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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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La mammana

In quella sera fredda di Dicembre, Don Pasqualino era seduto dietro la sua scrivania nel grande studio del suo vecchio palazzo, intento a riguardare gli incartamenti inerenti ad un grosso processo che doveva portare in tribunale da lì a pochi giorni. Non riusciva, però, a trovare la concentrazione giusta per lavorare. Aveva la mente altrove. Spesso si fermava a guardare il soffitto affrescato o gli enormi scaffali carichi di libri o l'antica icona della Vergine appesa alla parete di fronte: i suoi occhi fissavano tutto, ma non riuscivano a focalizzare nulla, non riuscivano a vedere.
"Sarà questa serata uggiosa - pensava ingannando se stesso - con questa pioggerellina fitta, insistente, se almeno ci fosse qui mio cugino Ciccillo, lui si che saprebbe consigliarmi!".
Don Pasqualino era un nobiluomo sui trentacinque anni, appartenente all'aristocrazia salentina nonché un avvocato di prestigio. La famiglia non aveva voluto che esercitasse la professione perché era benestante e poteva tranquillamente vivere di rendita. Così egli, laureatosi a pieni voti, presso la regia università di Napoli, avvocato brillante e convincente nelle arringhe, si trovava a gestire il suo consistente patrimonio e a discutere solo cause di parenti ed amici,  mai a scopo di lucro. Un altro giovane al posto suo sarebbe stato sicuramente sprezzante e protervo, egli era mite e pacato, umile e modesto.
All'epoca era follemente innamorato di Emilia, l'ostetrica del paese, una bella ragazza mora dallo sguardo dolce e conturbante, dalle labbra carnose e dalle forme morbide e sensuali. Più volte si erano incontrati e avevano dato sfogo alla loro passione. Ultimamente, però, ella aveva capito che per la loro storia non c'era futuro e si era allontanata.
La madre di Don Pasqualino si era recata in segreto a trovarla e chiaramente le aveva fatto capire che una donna che non fosse di nobili natali, per di più una levatrice, nella sua famiglia non sarebbe mai entrata, "Una mammana mio figlio la può portare a letto ma non all'altare" - le aveva urlato in faccia piena di boria. Così Emilia aveva preferito allontanare il suo innamorato facendogli credere di essersi invaghita di un altro.
Don Pasqualino dapprima era stato alquanto scettico ma poi, vistosi respinto più volte, aveva finito col crederle. Non riusciva, però, a liberare la sua mente da quel pensiero che lo ossessionava, non riusciva a sciogliere le catene che lo tenevano stretto a lei.
Una levatrice all'epoca non era ben vista, aveva fatto studi anatomici troppo approfonditi per una donna e praticando la sua professione poteva essere alquanto disinibita e ciò deponeva davvero male. Don Pasqualino odiava queste fisime di paese e sperava che la sua famiglia, in cui si respirava una certa cultura, riuscisse pian piano a comprendere il suo amore e superare questi concetti ma, ahimè, si sbagliava. Capiva il suo stato solo il cugino Ciccillo, giovane allegro e pimpante, che trovava sempre il modo di fargli tornare il buon umore insieme ai suoi amici gioviali e buontemponi.
Quella sera, però, Pasqualino era solo, il cugino si trovava a Napoli dove stava ultimando i suoi studi in medicina e non c'era davvero nessuno a distrarlo dai suoi pensieri e suggerirgli, come era solito fare Ciccillo, di darsi pace che tanto poteva trattarsi di una cotta e che tutte le infatuazioni prima o poi passano e alla fine a tutto c'è rimedio. Avrebbe tanto voluto parlare con qualcuno, magari passeggiare, pensò che forse un po' d'aria fresca gli avrebbe fatto bene e così infilò il paltò e si avviò verso la porta. Una donna di servizio gli corse incontro con una camicia che profumava di bucato. Era sua abitudine cambiarsi la camicia prima di uscire perché gli piaceva essere bene in ordine e odiava l'unto su collo e polsini. Quella sera, però,  allontanò la domestica con un cenno e uscì.
Il suo palazzo si affacciava sulla piazza del paese e quando Don Pasqualino uscì in strada l'orologio del Comune scandì venti rintocchi: era buio pesto e continuava a piovigginare. Camminò, camminò a lungo, sentiva un gran bisogno, di evadere entrò nell'unico caffè del paese e bevve per scaldarsi e scacciare i brutti pensieri che si affollavano nella mente. Non servì a nulla. Allora imboccò la strada che portava a casa di Emilia, forse aveva bevuto qualche bicchiere di troppo. Non c'era anima viva per strada ed era una notte senza luna e senza stelle. Pasqualino era giunto proprio vicino alla casa della sua amata e stava per bussare all'uscio quando udì passi in fondo alla strada. S'infilò in un vicolo e attese trattenendo il fiato: vide un uomo che bussava alla porta della levatrice, lei aprì e i due parlarono. Scambiarono poche parole, poi lei uscì. Pasqualino balzò fuori dal buio e le si avvicinò. "Ho bisogno di te"- le sussurrò. La donna lo scansò e proseguì con passo frettoloso. "Non respingermi, ho tanto bisogno di te!"- pregò ancora. Ma lei lo evitò e continuò per la sua strada. Pasqualino perse il controllo, estrasse il revolver che aveva in tasca ed esplose due colpi. La donna, colpita al petto, si accasciò e rimase supina sul selciato in una pozza di sangue. Don Pasqualino guardò sgomento, capì quel che aveva commesso e fuggì. Rientrò a casa, bevve un cordiale e andò nello studio, sedette alla scrivania e vi rimase per qualche ora. Poi verso mezzanotte la quiete del palazzo fu scossa da uno sparo. I famigliari lo trovarono riverso sulla scrivania con un foro alla tempia.
L'indomani in paese tutti parlavano di questo doppio dramma che era avvenuto nella notte. Le critiche mordaci della gente erano tutte contro la mammana che aveva irretito e poi respinto e tradito un simile galantuomo. Si seppe poi che quella notte la mammana era stata chiamata per far nascere un bambino e che non c'era sotto alcuna tresca . -Puro fatalismo- si disse allora per giustificare questo dramma della gelosia consumatosi nei primi del '900.
L'indomani stesso il cugino Ciccillo fu informato della disgrazia con una lettera inviatagli dal padre, nobiluomo nonché sindaco del paese.
"Vinum et mulieres apostatare hominem faciunt" è l'aforisma col quale il padre chiudeva la lettera invitando il figlio alla saggezza e alla moderazione.
La novella fa riferimento ad un fatto realmente accaduto anche se narrato secondo la mia interpretazione.
Particolare minimo, forse trascurabile: Ciccillo era il mio bisnonno materno mentre il bambino che quella notte venne alla luce senza l'aiuto della mammana era il fratello più piccolo della mia bisnonna Elena e la lettera spedita a Ciccillo è custodita nel mio ambiente magico, un antico studio pieno zeppo di libri e ricordi, dove spesso mi rifugio per curiosare e…. sognare.

PAOLA  BRAY
Sedici anni, Soleto (Lecce)
Liceo Scientifico “Vallone” , Galatina (Lecce)

 


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