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Parliamo dell’alternativa alla riforma Moratti
Dopo i 14 anni: una risposta a Domenico Chiesa

di Paola Blondi

 

In un recente intervento, pubblicato in EdScuola il 15 giugno 2004, Domenico Chiesa chiede di ragionare sui percorsi formativi nell’età dell’adolescenza giacché, come lui dice, la scelta che segna e orienta l’intero disegno di cambiamento contenuto nella l.53/03 è quella di due sistemi di formazione per il secondo ciclo. Serve, dice Chiesa, una discussione approfondita, laica, senza preconcetti che aiuti la definizione di una proposta alternativa a quella dell’attuale governo, che intercetti i reali bisogni di formazione.

 

L’obbligo scolastico a 16 anni

Chiesa propone il prolungamento dell’obbligo d’istruzione di almeno due anni come alternativa praticabile e non velleitaria al doppio sistema, come traguardo di una nostra politica scolastica che viene dagli anni Settanta, intendendo la scuola come uno dei fondamentali motori di democrazia, contrapponendosi – dice Chiesa - allo strisciante processo di descolarizzazione che si respira in alcuni atteggiamenti sociali e politici. Il significato del diritto allo studio è nel garantire un ciclo di studi sufficiente (nella qualità e nel tempo) per il recupero degli svantaggi sociali.

Non si può che essere d’accordo, puntualizzando due considerazioni:

1)     l’obbligo scolastico a 16 anni non è ancora una piena alternativa al doppio sistema; è piuttosto una più che dovuta opposizione alla precocità di un orientamento incanalato;

2)     dieci anni di istruzione obbligatoria sono il periodo formativo minimo che un Paese deve garantire perché il giovane capitale umano sia coeso nelle competenze di base sociali, culturali e professionali nell’arco di un’età anagrafica che comprenda anche una fase verso l’adultità (giusto quella tra i 14 e i 16 anni, come avviene in pressoché tutti i sistemi scolastici d’Europa); il recupero degli svantaggi sociali necessita di ben altri interventi mirati.

Si pongono quindi le domande: quale biennio? quali percorsi seguono tale biennio?

 

Quale biennio?

Condividiamo con Chiesa il superamento del biennio unico prefigurato negli anni Settanta, purché siano unici (e non di pari dignità) i livelli delle prestazioni. La proposta è quindi quella dei cosiddetti bienni unitari (già di lunga esperienza nella scuola) cui si aggiunga una dimensione di integrazione con la formazione professionale per l’apporto che tale sistema può fornire in merito all’orientamento professionale, alla cultura tecnica e del lavoro, all’apprendimento del fare.

Se i 16 anni determinano la fine della formazione iniziale e l’assolvimento dell’obbligo scolastico, occorre chiedersi, come fa Domenico Chiesa, quale sia il bagaglio che ognuno deve portare con sé.

Servono competenze culturali. Per intendersi, occorrono esempi. A 16 anni è indispensabile che il giovane possegga il concetto di cultura (cosa non frequente nelle nostre aule), che sia motivato e abbia gli strumenti per fruire della cultura che nel nostro Paese è considerata alta (i libri, i musei), non sia arginata la cultura di tutti (il film, la musica), sia finalmente al macero la distinzione tra le fatidiche due culture (quella scientifica e quella umanistica), siano assunte a pieno rango le culture della pace, dell’ambiente, dei beni culturali, della salute; infine, siano forniti gli strumenti per fruire criticamente (e non passivamente) della cultura dei media (tv in primis) e siano riconosciute e praticate la cultura del lavoro e quella delle nuove tecnologie. Ed è scontata l’assicurazione delle competenze di base, leggere, scrivere, far di conto e così via.

Servono competenze sociali, che sono quelle della cittadinanza, della convivenza civile (parole buone dell’attuale riforma se non fossero, come sono, coniugate ideologicamente); servono i fondamenti della Costituzione, la padronanza che impedisca l’ignoranza (o peggio ancora la noncuranza) della legge; è indispensabile far crescere il valore della coesione sociale, il lavoro di squadra, il rispetto per l’altro, il riconoscimento dell’altro, il valore della differenza, la tolleranza, la curiosità e l’attenzione per il diverso. E sono competenze sociali, oltre che culturali, quelle che concretizzano l’essere cittadino del mondo e dell’Europa (la padronanza della lingua inglese e di altre lingue comunitarie), quelle che fondano tale appartenenza anche attraverso la padronanza degli strumenti (lo spazio, il tempo) e delle conoscenze delle radici e della contemporaneità.

Servono competenze professionali, rapportare all’età e all’orientamento verso la vita attiva. Servono quelle competenze (gli esempi pagano sempre il prezzo della semplificazione, ma non importa) che da un lato fanno l’uomo faber nella vita quotidiana, dall’altro avviano processi di orientamento verificati sul campo, dall’altro ancora permettono di praticare le nuove tecnologie valorizzando la praticoneria che è ormai di tutti i ragazzi (diciamo dell’informatica e non solo) recuperando in senso formativo anche le dimensioni ludiche con cui gli adolescenti avvicinano i nuovi prodotti della tecnologia.

Queste sono, a grandi linee, le competenze da garantire a tutti entro i 16 anni. E dopo?

 

Dopo i 16 anni: differenziare o canalizzare?

La legge 53/03, a partire sventatamente dai 14 anni, prevede due percorsi formativi, uno lungo di sola istruzione (liceale) per le alte professioni (formate nell’università), uno più breve di istruzione e formazione professionale (un tutt’uno) per le altre professioni.

In larga parte convenendo con Domenico Chiesa, vale la pena riflettere su tre questioni:

1)     nella società della conoscenza, così la definisce oggi l’Europa, il lavoro non può essere separato dalla dimensione formativa; questo in una prospettiva di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, quindi anche nella scuola, dove si possono fondare i presupposti della predisposizione a un apprendimento continuo; sappiamo bene che a tutt’oggi accede a nuova formazione chi ha più formazione;

2)     il periodo formativo dopo i 16 anni rappresenta l’ambiente naturale dell’intreccio e della contaminazione – riprendiamo una felice espressione di Chiesa - tra istruzione, formazione, progetto di vita e quindi di lavoro; è in questo periodo che si consegue il primo titolo (qualifica o diploma), che si avvia e concretizza un periodo formativo immancabilmente proiettato a una dimensione lavorativa dell’individuo, a breve o a lungo termine non importa;

3)     nella società della conoscenza ha significato quella formazione che garantisce occupabilità in un mercato del lavoro caratterizzato dalla complessità e dalla rapida evoluzione delle professionalità.

Date le premesse, la domanda: ha senso una scuola senza apparenti legami con la dimensione lavorativa (l’otium liceale della riforma Moratti) e all’opposto una scuola strettamente finalizzata a livelli di professionalità in una precisa dimensione lavorativa? Questo si chiede Domenico Chiesa e con lui conveniamo che:

1)     istruzione e formazione non possono avere il mercato del lavoro come preciso riferimento per i curricoli professionalizzanti, ma non ha alcun significato neppure un’istruzione (liceale) completamente estranea alle trasformazioni del mondo del lavoro; nell’uno e nell’altro caso si postula una società che non c’è, si nega al giovane capitale umano un percorso formativo con crediti di occupabilità, si perde o si allunga il tempo della formazione senza altra motivazione che l’autoreferenzialità della scuola;

2)     il rapporto scuola-lavoro è oggi necessariamente complesso e scambievole; non resta che la strada continua della concertazione tra tutti i soggetti dell’istruzione-formazione e le parti sociali;

3)     l’odierno obiettivo di occupabilità richiede profili professionali caratterizzati da una certa specializzazione e da un’attrezzatura culturale che permetta quella che oggi prende il nome di flessibilità.

Come costruire figure professionali flessibili e, contemporaneamente, a buon livello di specializzazione, senza dimenticare che delle nuove professionalità fanno necessariamente parte le competenze trasversali, le abilità comunicative, le capacità di interazione all'interno di situazioni complesse? A tale domanda Domenico Chiesa fornisce un’ottima risposta: non certo anticipando o rimandando il momento della specializzazione.

Torna a noi la ragionevolezza di un’impostazione già della riforma Berlinguer, quella di un’ampia e solida base culturale che sia in grado di mandare a maturazione i propri frutti nello specifico settore professionale di occupazione, innestando se e quando necessario nuovi contributi formativi. Se così non è, ha ragione Domenico Chiesa: coloro che non possiedono tale base culturale sono destinati a subire – subire passivamente, esserne vittime - la flessibilità che caratterizza il lavoro. Se così non è, smettiamo per favore di riempirci la bocca di belle parole quali l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

Serve dunque canalizzare i percorsi? Serve, se la prospettiva è quella ideologica che divide la società in classe dirigente e forza lavoro. Non è questa la nostra ideologia, ma non sono neppure i tempi storici per praticare tale divisione, giacché la sfida – cui ci impegna la Strategia di Lisbona con obiettivi da concretizzarsi entro il 2010 – è quella di un’Europa (e di un’Italia) con un’economia competitiva che fa affidamento sul capitale umano, sulla ricerca, sull’innovazione, sulla qualità dei prodotti e dei processi, avendo ben capito che ad altri mercati (quelli asiatici in primis) va lasciata la staffetta di un’economia fondata sulla riduzione del costo del lavoro in particolare della manodopera.

Serve piuttosto una differenziazione, perché i destini e i progetti di vita non sono tutti uguali (assodato che a tutti siano assicurate pari opportunità di accesso e successo formativo e precisi interventi siano dedicati a rimuovere le cause di ogni svantaggio).

La differenziazione può stare nei percorsi, ancor più nelle funzioni (ed è qui che si coniuga l’interpretazione della riforma del Titolo V della Costituzione, sulla qual questione torneremo a breve): all’istruzione compete il ruolo di produrre una formazione culturale forte come elemento base della professionalità, senza dimenticare i compiti di educazione e acculturazione che le sono propri; alla formazione competono apporti di maggiore avvicinamento alle professionalità; in un sistema inevitabilmente integrato.

E’ Domenico Chiesa a proporre un illuminante esempio concreto – paradossale come conviene a ogni buona metafora – del senso di tale integrazione: per formare un riparatore di lavastoviglie serve una preparazione culturale che comprenda la dimensione tecnologica (costruita nei tempi dell’istruzione) e una specifica formazione professionale riferita alle tecnologie con cui sono costruite oggi le lavastoviglie, realizzata in un percorso qualificato. Noi aggiungeremmo che l’operatività, per farsi via via esperta, va acquisita sul campo, in processi di formazione continua formale, informale e non formale. Vale questo per le basse professioni come per le alte, giacché una cultura fine a se stessa a nostro modesto avviso appartiene alle società – del passato – che non fondavano una democrazia e la vita di ciascuno sul lavoro. E vorremmo aggiungere che per una generazione cui oggi molto fa difetto la motivazione (non solo per lo studio), su cui pesa l’incertezza del futuro e lo stereotipo sociale di un utilitarismo accentuato, poco è opportuna una cultura aristocratica anche per ragioni strategiche.

C’è qui, forse, un lieve dissenso con Chiesa, quando insiste su un sapere scolastico cui compete l’organizzazione delle conoscenze, il rigore degli alfabeti, il vincolo del disciplinare, concedendo molto all’otium culturale purché non ideologicamente inteso; la coniugazione con la spendibilità di tale sapere, l’intreccio con le competenze professionali verranno dopo. Per parafrasare un secondo esempio di Chiesa, conveniamo che lo studio dei numeri complessi in riferimento alle competenze di elettrotecnica prevede competenze matematiche acquisite nei luoghi e con i tempi dell’istruzione, ma vogliamo sottolineare che tale sintesi potrà verificarsi purché la scuola abbia connotato l’apprendimento della matematica non fine a se stesso, quanto piuttosto come un alfabeto da possedere saldamente in quanto potente strumento di comprensione del mondo, ma anche di utilizzazione e applicazione.

 

Quanti e quali sistemi dopo i 16 anni

Assodato il prolungamento dell’obbligo a 16 anni in ambito scolastico – unica via per garantire un giusto tempo di orientamento e una base culturale comune ai fini della coesione sociale e della competitività economica – resta da discutere quanti e quali siano i sistemi di istruzione e di istruzione e formazione dopo i 16 anni.

Oggi sono due, la scuola scandita in tre vie (liceale, tecnica, professionale) e, con quote di utenza giovane pressoché irrilevanti, la formazione professionale (iniziale e superiore).

Che occorra una riforma della scuola è palese da più di trent’anni e alcune falle sono macroscopiche: non è per niente chiara la differenza tra via tecnica e professionale; la distribuzione nei percorsi è generata prevalentemente in via gerarchica (chi è bravo va al liceo) cosicché i crediti formativi si configurano in relazione all’utenza e alle sue difficoltà; la sperimentazione stratificata nel tempo ha ampiamente dimostrato la necessità di un’osmosi tra indirizzi, ha travalicato le barriere burocratiche dei comparti, chiede a gran voce indirizzi nuovi (mancanti come il linguistico, revisionati come il tecnologico); in ogni luogo dove la formazione professionale offre qualità e forza, l’integrazione è stata attivata dimostrando i suoi frutti.

Due sono i sistemi anche della riforma Moratti, della cui irragionevolezza si è già detto: l’istruzione in otto licei, l’istruzione e formazione professionale in una possibile miriade di percorsi ancora da definirsi.

Quale nuova proposta? Abbiamo qualche tempo per discutere a fondo della questione, ma è opportuno aprire il dibattito. E partiamo dalla coda, ovvero da quanto è da garantire dopo i 16 anni nel sistema dell’istruzione e formazione, soprassedendo per il momento dalle dimensioni di un apprendimento lungo tutto l’arco della vita:

·         una qualifica successiva all’obbligo scolastico, affinché ogni giovane, entro il diciottesimo anno di età, se ne vada per il mondo con un titolo e una formazione iniziale compiuta anche in termini di professionalità; era questo l’obiettivo dell’obbligo formativo (legge 17 maggio 1999, n. 144, art. 68) e non c’è ragione di non confermare; dopo il biennio, per tale qualifica può essere necessario un percorso breve di uno o al massimo due anni;

·         un diploma, noi diciamo con credito spendibile nel mercato del lavoro;

·         un perfezionamento successivo al diploma, di istruzione tecnica superiore;

·         un titolo universitario (breve, lungo) o di alta formazione.

Se così è, nella scuola secondaria superiore, a livello istituzionale, la proposta organicamente efficace parrebbe quella di un sistema integrato unico che preveda:

·         per il primo biennio, l’istruzione e aree curricolari di integrazione con la formazione professionale, sul modello degli attuali istituti professionali, in relazione alla potenzialità dell’impianto e non degli esiti che oggi sono purtroppo spesso segnati dalle difficoltà dell’utenza;

·         per il successivo triennio, istruzione e formazione (un tutt’uno) che offra percorsi plurimi e componibili, ma a partire da indirizzi di studio (chiamarli tutti licei o con altre etichette non importa) che abbiano a modello gli attuali istituti tecnici, ripescando in essi l’impostazione di formazioni culturalmente solide e focalizzate a un credito in un settore economico.

Sparisce il liceo classico? In via di nominalismo sì, ma è opportuno un indirizzo dei beni culturali. Scompaiono gli istituti professionali? La risposta è ancora affermativa, ma per promuoverli a rango di tutti gli altri indirizzi. Restano gli attuali istituti tecnici? Certamente no, non è questo almeno il nostro pensiero. L’impianto dovrebbe essere quello di indirizzi di studio, ridotti di numero rispetto agli attuali, organizzati in relazione ai fabbisogni e alle caratteristiche dei settori economici, ivi comprendendo anche le professioni non strettamente produttive. E per i percorsi brevi di qualifica? Affidati certamente alla formazione professionale, innestando in essa, per apporto dell’istruzione, una base culturale più solida di quanto oggi il sistema sappia esprimere. Quindi tutta scuola e la formazione professionale ancora cenerentola? Non è davvero questo il nostro pensiero e non è tale il presupposto alla base di quel che è oggi il sistema integrato, in cui l’apporto reciproco dei sistemi – istruzione, formazione, lavoro – è fondamentale per la progettazione dei curricoli, per una buona alternanza scuola-lavoro da garantire a tutti gli indirizzi insieme ad aree curricolari dedicate alla formazione delle professionalità nelle forme di fabbisogno in una società che è della conoscenza e della flessibilità, con obiettivi e crediti da definirsi periodicamente in concertazione con le parti sociali e in cui il ruolo del territorio sia significativo quanto lo è lo scenario di un sistema economico globale.

Sono, le nostre, poco più che intuizioni, appunti per ragionare insieme cui si può aggiungere un’ultima considerazione.

 

Come tornano i conti con l’art. 117 del Titolo V della Costituzione

Partiamo da una evidenza, che così non è stata per l’attuale governo: la riforma costituzionale non dice come deve essere la nuova scuola, ma come sono distribuite le competenze legislative su materie quali l’istruzione e la formazione professionale. Niente nel Titolo V porta necessariamente agli otto licei Moratti e alla profonda distinzione con un altro sistema.

Ripercorriamolo per l’ennesima volta questo benedetto art. 117. Vi si legge che lo Stato ha legislazione esclusiva per le “norme generali sull’istruzione” e per la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (quindi gli standard di istruzione e formazione).

Se si esce dal campo delle norme generali, l’istruzione è materia di legislazione concorrente, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Fin qui tutto chiaro: allo Stato i principi fondamentali e le norme generali sull’istruzione, i livelli essenziali su istruzione e formazione; alle Regioni quella potestà legislativa che può essere ben interpretata alla luce del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 e della sentenza n. 13 del 2004 della Corte Costituzionale.

Spetta alle Regioni la potestà legislativa (quindi anche in merito a norme e principi, non livelli essenziali) in materia di istruzione e formazione professionale. Su quest’ultima espressione si sono spesi fiumi di inchiostro e pur anche se volessimo convenire con la rigida interpretazione Moratti di un “sistema professionale” di istruzione e formazione (che porta il ministro a ivi includere anche gli istituti tecnici, riservando alla dicitura “professionale” non un significato burocratico di comparto, ma di credito formativo orientato alle professioni, distinto dagli otto licei a-professionali) trattasi sempre e comunque di competenza legislativa (chi fa le leggi) e non di organizzazione del sistema, che può ben riferirsi a plurimi soggetti legiferanti. Valgono peraltro tre considerazioni:

1)     un sistema integrato di istruzione e formazione, anche oggi nelle sue tiepide forme, fa riferimento a competenze legislative composite;

2)     per quanto fortunatamente nessun federalismo sia stato assunto nel nostro Paese, la Repubblica – così recita la Costituzione - è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato; i primi quattro sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni, non per una disgregazione dell’unità nazionale, ma per una piena valorizzazione dei territori locali;

3)     un sistema integrato di istruzione e formazione, per il fatto stesso di essere integrato riporta necessariamente non solo a una concertazione con le parti sociali, ma anche a una “concertazione” con lo Stato e tra Regioni, rendendo ancor più significative forme di coordinamento istituzionali quali l’odierna Conferenza unificata.

Come sostiene Domenico Chiesa, il nuovo Titolo V deve essere assunto nelle sue potenzialità: i tre soggetti istituzionali (Stato, Regioni/Province/Comuni e Scuole), che a diverso titolo hanno un mandato costituzionale sulla formazione, devono esprimere al massimo le loro possibilità di azione all’interno dello sviluppo del sistema formativo nazionale e territoriale.

4 luglio 2004


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