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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

L’Europa, la scuola e il profitto (*)
Nascita di una politica educativa comune in Europa

di Nico Hirtt
(traduzione a cura di Paola Capozzi)

 

Deci anni di gestazione

Prima del trattato di Maastricht l’Unione europea non si occupava affatto di educazione. Fatta eccezione che per l’insegnamento professionale, le altre forme d’insegnamento attenevano strettamente alla competenza degli Stati-membri . Con la firma di un atto unico nel 1986, e con l’entrata in vigore del trattato di Maastricht nel 1992, le cose evolvono rapidamente. L’articolo 149 dell’Atto unico europeo sostiene che « La Comunità contribuisce allo sviluppo di una educazione di qualità » ma in ogni modo « rispettando a pieno la responsabilità degli Stati membri quanto al contenuto dell’insegnamento e all’organizzazione del sistema educativo ». Dieci anni più tardi è gioco forza riconoscere che la Commissione europea svolge ormai un ruolo principale nella definizione e nella promozione di una politica educativa comune. Un ruolo grandemente superiore a quello previsto dall’articolo 149.

Se si vuole situare la nascita di una politica comune in Europa non è alla Commissione europea, al Consiglio dei ministri e ancora meno al Parlamento europeo che dobbiamo guardare quanto, piuttosto, alla potente lobby padronale della Tavola Rotonda Europea degli industriali (ERT). Creato nel 1983, questo gruppo di pressione riunisce una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei, come Peter Brabeck (Nestlé), Paolo Fresco (Fiat), Leif Johansson (Volvo), Thomas Middelhoff (Bertelsmann), Peter Sutherland (BP) o Jürgen Weber (Lufthansa). Il loro lavoro comune consiste nell’analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e nel formulare raccomandazione corrispondenti ai propri obiettivi strategici. Alla fine del 1989 un « gruppo di lavoro educazione » dell’ERT pubblica un rapporto intitolato « Educazione e competenza in Europa ». Questo sarà il primo di una lunga serie di documenti ad affermare « l’importanza strategica vitale della formazione e dell’educazione per la competitività europea » e a pérorare « un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi ».

In particolare vi si legge che « l'industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti », e che gli insegnanti hanno « una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto », che « non comprendono i bisogni dell’industria » [ERT 1989]. Comunque, insiste la Tavola Rotonda, « competenza ed educazione sono fattori di riuscita vitali ». In conclusione, la lobby padronale suggerisce di « moltiplicare i partenariati tra le scuole (e) le imprese ». Invita gli industriali a « prender parte attiva allo sforzo educativo » e chiede ai responsabili politici « di coinvolgere le industrie nelle discussioni concernenti l’educazione » [ERT 1995].

La Tavola Rotonda rimprovera anche che « nella maggior parte d’Europa, le scuole (siano) integrate in un sistema bubblico centralizzato, gestito da una burocrazia che rallenta la loro evoluzione o le rende impermeabili alle domande di cambiamento provenienti dall’esterno » [ERT 1995]. I datori reclamano dei lavoratori « autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide » [ERT 1995].

« Non c’è tempo da perdere », afferma ancora la Tavola Rotonda. « La popolazione europea deve impegnarsi in un processo di apprendimento permanente » e, a tal fine, « sarà necessario che tutti gli individui che imparino, si muniscano di strumenti pedagogici di base proprio come fanno con una televisione » [ERT 1997].

Con un decennio di ritardo, l’emergere di iniziative volte ad « armonizzare » le politiche d’insegnamento in Europa" emanate essenzialmente dalla Commissione europea, sembrerebbero una progressiva attuazione delle volontà espresse dall’ERT nel 1989.

Nel 1992, l’articolo 126 del Trattato di Maastricht accorda per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia di insegnamento. A tal fine viene creata la DGXXII, la Direzione generale dell’Educazione, della Formazione e della Gioventù, diretta dalla socialista francese Edith Cresson. Si tratta di una sorta di « ministero» europeo dell’Educazione. Mme Cresson mette rapidamente in azione un « gruppo di riflessione sull’Educazione e la formazione » sotto l’egida del prof. Jean-Louis Reiffers. Dopo aver direttamente partecipato all’elaborazione del Libro Bianco « Insegnare e imparare : verso la società cognitiva », tale gruppo, nel 1996, esprime le proprie raccomandazioni. Si legge che « è adattandosi alle caratteristiche dell’impresa dell’anno 2000 che i sistemi d’educazione e di formazione potrebbero contribuire alla competitività europea e al mantenimento dell’occupazione. » [REIFFERS 1996]. Iniziative come i programmi Socrates e Da Vinci, o come il piano d’azione« Imparare nella società dell’informazione » (volte ad integrare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’insegnamento europeo) rappresentano i primi passi verso l’attuazione di una politica europea dell’insegnamento. Ma è con l’arrivo di Viviane Reding alla Commissione, nel 1999, che i desideri si cominciano ad avverare e che si passa davvero dalla fase della riflessione a quella dell’armonizzazione.

Al Summit di Lisbona, il 23 e il 24 marzo 2000, i ministri nazionali dell’Educazione hanno ufficialmente avallato i progetti rimuginati dalle signore Cresson e Reding. Nome in codice : « e-Learning ». Per l’occasione vengono riuniti, oltre ai 15 paesi membri dell ‘Unione europea, i tre paesi della Zona di libero scambio europeo più i 13 candidati ad entrare nell’Unione. L’iniziativa « e-Learning » è volta a « mobilitare le comunità educative e culturali così come i soggetti economici e sociali europei al fine di accelerare l’evoluzione dei sistemi educativi e di formazione come anche la transizione dell’Europa verso la società della conoscenza » [CCE 2001].

In applicazione alle decisioni di Lisbona, la Commissione pubblica, nell’ottobre del 2000, è il suo « Mémorandum sull’educazione e la formazione permanente » [CCE 2000-b]. Ai tempi del summit di Lisbona il Consiglio europeo aveva anche invitato il Consiglio dei ministri dell’Educazione « a intraprendere una riflessione generale sui futuri obiettivi concreti dei sistemi d’insegnamento, (riflessione) centrata sulle preoccupazioni e sulle priorità comuni ». In base ai contributi degli Stati membri, e previa discussione di un primo progetto di testo al Consiglio "Educazione" del 9 novembre 2000, la Commissione pubblica, a fine gennaio 2001, il testo strategico: "I futuri obiettivi concreti dei sistemi di Educazione » [CCE 2001].

L’idea madre, l’ideologia fondatrice di questa politica educativa comune, è riassunta come segue nella maggior parte di questi documenti : « l’Unione europea si trova di fronte ad una svolta formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a una nuova economia fondata sulla conoscenza. ». Da quel momento l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un « obiettivo strategico » proncipale : aiutare l’Europa a « diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura» [CCE 2001].

 

 

I grandi orientamenti

I cardini principali del discorso educativo europeo si possono riassumere in poche parole : competenze, formazione permanente, TIC, deregolamentazione, rapporti con le imprese, diversificazione, armonizzazione, mobilità, cittadinanza, lotta all’esclusione. Specifichiamoli alla luce dei principali documenti europei.

Competenze

Quando si tratta di contenuti da insegnare, il ruolo principale della scuola, dicono le autorità europee, non è più trasmettere saperi, ma piuttosto assicurare l’accesso a certe competenze. Si tratta, come sottolinea il Consiglio europeo riunito ad Amsterdam nel 1997, « di dare la priorità allo svilippo delle competenze professionali e sociali, per un migliore adattamento dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro » [CCE 1997].

Più in particolare, l’accento viene posto più sulle « competenze  pluridiscipinari » o « trasversali » che sulle competenze "sociali".

Così, nell’istante in cui le conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona invocano le « nuove competenze di base », quelle delle relative alle tecnologie dell’informazione, alla madre delle lingue straniere, a una cultura tecnologica, allo spirito d’impresa e alle attitudini sociali, è per aggiungere immediatamente che « non si tratta di una lista di soggetti o discipline come le abbiamo conosciute a scuola o successivamente », ma piuttosto di « vasti domini di conoscenze e di competenze, tutti interdisciplinari » [CCE 2000-b]. Lo stesso documento precisa anche quali siano le competenze sociali (« fiducia in se stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi »), e le competenze relative allo spirito d’impresa (« capacità dell’individuo a superarsi nel campo professionale », « attitudine a diversificare le attività d’impresa »).

Formazione permanente

La più citata delle competenze, quella che, dalla fine degli anni ’90, è oggetto di tutte le attenzioni da parte della DGXII, è la capacità di imparare durante tutta la vita. « Il concetto di educazione e di formazione permanente non ha più una portata restrittiva; deve ormai trattarsi di regolare l’offerta e la participazione, quali che sia il contesto di apprendimento pratico considerato ». [CCE 2000-b]

Ciò implica una ridefinizione delle missioni dell’insegnamento di base : « Una educazione di base di qualità per tutti, fin dalla più tenera età, costituisce un preambolo essenziale. L'educazione di base, seguita da una educazione e da una formazione professionale iniziali, dovrà permettere all’insieme dei giovani di acquisire tutte le nuove competenze fondamentali richieste da una società fondata sulla conoscenza. Essa dovrà anche "insegnargli ad imparare" e dargli un’immagine positiva dell’apprendimento ». [CCE 2000-b]

Questo adattamento dei sistemi educativi «  a un mondo in cui l’educazione e la formazione si perseguono durante tutta la vta » è oggi qualificato come « la più importante delle sfide con cui tutti gli Stati membri si confrontano » [CCE 2001].

Iniziazione alle TIC

Un’altra competenza cruciale, che compare con forza crescente nel discorso educativo europeo a partire dalla metà degli anni novanta, è « l’alfabetizzazione informatica ». L’Europa, scrive la Commissione, deve accelerare l’ingresso delle scuole e nei luoghi di apprendimento nell’era informatica » [CCE 2000-a]. Il summit europeo di Lisbona, nel 2000, è stato ampiamente dedicato a tale obiettivo ormai designato col termine « e-learning ». Le conclusioni del summit rivendicano d’urgenza « uno sforzo nella fornitura alle scuole di compiuter multimediali, uno sforzo per la formazione degli insegnanti europei alle tecniche informatiche, lo sviluppo di servizi e software educativi europei nonchè l’accelerazione della messa in rete di scuole e enti di formazione » [Communiqué de presse CCE, 9 mars 2000].

 

 

Deregolamentazione, autonomia

Trattandosi di strutture e modalità di gestione dell’insegnamento, la Commissione perora, da più di dieci anni, la causa di una profonda deregolamentazione: « La questione centrale, scrive nel 1995, è andare verso una maggiore flessibilità dell’educazione e della formazione, permettendo di tener conto della diversificazione degli utenti e della domanda. E’ su un tale movimento che deve ingaggiarsi, prioritariamente, il dibattito all’interno dell’Unione » [CCE 1995].

Dopo il debutto degli anni ‘90, l’Unione europea stimola e sostiene quindi le iniziative nazionali volte a « deregolamentare » i sistemi d’insegnamento, a sostituire la Scuola pubblica, gestita centralmente da livelli di gestione autonomi e in situazione di forte concorrenza reciproca. "I sistemi più decentralizzati, spiega in effetti la Commissione, sono quelli più flessibili, che si adattano più in fretta e permettono di sviluppare nuove forme di partenariato. » [CCE 1995].

Legami con le imprese

I partenariati cui ci si riferisce sono, tra l’altro, quelli che secondo la Commissione la scuola dovrebbe intrattenere con l’ambito delle imprese.

« Gli istituti scolastici, i centri di formazione e le università dovrebbero essere aperti sul mondo : è opportuno assicurare i loro legami con l’ambiente locale, con le imprese e con i datori di lavoro in particolare, per migliorare la comprensione dei bisogni di questi ultimi e accrescere in questo modo l’occupabilità dei discenti » [CCE 2001]

A Lisbona, si è deciso di « realizzare dei partenariati tra scuole, centri di formazione, imprese e istituti di ricerca, per l’acquisizione di conoscenze profique per tutti » [Presidenza del Consiglio europeo, 2000]. Il Libro Bianco del 1993 sulla competitività e l’occupazione suggeriva inoltre di sviluppare vantaggi fiscali e legali al fine di incoraggiare gli investimenti diretti del settore privato e del mondo degli affari nell’insegnamento [CEC 1993].

Diversificazione

A detta della Commissione, un'altra posta della riforma strutturale e del movimento di deregolamentazione è il « tener conto della diversità dell’utenza e delle domande. » [CCE 1995] Col medesimo spirito, l’Europa auspica di « sviluppare l’orientamento scolastico e professionale per tutti, in funzione dei bisogni in materia di formazione » e di « creare sistemi elastici di validità dei titoli » [Présidence du Conseil européen, 2000].

Mobilità

Da qualche anno le autorità europee hanno avviato un programma di convergenza dell’offerta di insegnamento superiore in Europa. In nome della mobilità degli studenti, essa si schiera a favore di un’armonizzazione nella durata dei corsi universitari, della creazione di un sistema europeo di trasferimenti di crediti (ECTS) e delle procedure comunitarie di controllo sull’insegnamento.

Su iniziativa della Confederazione europea dei Rettori e con il sostegno della Commissione, è stato intrapreso uno studio di fattibilità, a partire da un rapporto che studia il grado di convergenza e divergenza tra i sistemi d’insegnamento superiore. Questo studio è servito da piattaforma di una riunione organizzata a Bologna, il 18 e 19 giugno 1999. Ne è scaturita una dichiarazione congiunta su "lo Spazio europeo d’insegnamento superiore", firmata dai Ministri dell’Educazione di 29 Stati europei, tra cui gli Stati membri dell’Unione Europea e dello Spazio Economico Europeo.

Cittadinanza

La Commissione europea se preoccupa anche di promuovere, attraverso l’educazione, ciò che essa chiama « cittadinanza attiva » delle giovani generazioni. Si tratta, spiega Edith Cresson, di « ravvivare tra i giovani il senso di appartenenza alla società nella quale vivono e l’impegno a suo favore ». [CRESSON 1997] A tal fine essa prevede di muoversi su due piani : da una parte attraverso l’introduzione di corsi di educazione civica e, dall’altra, attraverso l’utilizzo di « pratiche pedagogiche democratiche » e la creazione di « spazi di democrazia » nelle scuole.

Lottare contro l’esclusione

Infine, le autorità europee , dall’esordio dei lavori comunitri in materia educativa, del Libro Bianco del 1995, si sono sbilanciate quanto al modo di « offrire ai giovani esclusi dal sistema educativo o in procinto di esserlo, le migliori informazioni e il migliore inquadramento per fargli acquistare fiducia in se stessi» [CCE 1995]. Quanto al modo di procedere, la Commissione europea opta per le seguenti strade: la sponsorizzazione delle scuole da parte di imprese, le convenzioni d’inserimento scuola-impresa, l’attuazione di tecnologie educative di punta.

 

Un contesto economico particolare

La politica educativa europea nasce e si sviluppa in un ambiente economico e sociale di cui bisogna tener debito conto se si vuole comprenderne la coerenza e la logica. Questo ambiente si caratterizza per un inasprimento delle lotte di concorrenza su scala mondiale, per il ricorso accelerato all’innovazione tecnologica e per la dualizzazione sociale.

L’accumulo di conoscenze induce un’accelerazione costante del ritmo di cambiamento tecnologico. Nella loro corsa alla competitività, le industrie e i servizi si saturano di tali innovazioni per ottenere vantaggi produttivi o conquistare nuovi mercati.. La guerra tecnologica, a sua volta, inasprisce le lotte concorrenziali, il che si traduce in un moltiplicarsi di fallimenti, ristrutturazioni, razionalizzazioni, chiusure aziendali e delocalizzazioni. La fuga in avanti della mondializzazione dell’economia, anch’essa favorita dallo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, non fa che acuire questa lotta mortale tra imprese, settori e continenti. Di contro, l’inasprimento delle lotte concorrenziali spinge gli industriali ad accelerare lo sviluppo e l’introduzione di nuove tecnologie nella produzione e sul mercato di massa. All’aviazione commerciale ci sono voluti 54 annni per conquistare il 25% del suo mercato potenziale negli Stati Uniti, il telefono ne ha impiegati 35, la televisione 26. Il personal compiuter, quello, ha conquistato ¼ del suo potenziale mercato in 15 anni, il telefono portatile in 13 e Internet in appena 7anni. Così, l’ambiente economico industriale è divenuto più instabile, più cangiante, più caotico di quanto non sia mai stato. L’orizzonte di prevedibilità economica si restringe senza posa.

Una società sempre più duale

La seconda caratteristica essenziale dell’ambiente economico e sociale riguarda l’evoluzione del mercato del lavoro. L’instabilità si traduce in una crescente precarietà dell’occupazione. I lavoratori sono costretti a cambiare continuamente posto di lavoro, d’impiego, il proprio mestiere. Anche la natura dell’occupazione cambia. La « nuova economia » reclama una crescita impressionante del numero di informatici, di ingenieri, di animatori specialisti di parchi informatici e di impiegati nella gestione delle risorse. E’ l’aspetto più spesso sottolineato dell’evoluzione del mercato del lavoro. Si insiste al contrario molto meno sull’altra faccia di questa evoluzione : la crescita ancora più esplosiva di un’occupazione a basso livello di qualificazione. Uno studio prospettico del Dipartimento federale dell’Occupazione, sul periodo 1998-2008, mostra che i posti di lavoro che conosceranno la maggiore espansione (non in percentuale ma in volume) sono del tipo « short term on the job training » (formazione di breve durata, « sur le tas »). Vi si trovano, alla rinfusa, impieghi da venditori, da guardiani, da assistenti sanitari, da animatori, da hôtess d’accoglienza, da conducenti di camion o anche da « riempitori di distributori di bevande e alimenti » (solo in questo settore sono previsti 250.000 nuovi posti di lavoro). Il mercato del lavoro ormai non richiede più un elevamento generale dei livelli di qualificazione, come è stato inel corso di tutto il XXimo secolo, ma un appiattimento, una costante dualizzazione di questa formazione.

Infine, l’ultima caratteristica dell’ambiente economico, anche questa una conseguenza dell’inasprimento delle lotte concorrenziali e di una curva di crescita caotica : il disimpegnarsi dello Stato vis-à-vis dei servizi pubblici. Gli ambienti economici esercitano pressioni sui governanti perché diminuiscano la pressione fiscale. Quand’anche lo volessero, le autorità politiche potrebbero resitere difficilmente a tali pressioni, la mondializzazione dell’economia rende terribilmente efficace il processo di "defiscalizzazione competitiva" .

Instabilità ed imprevedibilità dell’evoluzione economica, dualizzazione delle qualificazioni richieste sul mercato del lavoro, crisi ricorrente delle finanze pubbliche : questi sono i tre fattori che determinao, a partire dalla cerniera tra anni 80-90, una revisione fondamentale delle politiche educative, non solo in Europa, ma nell’insieme del mondo industrializzato.

 

La scuola al servizio della competizione economica

Se si ammette il postulato secondo cui la competizione economica è il solo o, in ogni caso, il miglior modo di regolamentare le attività umane, quali che siano – e tale sembra essere attualmente l’ideologia dominante all’interno dei cenacoli europei – non ci si stupirà del fatto che l’insegnamento venga a sua volta pensato come un mezzo per sostenere la competitività delle imprese. In materia di politiche educative, questo significa attualmente tre cose: (1) assicurare la qualità del capitale umano attraverso un adeguamento ottimale scuola-economia, (2) utilizzare la scuola come leva a sostegno dei mercati emergenti e (3) posizionarsi nella conquista del mercato dell’insegnamento. Puntualizziamo brevemente questi punti..

L’imprevedibilità dei cambiamenti industriali e tecnologici impedisce ogni velleità di pianificare precisamente i bisogni nella formazione. Al contrario, il ritmo sfrenato di questi cambiamenti è connesso alla precarietà dell’occupazione che costringe i lavoratori a cambiare frequentemente impiego o il posto di lavoro ed esige una grande capacità di adattamento piuttosto che specifiche qualifiche. La nostra società, spiega la cellule Eurydice fondata dalla Commissione europea per osservare l’evoluzione dei sistemi educativi europei, « ha bisogno di lavoratori più adattabili, sempre più in grado di svilgere manzioni diversificate " [EURYDICE 1997]. E, per la Commissione : « Economies are evolving rapidly and to remain competitive, Europe needs to ensure that its human resources are equipped for the challenge » [Communiqué de presse CCE, 17 et 18 mars, 2000] (ndt: "Le economie stanno evolvendo rapidamente e, per rimanere competitiva, l’Europa deve assicurarsi che le proprie risorse umane siano preparate al cambiamento").

Flessibilità dei lavoratori ma anche flessibilità della Scuola. I sistemi educativi organizzati e finanziati completamente dallo Stato, sono giudicati " troppo rigidi per permettere al corpo docente di adattarsi agli indispensabili cambiamenti richiesti dal rapido sviluppo delle tecnologico moderno e dalle ristrutturazioni industriali e terziarie" (Table Ronde des Industriels Européens, 1989). Nel 1995, in un nuovo rapporto, essa ribadisce : « Nella maggior parte dei paesi d’Europa, le scuole integrate in un sistema pubblico centralizzato, sono gestite da una burocrazia che ne rallenta l’evoluzione  o le rende impermeabili alle richieste di cambiamento che vengono dall’esterno » (Table Ronde des Industriels Européens, 1995). In realtà, questi "sistemi pubblici centralizzati" corrispondevano perfettamente ai bisogni degli ambiti economici del trentennio glorioso, quando la crescita continua dell’occupazione e l’elevamento generale dei livelli di formazione richiesta sostenevano una domanda costante di massificazione dell’insegnamento. Ma le recenti svolte economiche – globalizzazione, corsa alla competitività, cambiamenti tecnologici, deregolamentazione e dualizzazione del mercato del lavoro – hanno indotto una domanda ormai molto più qualitativa: la scuola deve soprattutto essere in grado di adattarsi rapidamente.

Non solo c’è scarsa domanda di una estensione quantitativa dell’insegnamento (se si eccettua qualche specifica filiera legata alle tecnologia di punta) ma, piuttosto, la dualizzazione del mercato del lavoro tende anche a giustificare un regresso, una certa de-massificazione dell’accesso all’insegnamento superiore e secondario generale, in tutti i casi un abbandono delle ambizioni democratiche di cui ancora si faceva sfoggio in materia più o meno vent’anni fa .

In un contesto di inasprimento delle lotte concorrenziali, sembra ugualmente cruciale, agli occhi dei pensatori liberali, che i poteri pubblici sostengano la creazione e la conquista dei mercati emergenti, legati alle nuove tecnologie. Anche là, l’insegnamento può giocare un ruolo importante. Così, secondo la Commissaria all’Educazione Viviane Reding, « per l’Europa è vitale colmare il proprio deficit rispetto agli Stati Uniti nel campo dell’informatica (…). La realizzazione di questo obiettivo passa prima di tutto attraverso l’educazione : l’acquisizione scolastica di una cultura informatica e lo sviluppo della formazione permanente ». [CCE, Communiqué de presse 27 mars 2000]

Il programma europeo « e-Learning » è l’applicazione specifica, sul terreno dell’insegnamento, del progetto « e-Europe » che rappresenta esso stesso il tema generale del summit di Lisbona. Il dogma su cui poggia e-Europe è che l’avvenire economico dell’Europa dipende dalla sua capacità di raggiungere gli Stati Uniti nel campo della « cultura informatica », del commercio elettronico, dello sviluppo di imprese nei settori dell’informatica, della comunicazione e del multimediale. A partire da questo presupposto, si conclude che bisogna prima di tutto, « introdurre in Europa una cultura informatica sostenuta da uno spirito d’impresa ». Si tratta di « far entrare tutti i cittadini, foyers, imprese, scuole e amministrazioni nell’era informatica », di « vegliare a chè l’insieme di questi processi abbia una vocazione all’integrazione sociale (e) conquisti la fiducia del consumatore» [CCE 2000-c]. Se non è chiaro in che modo l’introduzione delle TIC possa favorire l’integrazione sociale, è ben evidente, di contro, perché sia necessario "riprogrammare" il consumatore. Oggi, "un numero troppo limitato di persone (è) dotato di una cultura informatica e di un accesso in linea». I consumatori devono quindi urgentemente "acquisire le competenze che gli permettano di trovare su Internet  le informazioni che cercano » [CCE 2000-c].

Ora, ci dice il rapporto Reiffers, « si può dubitare che il nostro continente possa vere il ruolo industriale che gli compete su questo nuovo mercato, se i nostri sistemi scolastici e di formazione non rispondono rapidamente. Lo sviluppo di queste tecnologie, in un contesto di forte concorrenza internazionale, ha bisogno di giocare pienamente sugli effetti di scala. Se il mondo dell’educazione e della formazione non li utilizzano, il mercato europeo diventerà troppo tardi un mercato di massa e l’auspicata evoluzione dell’educazione e della formazione sarà realizzata da altri» [REIFFERS 1996].

All’insegnamento viene pertanto ingiunto di « fare della cultura informatica una delle conoscenze di base di tutti i giovani europei » [CCE, Communiqué du 27 mars 2000].

Ma l’insegnamento non deve solo aiutare a sostenere altri mercati, è esso stesso un formidabile mercato in divenire. La dualizzazione del mercato del lavoro generata per poche famiglie – che, per la propria appartenenza sociale, destinano i loro figli alle cariche più elevate – porta a una strategia di « soprainvestimento scolastico ». Si cerca di favorire con tutti i mezzi la posizione competitiva dei propri figli sul mercato del lavoro. Quello che, per inciso, altra non è che una dimensione marginale dell’economia informale, si trasforma in un mercato gigantesco grazie alle opportunità offerte dall’insegnamento "on line". La crescente domanda di formazione permanente contribuisce anch’essa a sostenere la crescita del mercato dei servizi educativi. Si trovano ormai su Internet corsi particolari, siti per il sostegno scolastico o di aiuto nella preparazione di esami. Il definanziamento dell’insegnamento, infine, in particolare per le scuole superiori, aumenta i costi delle iscrizioni e si trasforma, una volta ancora, in mercato. Secondo il consulente americano Eduventures, specializzato in Education-Business, « Gli anni 90 resteranno negli annali per l’aver permesso la maturazione dell’insegnamento di mercato ("for-profit education"). Le fondamenta della vibrante industria educativa del XXIe secolo – iniziative imprenditoriali, innovazioni tecnologiche e opportunità di mercato – hanno iniziato a muoversi per raggiungere la propria massa critica ». [Newman 2000].

La Commissione Reiffers stima che « è arrivato il tempo dell’educazione fuori della Scuola e che la liberalizzazione del processo educativo, così reso possibile , sfocerò in un controllo operato dalle offerte educative più innovative piuttosto che dalle strutture tradizionali. » [REIFFERS 1996]

Alla luce dell’analisi precedente, i grandi orientamenti della politica educativa europea si chiariscono e disvelano la loro logica..

Sviluppare le proprie competenze durante tutta la vita

Lo scivolamento dei saperi verso le competenze è spiegato quindi non da un sussulto d’innovazione pedagogica, come si potrebbe ritenere, ma essenzialmente da una volontà di adeguamento della mano d’opera ad un ambiente di produzione caotico e dualizzato. Per quel 20-25% di manodopera che occuperà i posti a un livello molto alto di qualificazione, i saperi scolastici sono per lo più obsoleti. Per il 40- 50% dei posti a livello di qualificazione molto basso, sono superflui. Dal che la volontà di concentrare la formazione su quelle competenze di base comuni a tutti : lettura, scrittura, calcolo, alfabetizzazione informatica, adattabilità, capacità di risolvere problemi, competenze sociali, etc… Secondo un rapporto Eurydice, « Le conoscenze evolvono ad un ritmo tale che le scuole sono costrette de a dotare gli allievi di basi che gli permettano di sviluppare autonomamente le proprie conoscenze » [EURYDICE 1997]. « Non è sufficiente saper leggere, scrivere e fare di conto », spiega ancora la Cellula Eurydice, « bisogna anche didattizzare le nuove forme di comunicazione e di accesso all’informazione ».

Il rapporto sugli obiettivi futuri dell’insegnamento sottolinea la medesima idea con maggior chiarezza : « In un ambiente professionale, la complessità dell’organizzazione del lavoro, la moltiplicazione dei compiti affidati ai salariati e l’introduzione di regimi di lavoro flessibili e di formule di lavoro di gruppo, costringono i lavoratori a possedere, più dei loro predecessori, competenze relative agli aspetti puramente tecnici della loro professione. La gamma di competenze utilizzate sul luogo di lavoro si amplia senza posa. […] La più importante di queste attitudini è la facoltà di imparare » [CCE 2001].

Analogamente, l’idea di una formazione "permanente" è, nello spirito dei decisori europei, essenzialmente pensata in termini di occupabilità e di produttività. Il lavoratore deve dar sfoggio delle sue conoscenze e delle sue competenze nel corso della propria vita professionale, ma farà soprattutto in modo che tale formazione non continui a essere a carico del suo datore di lavoro. Si tratta, quindi, di "responsabilizzare" il lavoratore, di individualizzare il suo rapporto con la formazione. « In seno alle società della conoscenza, spiega la Commissione europea, il ruolo principale spetta agli stessi individui. Il fattore determinante di questa capacità che ha l’essere umano di creare e mettere in pratica le conoscenze in modo efficace, in un ambiente in continua evoluzione. Per trarre la parte migliore di questa attitudine, gli individui dovrebbero avere la volontà e i mezzi per prendere in mano il proprio destino ». [CCE 2000-b]

« Imparare ad imparare, ad adattarsi al cambiamento e a decodificare importanti flussi d’informazione », queste sono ormai le competenze generali che ognuno dovrebbe acquisire, conclude la Commissione. « I datori di lavoro esigono sempre di più capacità di imparare, di assimilare rapidamente le competenze e di adattarsi a nuove sfide e contesti. » [CCE 2000-b].

Tecnologie dell’informazione e della comunicazione

La fortissima volontà, espressa dalla Commissione Europea, di accelerare l’introduzione delle TIC nella scuola è stata spesso giustificata in nome delle potenzialità che tali tecnologie offrirebbero sul piano pedagogico. Evidentemente qui non è questione di contestare queste possibilità, ma non dimeno è stupefacente notare come il compiuter e Internet siano stati bruscamente elevati al rango di priorità in materia d’innovazione scolastica. Perché un tale slancio ? La risposta, una volta ancora, stilla dalle fonti quando si capisce che l’insegnamento in Europa è pressocchè esclusivamente pensato come vettore della crescita economica.

A dar credito alla relazione sugli « obiettivi futuri concreti dell’insegnamento », tutti gli Stati membri dell’Unione pensano che sia necessario «  rivedere le competenze di base che i giovani dovrebbero possedere al momento di lasciare la scuola o la formazione iniziale, in modo che queste includano pienamente le tecnologie dell’informazione e della comunicazione » [CCE 2001]. Questa introduzione delle TIC sulla cattedra scolastica, persegue tre obiettivi principali: (1) preparare la mano d’opera ad evolvere in un ambiente dominato dalle tecnologie, (2) assicurare la flessibilità di tale mano d’opera utilizzando le TIC come mezzo per facilitare la formazione permanente e (3) sostenere il mercato europeo delle TIC.

Quanto al primo punto, è sufficiente ricordare che più del 70% degli impieghi che si creano attualmente fanno ricorso all’utilizzo di un’interfaccia informatica. La maggior parte dei giovani devono quindi imparare a trattare informazioni complesse, non ad utilizzare il compiuter come fosse un’estensione ed un catalizzatore della loro intelligenza, ma piuttosto a rispondere agli ordini di uno schermo e a manipolare un mouse. Ed è sfortunatamente, ma logicamente, a questo che si riduce troppo spesso l’utilizzo dei compiuter in classe.

Ma la commissione ricorda che si tratta anche di « mettere il potenziale delle nuove tecnologie al servizio delle esigenze e della qualità della formazione permanente ». "Si tratterà di offrire le garanzie d’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per tutti quelli che si formano, […] la formazione all’uso di queste tecnologie, in particolare "per imparare", assicurare la disponibilità di servizi e di prodotti multimediali europei di qualità » [CCE 2000-a].

Il riferimento pedagogico quindi non è del tutto assente dal discorso della Commissione. Nel Libro Bianco del 1995 essa insiste "sulla necessità di un incoraggiamento alla produzione europea di software educativi » [CCE 1995].

Ma l’illusione non dura a lungo. Mme Reding ci spiega che si tratta piuttosto di « stimolare l’emergere di un’industria europea nel multimedia e nei servizi accessibili on line ». "La società dell’informazione deve utilizzare in Europa dei contenuti europei» martella la Commissaria dell’educazione. E precisa che « in questo campo, in modo particolare, un partenariato con l’industria è necessario » [CCE, Communiqué du 9 mars 2000].

Nel suo piano d’azione 1996-1998, « Imparare nella società dell’informazione », la Commissione europea spiega che, se la Scuola deve assolutamente rimettersi al multimediale, ai software e ad Internet, è perchè « questo settore d’attività, con lo sviluppo dei nuovi prodotti e dei nuovi servizi, è promettente » ma che « un numero troppo piccolo di utenti e di ideatori penalizzerebbe durevolmente l’industria europea del multimediale ».

Cioè perché "l’iniziativa europea in materia permetta alla fine di ottenere più rapidamente un sufficiente numero di utenti (…) e di avviare la formazione di un reale mercato multimediale educativo europeo » [CCE 1996].

Nel 1994, la Tavola Rotonda Europea degli industriali chiedeva ai responsabili dell’insegnamento di « utilizzare la quantità molto limitata di soldi pubblici come catalizzatore per sostenere e stimolare l’attività del settore provato » [ERT 1994]. Nel 1997, l’associazione padronale è soddisfatta per essere stata capita : « L'uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nel processo educativo sta per imporre importanti investimenti in termini finanziari e umani. Questi genereranno dei benefici commensurati alla misura della posta in gioco » [ERT 1997].

Per cento anni la scuola è servita per inculcare alle giovani generazioni l’amor patrio, al fine di trasformarle in carne da cannone per la grande guerra imperialista. Oggi, la scuola è incaricata di fare di loro zelanti consumatori di Web, per condurre la grande guerra commerciale dell’era informatica. E un po’ meno sanguinoso (a condizione di chiudere gli occhi sulle malefatte della « nuova economia » nei paesi in via di sviluppo). Ma non è meno interessato e non rende la scuola migliore.

Deregolamentazione e apertura all’impresa

Le raccomandazioni europee in materia di riforma strutturale dei sistemi d’insegnamento, la deregolamentazione dell’insegnamento pubblico a vantaggio di livelli di gestione più autonomi e concorrenziali, sono anch’esse ispirate dalla preoccupazione di un adeguemento ai bisogni dell’economia di mercato. Per la Tavola Rotonda degli Industriali, « la resistenza naturale dell’insegnamento pubblico tradizionale dovrà essere superata attraverso l’utilizzo di metodi che combinano l’incoraggiamento, l’affermazione di obiettivi, l’orientamento verso l’utente e la concorrenza, soprattutto quella del settore privato » [ERT 1989].

Ciò che si sottolinea è, prima di tutto, la capacità d’adattamento dell’insegnamento a un ambiente in mutazione costante e rapida. La Commissione Reiffers, riprende questa idea quando spiega che è « attraverso una maggiore autonomia dei soggetti responsabili chiaramente informati delle missioni che gli sono attribuite che i sistemi educativi e di formazione potranno adattarsi meglio » [REIFFERS 1996].

Ma si tratta anche di aprire la scuola al settore privato. Da un lato nella forma di partenariati, dall’altro in quella di una pura e semplice privatizzazione. "La maggiore libertà di cui dispongono i dirigenti, dice il rapporto sugli Obiettivi concreti futuri, permette loro di concludere un tipo diverso di partenariati con i poteri pubblici, (partenariati) che non siano solo bilaterali ma multilaterali e che inglobino non solo gli altri soggetti del mondo dell’educazione e della formazione (come le università, le scuole ordinarie o altre istituzioni scolastiche), ma anche organismi privati come le imprese» [CCE 2001].

Poco a poco tale deregolamentazione mina l’insegnamento pubblico tradizionale e, com è sottolineato ancora dal gruppo di lavoro Reiffers, « la liberazione del processo educativo resa in questo modo possibile sfocerà in un controllo da parte di fornitori educativi più innotavitivi che non le strutture tradizionali. » [REIFFERS 1996]

Secondo la Commissione, la riuscita della sua politica d’insegnamento « dipenderà (...) dalla volontà delle imprese a cooperare col settore educativo, per esempio attraverso dei partenariati tra settori pubblici e privati » [CCE 2000-c]. Questa volontà comunitaria di sviluppare un legame tra la scuola e l’impresa si spiega facilmente nel quadro analitico che abbiamo sviluppato. Il primo obiettivo cui ci si volge è evidentemente di assicurare così un migliore adeguamento tra le formazioni scolastiche e i bisogni delle imprese. Il Documento "Obiettivi futuri dell’insegnamento in Europa" spiega questo fine: « E’ generalmente ammesso che le istituzioni scolastiche e gli istitui di formazione debbano stabilire dei legami con il mondo delle imprese. In numerosi paesi, tali legami sono inerenti la presenza di partenariati sociali nell’organizzazione e della formazione e rappresentano con ogni evidenza una componente essenziale del processo volto a garantire la capacità d’inserimento professionale. Nondimeno le imprese locali sono una risorsa per altri aspetti: forniscono una indicazione quanto ai bisogni futuri di qualificazione nell’area interessata, rappresentano una fonte d’informazione potenziale per i discenti quanto al modo di funzionare del mondo delle imprese, etc » [CCE 2001].

Ma la collaborazione scuola-impresa ha lo stesso un’importante dimensione ideologica. Per il sistema d’insegnamento come tale e anche per i discenti. I dirigenti europei sanno bene che il mondo dell’insegnamento è per tradizione piuttosto ostile all’intervento di impiegati nel loro mestiere. Essi chiedono quindi agli insegnanti di « riflettere sul problema di sapere se le loro posizioni nel rapportare le imprese e i partenariati stranieri con il sistema d’insegnamento siano ancora valide all’alba del nuovo millennio. (…) Per la società potrebbe essere opportuno incoraggiare un tale interesse piuttosto che escluderlo. I sistemi educativi dovranno riesaminare le loro pratiche per determinare ciò che la partecipazione delle imprese potrebbe insegnargli al fine di motivare i discenti e di dare alle istituzioni scolastiche o agli istituti di formazione una nuova prospettiva » [CCE 2001].

Nel caso degli alunni, i motivi ideologici della collaborazione scuole-impresa attengono a ciò che viene pudicamente chiamato « spirito d’impresa ». Questo non vuol dire altro che l’assoggettamento dei loro stessi desideri e interessi a quelli dell’impresa per la quale si lavora, la forma ultima dell’alienazione del lavoratore da parte del capitale. Per il documento di sintesi sugli Obiettivi dell’insegnamento, lo spirito d’impresa è " uno spirito attivo e reattivo che la società nel suo insieme si dà a valorizzare e nel quale essa deve investire. Le scuole e gli istituti di formazione dovranno includere questi elementi nei loro programmi e operarsi a chè i giovani possano entrare in questo dominio fin dalla più giovane età » . E più avanti il documento precisa : « le scuole dovranno anche coltivare i contatti che intrattengono con le imprese del loro ambiente diretto allo scopo di presentare quelle capaci come modelli durante le lezioni dei corsi di educazione civica » [CCE 2001]

Verso la privatizzazione

La creazione di uno «  spazio europeo » d’insegnamento superiore è ufficialmente motivata dalla volontà di offrire agli studenti una maggiore mobilità, armonizzando i corsi e il controllo di qualità ed emettendo titoli comuni . Ma perché repentinamente una tale voglia di « mobilità » ? Di nuovo, il contesto economico globale ci illumina. La fine della massificazione dell’insegnamento e la permanenza di forti vincoli di austerità finanziaria trascinano ad un processo di razionalizzazione dell’offerta d’insegnamento superiore che s’iscrive esso stesso nel (e di contro alimenta il) vasto movimento di privatizzazione dei servizi educativi. Se si vuole che l’Europa occupi il suo posto in questo mercato mondiale in divenire, bisogna creare sul Vecchio Continente le condizioni che permetteranno l’emergere di gruppi dirigenti competitivi, capaci di fare concorrenza alle più prestigiose università americane, Tale è la funzione dello "spazio europeo" d’insegnamento superiore. La mobilità degli studenti è condizione per un buon funzionamento del mercato scolastico. Vale lo stesso per le diverse iniziative volte a promuovere i sistemi di valutazione che valutano e riconoscono le competenze, l’esperienza e il sapere acquisiti in extremis e nei diversi ambiti nonchè incluse in un contesto non formale o informale.

Così, dietro le velleità regolatrici della Commissione si nasconde una profonda volontà di deregolamentare il sistema aprendolo alle leggi caotiche della concorrenza.

La Commissione ha anche capito molto in fretta che l’insegnamento a distanza – notoriamente l’insegnamento in rete – sarà uno dei principali vettori della crescita del mercato dei servizi educativi (più del 50% degli investimenti nell’ Education Business americano nel 2000 hanno riguardato o l’una o l’altra forma d’insegnamento a distanza). Prevedendo una azione dell’Unione nel campo educativo e della cultura, i trattati europei hanno "d’emblée" limitato le competenze nazionali in materia. Così il trattato CEE prevede che « l'insegnamento privato a distanza è un servizio », e la libera prestazione di servizi è garantita dall’articolo 59 e seguenti del medesimo trattato.

« Cittadinanza » e « lotta al fallimento »

Che rimane, dopo tutto questo, della volontà espressa da Edith Cresson di promuovere la cittadinanza a/e attraverso la Scuola e di lottare contro l’esclusione e il fallimento scolastico ? Non molto, a dire il vero. E’ significativo constatare che queste due dimensioni delle riforme dei sistemi d’insegnamento europei sono completamente assenti dai documenti più recenti. Sembra che non siano servite ad altro, all’epoca, che da alibi ideologici.

Si tratta ormai di una pratica corrente in numerosi paesi : in nome della lotta contro il fallimento scolastico si abassano i livelli di esigenza per quelli che hanno più difficoltà. La lotta contro il fallimento diventa così, paradossalmente, il pretesto per una crescente polarizzazione del sistema. E’ ciò che il gruppo di riflessione Reiffers chiamava « interessarsi maggiormente ai due estremi della catena più direttamente interessati dalle moderne evoluzioni: a) coloro che si confronteranno nella competizione internazionale (qualifiche specializzate alte o più basse) con i loro omologhi di altre parti del mondo ; b) coloro che verranno esclusi dalla società cognitiva perché non avranno i mezzi per inserivisi. (…) Uno sforzo particolare dovrebbe essere fatto su questi due estremi » [REIFFERS 1996].

Lo sforzo, si sarà capito, non consiste nell’avvicinare questi estremi ma, al contrario, nell’adattare ai bisogni la loro formazione : elevare il livello dei primi (eventualmente facendo ricorso all’insegnamento privato e di mercato) e abbassare quello dei secondi al rango di acquisizione di vaghe competenze sociali e trasversali. Ecco qui ciò che si chiama « lottare contro il fallimento scolastico ».

Quanto alla « cittadinanza », ecco davvero un concetto che può assumere i significati migliori come quelli peggiori a seconda del senso che gli viene dato. Se lo si intende nel senso dell’accesso, per ogni cittadino, ai saperi che danno la forza di capire il mondo nelle sue molteplici dimensioni – sociale, tecnologica, scientifica, storica, economica, culturale, filosofica, artistica – e come possibilità di prendere parte attiva nella trasformazione comune di questo mondo verso una maggiore giustizia, equità e razionalità, allora la cittadinanza è la più bella delle missioni che possa colmare la Scuola. Ma si potrebbe anche intendere questo termine nel senso di una specie di istruzione civica volta ad inculcare la fede nella società occidentale, con la libertà di mercato che fa da centro di gravità .

Tutto ciò che precede mostra che, sfortunatamente, non c’è alcun dubbio quanto al senso dato a tale termine dalle autorità europee.

Del ruolo della Commissione europea

Dalla fine degli anni ‘80, si assiste ad un crescente intervento della Commissione europea nella sfera educativa. Il principale orientamento di tale intervento è stimolare una politica d’insegnamento comune, le cui ambizioni sono chiaramente di ordine economico. Gli Stati europei si lasciano quindi condurre alla col frustino dalla Commissione ?

J. Field, ricercatore all’Università d’Ulster, nota che la concezione europea di apprendimento « permanente » è « largamente definita in termini di occupabilità e di obiettivi economici» [FIELD 1997]. Da parte sua, M. Murphy, della Northern Illinois University, fa notare che « la decisione politica di incoraggiare l’apprendimento a vita è destinata a fornire alle grandi imprese europee l’infrastruttura educativa essenziale ai fini del mantenimento dei loro tassi di profitto » [MURPHY 1997].

Ancora vagamente camuffata al suo debutto, questa strumentalizzazione dell’insegnamento al servizio della competizione economica è oggi esplicitamente acquisita. « L'Europa evolve verso una società e una economia fondate sulla conoscenza. Come mai prima d’ora, l’accesso a informazioni e conoscenze in tempo reale, piuttosto che la capacità di utilizzare queste risorse intelligentemente, per un fine personale o nell’interesse della collettività, condizionano la competitività dell’Europa e il miglioramento delle capacità d’inserimento professionale e d’adattamento della manodopera » [CCE 2000-b]. Tutto il resto è solo secondario e può essere oggetto di politiche differenziate, tra un paese e l’altro, a seconda delle peculiarità culturali, storiche di ogni sistema d’insegnamento. Perché, sottolinea la presidenza portoghese del summit di Lisbona : « la diversità dei sistemi educativi e di formazione degli Stati membri è considerevole ma, quali che siano gli obiettivi più generali perseguiti in materia di sviluppo personale, sociale e culturale dei cittadini, l’adattamento della formazione alle esigenze dei nuovi impieghi è una preoccupazione comune  ».

L’alibi dell’occupazione

E’ necessario tornare un momento all’argomento argomento a favore di questa politica dell’educazione : l’occupazione.

Secondo la Commissione, « il deficit e l’inadeguatezza delle qualifiche sono ampiamente riconosciuti come tra i principali motivi che spiegano la persistenza di una tasso di disoccupazione elevato »[CCE 2000-b]. E il documento sottomesso al Consiglio di Lisbona dalla presidenza portoghese sottolinea che bisogna « orientare le politiche educative e della formazione in modo tale che esse favoriscano la creazione di occupazioni qualificate molto numerose » [Présidence du Conseil 2000].

Ma da quando in qua l’occupabilità dalla manodopera favorisce l’occupazione ? Quale datore assumerà quattro lavoratori invece dei tre di cui ha bisogno semplicemente perche trova sul mercato del lavoro un maggior numero di candidati qualificati?

Gli studi elaborati dai pensatori neo-liberali sulla teoria del « capitale umano » hanno certo messo in evidenza una stretta correlazione tra il livello di formazione delle persone e il loro accesso al mercato del lavoro. Di contro, non hanno mai potuto evidenziare tale correlazione sul piano macro-economico. In altre parole, è vero che è meglio piazzato sul mercato del lavoro chi dispone di una formazione che risponde ai tentativi dei datori di lavoro, che non chi non ne dispone. E’ evidente. Ma avrete un bel da fare a formare questi ultimi, questo non creerà dell’occupazione supplementare e non farete che ridistribuire le possibilità relative agli uni e agli altri relativamente all’accesso all’impiego.

Quando la Commissione afferma che i suoi programmi (Socrates, Leonardo Da Vinci et Jeunesse) « permetteranno a due milioni di cittadini europei di acquisire nuove competenze e di imparare nuovi linguaggi, cosa che non può che favorirne le prospettive di occupazione » [CCE, communiqué du 9 mars 2000], lascia intendere che si creeranno in questo modo due milioni di posti di lavoro in più. In relatà, questi nuovi due milioni di lavoratori qualificati verranno semplicemente a rinforzare la riserva di manodopera "occupabile". Da cui un’accresciuta pressione sui salari, sui ritmi di lavoro e sulle protezioni sociali dei lavoratori attivi. E questo, particolarmente, nei settori in cui i datori si lamentano di una "penuria" di manodopera, cioè là dove il tasso di disoccupazione è caduto sotto la fatidica barriera del 4% producendo un guadagno di rivendicazioni sociali.

La riduzione del costo del lavoro che risulterà da questo processo potrà, senza dubbio, favorire la creazione di nuova occupazione.... per il tempo che impiegheranno i nostri concorrenti americani o giapponesi per recuperare questo piccolo ritardo. Ma si tratterà sempre più spesso di impieghi precari, sottopagati e sottoqualificati. Intanto, l’aumento di produttività che sarà scaturito da una manodopera meglio formata, più flessibile, contribuirà a permettere alle imprese di produrre profitti con meno manodopera. Alla somma dei conti, la politica europea ci coinvolge proprio in un ciclo di impoverimento .

 

Qualcuno obietterà senza dubbio che il quadro non è così nero. Che ci sono anche aspetti positivi nelle evoluzioni dell’insegnamento. Certo, l’introduzione delle TIC a scuola può anche essere l’occasione per i professori di innovare le loro pratiche pedagogiche nella direzione di una partecipazione più attiva degli allievi. Certo, ci sono competenze reclamate dal mondo padronale che sono ugualmente cruciali se si concepisce l’educazione come un’arma di emancipazione collettiva : la capacità di risolvere problemi e di imparare in tutta autonomia, per esempio. Certo, è meglio che tutti i lavoratori siano occupabili ( liberi dall’essere impiegati permanentemente) piuttosto che a contendersi sempre le sterre sottoqualifiche in una disoccupazione quasi-permanente. Certo. Ma ci si può accontentare di una politica globalmente negativa che presenta per caso qualche aspetto positivo?

Il ruolo crescente della Commissione

Il summit di Lisbona è una svolta nella storia della politica d’insegnamento europea. Esso segna il riconoscimento ufficiale del ruolo dirigente che le istituzioni europee sono chiamate a svolgere nella politica educativa. « Le politiche europee in materia di educazione e formazione », scrive la presidenza portoghese «  devono proiettarsi oltre le riforme successive dei sistemi esistenti. Devono avere come obiettivo la costruzione di uno spazio europeo di educazione e formazione permanente e l’emergere di una società cognitiva» [Présidence du Conseil 2000]. Per questo conviene adottare « un tavolo europeo che definisca le nuove competenze di base di cui l’educazione e la formazione permanente devono permettere l’acquisizione: competenze in tecnologie dell’informazione, lingue straniere, cultura tecnologica, spirito d’impresa e attitudini sociali » [Présidence du Conseil, 2000].

Poco alla volta, le autorità nazionali dei paesi membri sembrano cos’ delegare alla Commissione il potere di decidere sui grandi orientamenti in materia d’insegnamento. Nel documento "obiettivi futuri", esse lasciano scrivere alla Commissione nel 2001 : « Dobbiamo certo preservare le differenze di struttura dei sistemi che riflettono le identità diei paesi e delle regioni d’Europa, ma dobbiamo anche ammettere che i nostri obiettivi principali, e i risultati cui tutti miriamo, sono molto simili ». E la Commission ad aggiungere « che nessuno Stato membro è in grado di fare tutto ciò da solo. Le nostre società, come le nostre economie, sono oggi troppo interdipendenti perché tale opzione sia realista » [CCE 2001].

Sembra tuttavia esserci un paradosso in tutte queste dichiarazioni. Se è vero che gli obiettivi sono largamente convergenti, che i sedici ministri dell’educazione hanno una visione comune degli orientamenti proncipali della politica dell’insegnamento – e come dubitarne dopo Lisbona e il documento di sintesi sugli "obiettivi futuri" ? – allora perché è necessario delegare una maggiore autorità alla Commissione? Perché c’è bisogno di una autorità superiore se il livello inferiore sa perfettamente cosa deve fare e ha espresso chiaramente il desiderio di tenerci? Per due ragioni. Primo, inserendo la politica d’insegnamento in un processo europeo comune, ci si premunisce contro le velleità dell’uno o dell’altro ministro dell’Educazione un po’ meno zelante, un po’ più critico o più reticente di fronte alle esigenze delle lobby padronali. Secondo, la Commissione europea serve a coprire i ministri nazionali che, perquanto fondamentalmente daccordo con gli orientamenti della politica educativa comune, sperimenteranno qualche difficoltà nel farla accettare all’opinione pubblica. Ci si rifugia quindi dietro « i nostri impegni europei » e alle « decisioni di Bruxelles », il tutto con la promessa di « fare di tutto per preservare la nostra peculiarità ». Così, durante dieci anni, la Commissione è stata il porta-voce che acclamava con toni sempre più alti una politica d’insegnamento voluta dalle autorità nazionali che, tuttavia, queste esiterebbero a presentare chiaramente alle rispettive opinioni pubbliche.

 

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(*) Articolo originale: http://users.skynet.be/apedù


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