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Risposta a 
Lettera agli Insegnanti italiani di James Hillman

 

Caro Professore,

È la distinzione iniziale che Lei fa, professore, che più mi colpisce: "l’insegnare e l’imparare non devono essere confusi con l’educazione e possono persino essere impediti dall’educazione": E’ una distinzione che va al cuore e per questo inquieta e interroga profondamente.

E allora non posso fare a meno di domandarmi: "Davvero il mio mestiere è al servizio di quello scopo fondamentale che è il dare un aiuto, il fornire un sostegno, l’assecondare la crescita e la vocazione di Alessandra, Clarissa, Antonio, Francesco, Matteo, Benedetta, Elisa?" "O piuttosto è un servomeccanismo di un ingranaggio che ha del minaccioso, fino al punto da apparire alla stregua del Panopticon con il quale Foucault si è apprestato a rappresentarci la scuola?" Lo so, sono domande radicali ma che – di questi tempi – val la pena, e con coraggio, di dar loro cittadinanza.

Lo vedo in questi ragazzi, ma già lo visto nella mia esperienza: "Chi ha immesso nel mio animo la voglia di crescere, di studiare, di ricercare, di scrivere, di leggere, di pensare, di riflettere; questa spinta che mi spinge fin qui, a scrivere a Lei?"

Ho in mente la mia professoressa di italiano del liceo, la sua figura esile e nello stesso tempo rigida: dai suoi occhi trapelava distintamente una pacata disillusione sul mio futuro. Lei e gli altri professori. Per 5 lunghissimi anni, con quel messaggio – che ora riconosco terribile – su quello che sarebbe stato il mio destino.

No, non è stata la scuola. Non è stata la scuola a sollecitare in me quella fiamma, ad accendere quel fuoco di cui Lei parla. Non è stata l’educazione ufficiale a fare da levatrice in quel timido e spaesato ragazzo per quell’uomo che ora mi trovo ad essere. Altri mi hanno insegnato l’insegnare e l’imparare.

Ricordo con viva emozione, e fino alle lacrime, Giovanni. Era un prete. Quella volta disse che era giunto il momento.. Da solo dovevo andare. Avevo solo 18 anni, e quella poteva definirsi semplicemente una piccola parrocchia di campagna: ma era come se dovessi parlare ad un pubblico sconfinato. Io timido, chiuso, timoroso, non apparivo certamente come quello che si dice essere un buon oratore. Lui invece – ostinato qual era - scommise su di me. Mi dette una chance, mi rincuorò e mi sostenne. Sollecitò quell’entusiasmo che sapeva albergare nel mio animo. Era sicuro che il mio coraggio non sarebbe venuto meno.

Lì, in quel rapporto, ho imparato. Lì, ho trovato gli stimoli per studiare, andare avanti, scrivere, superare esami. Eppure lui non mi ha mai insegnato. Mi ha solo saputo ascoltare, consigliare, stare accanto, risvegliare e sollecitare. Lui mi ha mandato ad insegnare, fino al punto che un bel giorno mi ha chiesto di venire nella sua parrocchia affinché potessi insegnare a lui e a tutti i suoi parrocchiani. Non fu la prima volta che mostrò tutto il suo orgoglio – che so ancora oggi immeritato – per me.

Certo scopro, oggi, mia madre che faceva l’insegnante e mio padre che amava la lettura e lo scrivere, all’origine della mia vocazione. Ma fu lui, Giovanni, o meglio l’incontro che con lui ebbi, a spingermi laddove ora mi trovo, quello che credo sia – nonostante tutto – parte della mia dimora, il luogo della mia missione.

Qui, dentro. Nell’istituzione educativa. Nella scuola, alle prese con domande cruciali.

E allora quest’educare insegna l’insegnare e l’imparare, oppure è tempo morto, luogo freddo, una no man’s land? Gardner, che Lei cita, parla dei "compromessi delle risposte corrette" per dire come ben presto gli studenti imparano a rispondere bene, e nel modo voluto, alle domande (e ai compiti) proposte dagli insegnanti. Ma tutto dopo viene dimenticato. Non c’è – sostiene Gardner, vera comprensione.

Fino a qualche tempo fa la scuola primaria, quella di base, non soffriva crisi di identità. Insomma essa dischiudeva, in qualche modo, gli orizzonti della conoscenza. Ora sin da piccoli, e senza che genitori solerti se ne preoccupino, i bambini arrivano a scuola e non solo scrivono, leggono, fanno di conto, ma conoscono aspetti di realtà che l’insegnante stesso ignora.

Anche in Italia ci arrovelliamo, ci scontriamo e ci dividiamo su una riforma del sistema scolastico. E tutto questo agitarsi assume le caratteristiche di una guerra per una scatola al cui interno non c’è pressoché più niente. Litighiamo per un osso quasi del tutto spolpato. Altri – compresi noi della scuola - piano piano, hanno proceduto a svuotarla, rendendola sterile, incapace di sollecitare la fantasia, di risvegliare il senso del mistero, di animare quella voglia di avventura per l’esplorazione del mondo. Il nostro insegnare è definito dall’educare di ieri. E se già il passato segnava una frattura, in quest’oggi ancora più diverso, la distanza si fa enorme. Dunque noi, noi che siamo dentro, rischiamo di essere lontani, molto lontani. Lontani da Alessandra, Clarissa, Antonio, Francesco, Matteo, Benedetta, Elisa!

Eppure intorno a me vedo sorrisi, colgo entusiasmi, rinvengo una voglia di cambiare e migliorare. Trovo passioni non sopite proprio per l’imparare e l’insegnare. Gioia di stare assieme e di sperimentare. Vocazioni che intendono far sì che Alessandra, Clarissa, Antonio, Francesco, Matteo, Benedetta, Elisa si avvicinino, possano incontrare qualcuno di importate, come Giovanni, che scommetta davvero su di loro. Per questo sto dentro con l’atteggiamento serio ed speranzoso, ironico e alacre, tutto teso a non dimenticare tanto quanto ho " imparato" da Foucault, così quanto ho "imparato"da Lei – professore - che ci invita a diffidare dell’"Educazione".

Dott. Marco ORSI
Dirigente Scolastico Circolo Didattico n.7 Lucca


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