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Lettera agli Insegnanti italiani di James Hillman

 

Ti racconto di lui, ragazzino di 13 anni, che mi segue mentre vado alla macchina nel parcheggio della scuola.

Non mi vuole lasciare andare via.

Devo conoscere, in segreto, il suo segreto.

Devo sapere che suo padre lo amava, che suo padre ce l’ha messa tutta per essere come gli altri, che alla televisione raccontano quello che vogliono e non sanno.

Devo sapere che suo padre in comunità faceva il pane e che lui lo aiutava quando andava a trovarlo.

" Lo so fare anch’io il pane. Mi piace la farina sulle mani. Sale acqua farina; si impasta, si fanno le forme.Ero piccolo. Rimanevo anche quindici giorni. Mi piaceva stare lì. Sì, era proprio bello!"

Non ci sarà più quel pane nel suo futuro; solo farina da plasmare assieme ai ricordi e il profumo della crosta un po’ bruciata, quel profumo che sa di casa e di intesa.

Ma io devo sapere che suo padre era unico, che gli è sempre stato vicino.

Devo sapere che lui ogni giorno prende la corriera e lo va a salutare con un mazzo di fiori, perché suo padre è sempre suo padre.

" Mi ascolta sai. Mi ascolta ed io gli parlo. Vado anche dalla nonna. E’ triste la nonna. Piange. Io non piango. No, io non piango, perché lui mi ascolta. E’ bravo mio papà. Anche il mio nuovo papà è bravo. Gli voglio bene. Studierò. Voglio fare il cuoco. A me piace fare il pane."

Tutta la sofferenza in suoni frantumati, la voce di chi non si sa spiegare perché a scuola si debba studiare la matematica, che è solo numeri, mentre i suoi conti in fatto di esistenza non hanno nessuna spiegazione. Ed io mi fermo dentro il suo sguardo troppo azzurro da farmi annegare.

"Passavo di qui. Sono venuto a salutarvi. Come state?" Così mi dice ora, quando, ormai ragazzone, entra, dopo aver bussato con impeto, nella mia classe, mentre sto facendo lezione. E mi dà del voi. Quasi fossi una donna d’altri tempi. E mi assale la tenerezza nel sentire le sua parole, ancora un po’ stentate, ma con una nuova consapevolezza.

" Ero il più bravo di storia nella mia classe. Nessuno era come me. Io sapevo tutti. Gli altri, oh, proprio niente! Lavoro tanto. Sono felice, sì, sono contento; ho anche un po’ di soldi."

Mi sfiora appena con gli occhi. Poi si guarda attorno; non si ferma, non si posa, fugge, fugge ancora. Parla rivolto verso i ragazzini che lo ascoltano in assoluto silenzio, ma fissa un orizzonte tutto suo. Poi di nuovo si posa su di me la luce trafitta di quelle pupille celestiali: qualche istante e poi ancora via.

"Voi siete brava. Quando ho tempo torno a salutarvi. Vi penso sempre."

Allunga la mano candida come la farina. Mi sfiora le guance in un bacio che parla. Sento le mia lacrime trattenute. Brillano dentro, nel profondo, come gocce di rugiada sotto la luna, i nostri segreti.

Io conoscevo la sua storia.

"Ragazzo difficile…padre…eroina…inquieto…ma, forse dislessico, disgrafico…non ha regole, non conosce disciplina…ribelle…un caso proprio particolare."

L’ho voluto nella mia classe. Non ho incontrato opposizioni. Sentivo che avrei potuto provare a capirlo, magari a fatica, ma volevo tentare, perché la sua storia mi apparteneva, aveva sconquassato anche la mia famiglia. Sapevo che avrei potuto mettere a disposizione tutto il mio dolore per alleviare un po’ il suo. A cosa serve un’insegnante se non per comunicare esperienza, quella vera, vissuta, quella che ti sfrangia la vita ma che ti insegna ad andare avanti sognando ancora. Sapevo che prima di tutto avrei dovuto ascoltare, non giudicare. Ascoltare anche chi cerca le parole e non ha sempre la risposta pronta.

Si sedeva accanto a me quando leggevamo dall’antologia.

Stentava ad allacciare una sillaba all’altra e certi suoni, come casa, figlio, pane lo facevano scivolare nella sua frastagliata realtà. Ma poi trovava un appiglio e allora raccontava con gioia del burrascoso mondo con il quale quotidianamente si confrontava. Non importa la logica, la costruzione: quando i sentimenti prendono il sopravvento bisogna stare a sentire.

Grazie a lui, ragazzino di 13 anni, ho imparato che un bambino non riuscirà mai a leggere e scrivere, a capire l’importanza dell’imparare fino a quando lo si considererà solo un alunno e non un essere umano, un’entità unica fatta di tante stelle, tutte quelle che si vedono nella notte di San Lorenzo.

Mentre un ragazzo trova la proprio strada altri la perdono nel passaggio dell’infanzia all’adolescenza. E noi siamo lì.

E lui il ragazzino con le lentiggini lascia scivolare la sua mano nella mia , dopo aver tolto da un tombino una sudicia monetina. Mi fulmina ridendo sornione. E’ consapevole di avermi spiazzato con quel suo gesto felino. Sa che quell’inaspettata tenerezza gli farà perdere qualche punto nella graduatoria stilata dai suoi compagni, graduatoria che lo ha visto sempre al primo posto per la sua innata indole da temerario delle monellerie. Lui è uno che agli insegnanti dà battaglia, uno che come motto ha "rompere ad oltranza".

Eppure quella volta ha superato se stesso. Potevo aspettarmi che mi desse, così per dispetto, la mano sporca di melma. Questo forse me lo sarei potuta aspettare. E invece no. Mi stava stringendo con l’altra, quella pulita.

" Sto qui con te. Fino al pullman. Va bene?"

Non mi resta che ricambiare la sua richiesta. E dondoliamo le braccia felici. Sì, anch’io.

Forse in classe potrò permettermi di non cacciare più quegli urli isterici che riservavo solo a lui. Magari gli darò la mano. Sporca di gesso, forse. E lui mi darà il meglio di sé per non tradire la nostra complicità.

Scrive molto, e pure bene, il ragazzino con le guance a tempestina. E’ ironico. I suoi racconti mi ricordano un po’ Benni un po’ Zucconi. Per fortuna che quel giorno mi ha dato la mano altrimenti avrei avuto qualche difficoltà ad accorgermi, in tempo, di lui.

Il passato ritorna. Quando si incontrano, per le vie della città, degli uomini che ti dicono " Ti ricordi di me prof?"

Li guardi. Matti a fuoco. Primo banco. Aria spaesata. Voglia di far niente. Noia totale, soprattutto quando si parla di complementi.

"Sì, sei…che grande! Mi sembra impossibile! Che scuola hai fatto?"

"Il Liceo. Anche se voi prof non eravate d’accordo. E ora faccio ingegneria L’ultimo anno. Hai visto che ce l’ho fatta prof?"

E allora capisco al volo che con lui ho fallito perché quando stava con me l’ho perso di vista, magari lusingata dal gruppetto dei bravi, quelli che ti risollevano l’anima, quelli che ti fanno tirare il fiato, quelli che pazientemente implorano un po’ del tuo tempo per loro, quelli che ti seguono ovunque nei labirinti della poesia, che sia Leopardi, Ungaretti, Alberti, quelli che sono disposti a studiare anche le subordinate, pure il latino anche se non è obbligatorio, quelli che raccolgono ogni goccia del tuo sudore e la stampano sul quaderno dei ricordi, quello che ti fanno sentire più grande dei poeti che presenti loro, quelli che ti fanno perdere la tramontana, quelli che ti sono d’aiuto quando sei in tilt.

Ma forse non mi sono accorta di lui perché angosciata dalla presenza del pluriripentente che puntualmente si sedeva sulla cattedra, o meglio, sul registro di classe che stava sulla cattedra. Lo faceva solo nelle mie ore. Non ho mai capito perché. Se ne stava con le gambe a penzoloni, roteava la testa verso di me e con aria di sfida " Io oggi sto qui, prof!" E lì rimaneva fino a quando voleva. Interveniva pure. Poi se decideva andava al posto a lanciare palline di carta o a canticchiare con le cuffiette sulle orecchie. " Un caso complesso – mi aveva avvisato la preside – lo dobbiamo aiutare, è fuori età, ma ha chiesto di far parte di una classe…"

L’ho ritrovato in un negozio di articoli sportivi; con un sorriso infinito mi si è avvicinato " Ciao prof., ti serve qualcosa?" Non stava seduto sul bancone, era composto ed educato ed ora mi ricambiava di tutta la pazienza.

Difficile guardarsi attorno e riuscire a cogliere le singole individualità. Vedere tutto e tutti. Ma ho scelto questo mestiere perché non è concesso essere superficiali, perché la materia prima non è la carta, il libro, la penna rossa, il voto, la burocrazia, ma la materia prima è lo spirito multiforme, imprendibile, imprevedibile.

"Perché non ti fai dare del lei dai tuoi alunni. Noi a scuola non possiamo dire ciao ai nostri insegnanti. Vuol proprio dire che non ti fai rispettare." Mi rimprovera mio figlio. Io non so che rispondere. Perché non voglio creargli confusione, non voglio intromettermi nelle regole della sua scuola, anche se non sono le mie.

E allora gli rispondo come faceva mio padre con me, lui che dava del tu a tutti, indistintamente, perché amava il mondo anglosassone " Gli inglesi non usano la forma di cortesia. Meglio essere diretti. Il tu è più sincero."

Quando un alunno mi dice " ciao prof" so che fra noi non ci sono più barriere, so che quel ciao è un atto d’amore, è un modo per dirmi grazie, o un tentativo per dirmi guardami, ascoltami, non mollarmi.

Il rispetto non è parola pietrificata.

Ogni ragazzo è troppo importante e non lo si può sottomettere all’assurda regola del tu sei piccolo, devi ubbidire, io sono grande e ti posso comandare.

Riccarda Turrina


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