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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
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Incubo

di Cosimo De Nitto

 

Vorrei svegliarmi da un cattivo sogno che ormai è divenuto un incubo.

Vorrei svegliarmi in un paese normale in cui le cose, le persone, le istituzioni, i comportamenti sociali possano essere chiamati col loro nome.

In un paese in cui quando si parla di scuola si intende soprattutto dell'apprendere e dell'insegnare, dell'educazione e della formazione, di pedagogia e di didattica, di conoscenze e competenze, di decondizionamento e integrazione, di contenuti, saperi e istruzione.

E invece da anni, da troppi anni, la parola scuola è ormai divenuta sinonimo di economia, tagli all'occupazione e alle spese necessarie di funzionamento, spreco. Da anni siamo perseguitati dall'incubo che si manifesta sotto forma di teorema: la cultura è un peso economico, non si può nemmeno mangiare; se si tagliano i fondi aumenta l'efficienza, se si sopprimono posti di lavoro aumenta il merito, per premiare pochi occorre sottrarre ai molti, se aumentano gli alunni

per classe si insegna e si apprende meglio, se i docenti e dirigenti li si riduce al silenzio possono insegnare meglio l'esercizio critico della mente e il senso della cittadinanza attiva e democratica alle giovani generazioni.

E la misurazione (di che, di cosa), presunta oggettiva, soppianta la valutazione, colpevolmente soggettiva. Il numero-voto col suo spessore di quantità, misurabilità, chiarezza oggettiva(?) risolve i problemi della complessa difficoltà di descrivere i processi di crescita dei piccoli allievi della primaria. Questionari, test, quiz prendono il posto dell'esposizione, narrazione, espressione verbale e non dei processi crescita.

Vorrei svegliarmi in un paese in cui la parola Riforma non sia  usata-abusata come un "idola fori" di baconiana memoria o, peggio ancora, come un'arma per colpire un nemico, ma per indicare un processo di miglioramento delle condizioni  organizzate di vita e di lavoro dei cives. Una parola da usare con discrezione, poche volte  e per indicare grandi cambiamenti globali di settori importanti del vivere comune.

Vorrei svegliarmi in un paese in cui l'attributo "storico" non si accompagnasse a vicende, eventi, personaggi  che la Storia sicuramente metabolizzerà  e confinerà in una pietosa parentesi o accidente.

Vorrei svegliarmi in un paese normale in cui la più alta forma di pedagogia è rappresentata dalla Politica e dalle Istituzioni, con esempi concreti di vita morigerata, sobria, moderata da offrire alle giovani generazioni come modello cui ispirarsi nel vivere comune e individuale.

Vorrei svegliarmi in un paese in cui una ragazzina di 18 anni frequenta l'ultimo anno delle superiori ed è intenta a costruire la sua mente e la sua anima e non a come meglio vendere il proprio corpo.

Vorrei svegliarmi in un paese in cui il conversare civile prende ad esempio la dignità degli operai di Mirafiori con il loro drammatico ma composto discutere, anche quando è in gioco la  vita loro e quella delle proprie famiglie. Non del chiacchiericcio insulso, delle aggressioni verbali urlate, degli insulti, della sguaiataggine dei tanti nani, ballerine, cortigiani sapientemente condotti dai troppi maggiordomi del potere che imperversano sui media, che producono un rumore tossico per le giovani generazioni.

 


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