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L’INTERVENTO / Prosegue il dibattito su un modello bipartisan di riforma dell’istruzione

 

Dal metodo napoleonico al sistema delle autonomie

E’ finito il tempo del «centralismo scolastico», ma la strada è ancora lunga

La riforma del Titolo V della Costituzione, varata nella scorsa legislatura, ha tolto ogni dubbio (*)

 

La matrice dei Programmi, il tradizionale documento che designa i contenuti dell’insegnamento delle scuole di ogni ordine e grado, è il centralismo napoleonico. Il ministro francese dell’Istruzione al tempo dell’Impero napoleonico era orgoglioso di poter rivendicare un controllo così stringente sui suoi insegnanti da dichiarare che sapeva che cosa stessero spiegando, in classe, in una determinata giornata dell’anno. I Programmi, insomma, come strumento di governo e di gestione di un sistema dell’istruzione votato a farsi portavoce esecutivo di istanze, ideologie, scelte culturali ed educative decise al centro, di solito da una ristretta élite burocratica e politica. Sarebbe ingeneroso negare, sul piano storico, la funzione emancipatrice svolta da questo paradigma nello sviluppo dell’istruzione e della sua distribuzione universale nel nostro Paese. Al punto che, anche con i Programmi, l’Italia ha vinto, tra Ottocento e Novecento, la grande battaglia contro l’analfabetismo, ed è riuscita, nella seconda metà del Novecento, ad allargare la base sociale della scuola fino ai più alti livelli dell’istruzione.

Oggi, questa impostazione, tuttavia, è entrata in crisi su tutti i fronti che l’hanno a suo tempo promossa e, in qualche modo, anche giustificata.

Il suo primo presupposto era lo statalismo gerarchico e centralistico. L’aveva escluso, a dire il vero, già la Costituzione formale del 1948. Per le vischiosità che conosciamo, la Costituzione materiale l’aveva almeno in parte mantenuto. La riforma del Titolo V della Costituzione varata nella precedente legislatura, però, ha tolto ogni residuo dubbio: Repubblica e Stato non coincidono più; la Repubblica è composta da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato; la Repubblica è chiamata non solo a valorizzare l’autonomia degli enti territoriali e delle diverse componenti della società civile (principio di sussidiarietà), ma anche a organizzare gli uffici dello Stato sul principio del decentramento amministrativo.

Il suo secondo presupposto era la minorità delle scuole. Nella scorsa legislatura, tuttavia, a maturazione di un processo iniziato anche a livello giuridico nel 1988, è stata loro per la prima volta riconosciuta l’autonomia. Le scuole sono diventate, insomma, istituzioni maggiorenni, alle quali si chiede d’essere capaci di ricerca e sviluppo, e di attuare scelte libere e responsabili sul piano organizzativo, didattico e finanziario. Non possono semplicemente applicare disposizioni dettate dall’alto: devono progettare in termini professionali e territorialmente radicati percorsi formativi dei cui risultati devono rispondere alle famiglie, agli studenti e alla società. Con il nuovo Titolo V si è data addirittura una protezione costituzionale a questo riconoscimento.

Il suo terzo presupposto era il riferimento a un assetto sociale dei saperi e delle tecniche sostanzialmente stabile. Da tempo, però, si è preso atto del carattere temporale, dunque relativo e provvisorio, di ogni forma di disciplinamento delle conoscenze, anche di quella proposta dagli ordinamenti accademici e dalla ricerca scientifica. Tanto più ciò appare vero quanto più veloci e travolgenti si sono fatti i processi di innovazione di qualità e quantità negli assetti sociali dei saperi e delle tecniche. La definizione di ciò che è essenziale e irrinunciabile nell’ordinamento culturale della scuola, quella di individuare una base accettabile di equilibrio nel rapporto fra tradizione culturale, contemporaneità e proiezione sul futuro, o anche la questione di intrecciare e sviluppare adeguatamente la scelta del che cosa e la scelta del come far apprendere a scuola, diventa, perciò, tanto ineludibile quanto difficile e complessa. In ogni caso, non può più essere affidata soltanto al centro e, nel caso nostro, al ministero dell’Istruzione. Deve per forza coinvolgere la ricchezza e la diversità dei soggetti culturali e delle articolazioni sociali, a partire dalle istituzioni scolastiche.

Ciò significa essenzialmente due cose, tuttora in fieri , e che, come tutte quelle in via di trasformazione, per un verso stentano ad assumere una configurazione precisa e per un altro sono materia di conflitto perenne fra chi, realizzandole o osservandole, spinge verso il cambiamento e chi verso la conservazione.

La prima ha a che fare con la ricerca di nuove modalità per incidere sull’azione didattica delle scuole. Ci si confronta fra chi, da una parte, vorrebbe documenti essenziali e aperti sui contenuti in senso stretto, accompagnati dall’indicazione delle conoscenze e abilità che le scuole dovrebbero poi trasformare in competenze personali degli allievi, e su cui esercitare una valutazione di tipo nazionale; e chi, dall’altra parte, considera irrinunciabile l’esigenza, da parte della quota di centro che comunque sussiste dentro qualunque sistema di federalismo scolastico, di fornire alle scuole soltanto l’insieme dei criteri pedagogici e contenutistici generali a cui ispirare la loro piena progettazione autonoma. Nell’ultimo tratto della precedente legislatura si tentò di stendere «Indirizzi curricolari», attualmente sono in fase di scrittura «Indicazioni nazionali» per le scuole. In tutti e due i tentativi, nelle loro parti positive come in quelle più carenti (tra le quali va denunciata la tendenza a fare anche dei contenuti scolastici un campo per la battaglia bipolare), c’è l’esigenza che si sviluppino nuovi linguaggi e nuovi stili, tali da sostenere davvero le scuole nel necessario affrancamento dalla vecchia logica esecutiva degli adempimenti formali.

La seconda cosa su cui attirare l’attenzione è che se i documenti che da qualche anno si sta cercando di redigere non sono Programmi, nemmeno andranno attuati dalle scuole (prima ancora dagli editori) o anche interpretati dall’opinione pubblica come Programmi, cioè come prefigurazioni nette di quel che avverrà nelle classi. A seguire il gioco delle anticipazioni e delle relative discussioni sui documenti ministeriali, si è portati a ritenere, tuttavia, che un bel pezzo di strada dovrà essere ancora percorso, prima che il tema del che cosa e del come indirizzare l’insegnamento possa essere affrontato con serenità e disponibilità dalle scuole e dal mondo circostante.

 

Giuseppe Bertagna, Università di Bergamo

Roberto Maragliano Università di RomaTre


 

(*) da Il Corriere della Sera, Lunedì, 16 Dicembre 2002


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