La stessa istituzione del portfolio sembra procedere in questa dimensione. Avremmo bisogno di una scuola che alleggerisca il peso di sovrastrutture burocratiche. Il portfolio potrebbe essere  una dimensione della memoria di percorsi singoli o collettivi, un caro ricordo, messo insieme coi compagni, i maestri, gli amici.

Si appresta a diventare una complicata registrazione delle aspettative dei genitori, corre il rischio d’essere il deposito dei buoni sentimenti, dei compitini ben fatti o, nel caso d’impenitenti discoli, magari anche poco dotati, di patetiche rabberciature di improbabili percorsi scolastici falsamente autogestiti.

Il portfolio è cosa  finissima quando nasce dall’esigenza dei singoli, quando è la cartella di cartoncino consunta che raccoglie i vecchi quaderni, quel disegno rubato al compagno, la raccolta di figurine con cui si giocava sotto il banco.

Quando il portfolio diventa  l’atto santificante del “corpo mistico” scuola-famiglia è solo un pagellone obeso.

Questo non significa che una concordanza di vedute non possa esservi, in linea generale, con quanto il Collettivo esprime nel cap. 3.4. (verso un sistema di valutazione).

Tuttavia è bene che le griglie di riferimento, le fasi di analisi, i richiami metodologici siano collocati su piani unicamente tangenti i percorsi individuali degli allievi.

Un elemento sembra doveroso aggiungere nei criteri di valutazione pur se in forte contrasto con la cornice di riferimento quale si evince dal cap. 3.2.3; la valutazione degli istituti, pubblici o privati che siano dovrebbe ben  considerare, sia nella fase di autovalutazione d’istituto, sia in quella che eventualmente si formasse di eterovalutazione, la linearità del rispetto della concezione laica dello stato,  intesa appunto come totale apertura alla conoscenza.

Con l’approvazione delle modifiche al titolo V della Costituzione possono aprirsi  varchi di  autoimplosione  sia nel senso di solleticare tendenze ideologiche, sia nel senso di abnorme sottolineatura di localismi, questo vale tanto per le scuole statali che per quelle  cosiddette paritarie.

Ove si pervenisse (e già ci siamo) ad accettare il principio di sussidiarietà nel campo delle prestazioni educative e della formazione, va sottolineato che  questo principio non può che essere sottomesso ai principi generali della Costituzione e quindi a criteri di assoluto rispetto per le libere scelte individuali.

Ciò per il senso stesso delle cose non può avvenire in una scuola di tendenza, qualunque essa sia, nel momento che questa pone la sua struttura, il suo personale a tutela della tendenza stessa.

Attenzione qui non si chiede di mascherarsi, è perfettamente giusto che nel processo educativo ognuno incontri l’altro per quello che è; guai se un docente cattolico o mussulmano o ateo dovessero nascondere o minimizzare il loro essere nel mondo, anzi il rapporto educativo grida la necessità di autenticità, di consapevolezza, di rigore epistemologico.

Tuttavia l’allievo  è il soggetto che con noi attraversa il mondo, non ha iniziato il cammino quando ci incontra.

La sua barca, magari, ha già subito fortunali, come può aver viaggiato col vento in poppa. Il docente, e la scuola dove egli lavora, dovranno essere in grado di accogliere queste vele con alito leggero, ecco perché dobbiamo pretendere da chiunque progetta  un servizio scolastico di mettere al centro prima di tutto questi soggetti il cui futuro non è nelle nostre mani ma solo e  sempre, kantianamente, nel cielo stellato sopra di noi.

Infine, in chiusura, mi si conceda di riprendere il discorso interrotto sui piani di lettura. Mancava quello etico.

Chi ha conosciuto, come il sottoscritto, innanzi tutto per età, poi per motivi di frequentazione politica e di conoscenza d’atti e documenti, il sorgere malavitoso di alcuni  attuali reggitori della cosa pubblica trova francamente indecoroso il solo pensare a fornir qualunque forma di sostegno  sia pure indiretto ai loro affari.

Che la questione della scuola rientri, appunto, in un affare ne danno sostanza gli atti quotidiani di un’amministrazione che si sforza, in tutti i modi, di dar corso ai “desiderata” ben chiaramente espressi negli incontri dei GATS a livello internazionale e che hanno poi trovato sostanza nei documenti UE e nei famosi  accordi di Lisbona, senza dimenticare l’attuale bozza costituzionale europea dove il “mercato” sembra dover entrare come elemento costitutivo dell’anima dei popoli, altro che quisquilie sulle origine  giudaico-cristiane!

Proprio per queste ultime ragioni con D’Avolio convengo che tale processo s’è tuttavia avviato ben prima del governo Berlusconi.

Concetti aziendalistici, nel senso di mutuare categorie economiche nel percorso scolastico, sono entrati già con i governi di centro-sinistra.

Basterebbe pensare, tanto per fare un esempio, alle parole “debito formativo” e “credito formativo”, il “contratto formativo”, il “portfolio”, la “concorrenzialità e competitività” fra le scuole.

Tuttavia, pur a fronte di tanti smarrimenti, credo vada concessa la libertà d’indignarsi per ogni mattoncino portato alla politica della cosiddetta Casa delle Libertà, per ogni oggettiva complicità con un processo disgregatore del senso, della maturazione  politica e dello sguardo civile del popolo italiano.

I membri del Collettivo, firmatari del Progetto, non credo affatto intendano sentirsi considerati, né certamente lo pensano di sé stessi, quali portatori d’acqua d’interessi nascosti o poco puliti.

Anzi, sembra che da ben tutt’altro siano mossi, non solo perché lo dichiarano, ma anche perché le loro storie personali stanno lì a dimostrare il contrario.

A questo allora vorrei richiamarmi, al loro senso di responsabilità che dichiarano per tutta la questione.

Pur se  diversi punti di vista non ci accomunano è indispensabile trovare occasioni per reciproci coinvolgimenti.

La posta in gioco è altissima, sono certi di non lavorare per il re di Prussia? Se la loro sicurezza è fondata, porgano allora ascolto a chi sino ad oggi  è stato loro fiero avversario, in fondo è il metodo che vorremmo proporre insieme nella scuola che abbiamo in testa ogni giorno.

Si ascoltino pertanto i dubbi di chi ritiene che anche il gesto di portare mattoncini, nella situazione presente,  può segnare tragicamente la scuola di domani.

Io credo che  culturalmente debba esistere una totale soluzione di continuità  fra il far scuola e l’esercizio corrotto e corrompente del potere.

La scuola italiana  ha numerosi scheletri negli armadi che sono, in fondo, le nefaste  radici di tanti problemi d’oggi.

In questi tempi dove nessuno chiede di portare, in divisa ed a passo marziale, gli alunni in piazza al sabato, che non avvenga mai di trovarsi a portare divise dentro il cuore e cimiteri dentro la testa.

Vorremmo in tanti che la classe docente fosse la parte migliore del paese, la realtà ci avverte che essa ne è lo specchio fedele, forse il vero progetto di buonsenso non è tanto salvare una riforma nata zoppa ma riportare la speranza dentro la scuola perché così come concludeva Illich citando Evtusenko:

ognuno
ha un mondo misterioso
tutto suo
e di esso c’è l’attimo più bello
e l’ora più angosciosa,
solo che noi non ne sappiamo niente.


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